Rivelazione

La difficoltà di esprimersi dal punto di vista fenomenologico intorno alla «rivelazione» è attestata, com’è noto, dalla vasta letteratura e dagli studi riguardanti la fenomenologia della religione, già a partire dalle indagini di van der Leeuw, che si esprimeva sul tema con parole inequivocabili sulla pertinenza della materia in oggetto, affermando, tra l’altro, che “la rivelazione è l’atto di Dio”, ciò di cui la fenomenologia non può parlare, ma solo ascoltare il credente riguardo a ciò che sente e che a suo avviso si compie nella rivelazione. Dunque, in generale, il termine «rivelazione» rinvia a Dio, ovvero a ciò che è sacro, il cui nucleo è dato dalla potenza; pertanto, solo le rivelazioni potenti, in senso sia benigno che maligno, sono manifestazioni del Sacro: l’uomo, che è nella condizione di impotenza non può che cercare di «riempirsi» di potenza, ovvero, ciò di cui è privo.

L’antropologia fenomenologica, invece, tenta di indicare un’interpretazione sulla «rivelazione», rifendosi ad una tipologia manifestativa niente affatto assimilabile a quella «fenomenica», anzi, contrapposta ad essa, e, soprattutto, non attribuendola escusivamente alla sacralità. Infatti, la manifestazione «rivelativa», non conoscendo per nulla la frattura generatasi in Occidente tra l’apparire e l’essere, di principio, testimonia il reale senza resti, ovvero senza nascondimenti, né rimandi ulteriori rispetto a ciò viene testimoniato dalla presenza reale «pesante». Il termine «reale» non rimanda affatto al significato di «materiale», né di «fisico», e ancor meno di «oggettivo», bensì all’efficacia esaustiva di una presenza iletizzata, ritenuta, nell’universo mitico-rituale, portatrice di esistenza e di senso. La rivelazione esibisce pienamente il proprio contenuto di senso ed esistenza e le ambiguità non sono intrinseche ad essa, come nel caso della manifestazione fenomenica, bensì tendenzialmente estrinseche al contenuto rivelativo stesso. Nel senso che, di principio, la rivelazione non è ambigua, ma può esserlo di fatto; al contrario del fenomeno che, di principio, è ambiguo, ma può essere saturo di fatto. La manifestazione rivelativa non può strutturalmente darsi ad una coscienza soggettiva, con una noesis centrata in un Io, bensì può soltanto darsi ad una noesis di tipo impersonale. Una siffatta tipologia manifestativa è dovuta, quindi, ad una particolare postura coscienziale, ovvero ad un modo di stare al mondo, che, riguardo al senso, non sembra avere analogie con la postura obiettivante, caratterizzante l’Occidente: si tratta della postura rivelativa. L’antropologia fenomenologica ha individuato nella «rivelazione» il correlato noematico riferito ad una coscienza impersonale, impossibilitata, per essenza, a gettare di fronte a sé un oggetto fenomenico.
Tale atteggiamento coscienziale, pervasivo nei contesti mitico-rituali a fondamento sacrale, «vive» in manifestazioni di tipo rivelativo che possono avere sia un’essenza sacra, sia profana. Nel senso che, in siffatti contesti culturali, non tutto ciò che si manifesta è sacro, ma tutto ciò che si manifesta è rivelato. Infatti, solo una ierofanìa è cratofanica, cioè solo se la manifestazione rivelativa elargisce o sottrae all’uomo senso ed esistenza può attestare la sua potenza e dunque il proprio contenuto sacrale.

 



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