Gianluca USTORI

 

 

Considerazioni fenomenologiche sul tempo:

 Husserl e oltre

 

 

 

 

 

Introduzione

1. Husserl e il tempo fenomenologico

1.1. L’atmosfera culturale in cui ha origine il lavoro di Husserl

1.2. La riduzione al vissuto

1.3. La struttura del vissuto temporale


2. I contributi alla fenomenologia di A. Ales Bello e di D. A. Conci

2.1. Una nuova fenomenologia

2.2. A. Ales Bello: una archeologia fenomenologica del tempo

2.3. D. A. Conci: tempi che salvano

Appendice: considerazioni sulla struttura temporale di alcune lingue antiche


Bibliografia

 

 

 

 

Introduzione

 

In questo breve lavoro affronterò l’analisi fenomenologica del tempo compiuta da Edmund Husserl, cercando di precisarne i caratteri essenziali, in riferimento alle sue lezioni del primo decennio del secolo passato1. Svilupperò in seguito la questione del tempo, seguendo le riflessioni di due fenomenologi italiani contemporanei, Angela Ales Bello e Domenico Antonino Conci, che hanno proseguito le ricerche di Husserl, riformando la struttura stessa dell’analisi fenomenologica, ed aprendola al confronto interculturale. Concluderò con una breve appendice in cui compio alcune considerazioni fenomenologiche sulla struttura temporale di alcune lingue antiche.

 

 

1. Husserl e il tempo fenomenologico

 

1.1. L’atmosfera culturale in cui ha origine il lavoro di Husserl

 

Negli anni a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento la questione del tempo, per altro da sempre al centro della riflessione filosofica, è stata oggetto di molteplici approcci, a partire dalle discipline più varie. Per la letteratura basti pensare ai sette volumi di Marcel Proust sulla Ricerca del tempo perduto, o all’Ulisse di James Joyce, o a Gita al faro di Virginia Woolf, opere ed autori simbolo di un’intera epoca. Per la filosofia il primo nome da citare è Henri Bergson, per il quale il tempo è addirittura il filo conduttore dell’intera riflessione filosofica2, oltre naturalmente ad Husserl, di cui ci occuperemo in seguito.

Questa riflessione letteraria e filosofica sul tempo si inserisce nel clima culturale post positivistico, quello in cui nascono nuove prospettive quali lo spiritualismo, la psicanalisi, la stessa fenomenologia. Non a caso tutti gli autori sopra citati vanno oltre il tempo matematico della fisica newtoniana, cercando le risposte dentro la coscienza umana, e legando in certi casi (vedi Bergson) la ricerca sul tempo a quella sul rapporto mente-corpo3. Anche nella fisica, del resto, quei decenni di fine Ottocento stavano portando radicali cambiamenti, riguardo ai quali la questione temporale non era affatto marginale. Dal tempo assoluto di Newton, “unico, vero e matematico”, la fisica dell’Ottocento si allontana già con lo studio dei processi irreversibili in termodinamica, e con la connessa questione della “freccia del tempo”4. Nel nuovo secolo ulteriori cambiamenti si hanno con Einstein (dipendenza degli intervalli temporali dal sistema di riferimento), nonché con le nuove prospettive della meccanica quantistica.

In questo clima, pressoché contemporaneamente alle prime pubblicazioni di Bergson (ultimo decennio del XIX° secolo), Edmund Husserl inizia ad interessarsi alla questione del tempo, avendo come punto di riferimento il suo maestro Franz Brentano, che aveva trattato la questione in alcune lezioni a cui Husserl aveva preso parte. Husserl non ha pubblicato direttamente nulla al riguardo, e come per molte altre sue riflessioni, ha lasciato una quantità enorme di manoscritti, che preparava in vista dei corsi universitari5. Le lezioni sulla coscienza interna del tempo furono svolte nell’anno 1905, ed il corpo centrale dei suoi manoscritti riguarda dunque questa precisa epoca: nell’edizione italiana curata da Alfredo Marini, i testi al riguardo costituiscono la prima parte della sezione A6. Tuttavia anche in seguito Husserl ha scritto alcune aggiunte ed integrazioni (anni 1905-1910), nonché molti testi integrativi (alcuni risalenti al 1893 ed altri posteriori, fino al 1917), che costituiscono la seconda parte della sezione A e l’intera sezione B dell’edizione a cui ci riferiamo7.

Edith Stein, assistente di Husserl a Friburgo negli anni 1916-1918, “non soltanto si occupò (…) di ordinarne i manoscritti, ma con straordinaria intelligenza, sorprendente efficienza e dedizione ammirevole, si preoccupò anche di elaborarne alcuni in vista di una possibile pubblicazione”8. La Stein lavorò ai manoscritti sulla coscienza interna del tempo nel luglio 1917, ed il risultato del suo lavoro fu da Husserl, nel 1926, consegnato a Martin Heidegger, che giunse a pubblicarlo nel 19289.

 

 

1.2. La riduzione al vissuto

 

Il punto di partenza di Husserl è la messa fuori gioco del tempo obbiettivo, nelle sue caratterizzazioni di tempo fisico o anche psicologico.

 

Ciò che intendiamo fare è un’analisi fenomenologica del tempo. Questo implica, come in tutte le analisi del genere, la totale esclusione di supposizioni, affermazioni, convinzioni quali che siano, relative al tempo obbiettivo (cioè di tutte le presupposizioni trascendenti di alcunché d’esistente).10

 

Nonostante sia interessante studiare i rapporti tra tempo psicologico e tempo fisico,

 

I compiti della fenomenologia non sono però questi. Come la cosa reale, il mondo reale, non è un dato fenomenologico, così non lo è neppure il tempo mondano, il tempo reale, il tempo della natura nel senso delle scienze della natura, né quello della stessa psicologia in quanto scienza naturale dello psichico.11

 

Non dobbiamo assolutamente identificare, dunque, il tempo interiore della coscienza, o tempo fenomenologico, con il tempo psicologico o psichico. Quest’ultimo è un concetto empirico appartenente a quella scienza empirica che è la psicologia, il quale porta con sé dicotomie quali interno-esterno, o mente-corpo, facenti parte di quella disposizione naturale verso il mondo che Husserl è deciso a mettere fuori gioco12. Il tempo soggettivo privato, contrapposto al tempo oggettivo della fisica, non possiede del resto alcun carattere di fondamento13: solo una durata intrinsecamente reale può costituire il concreto fondamento immanente della nozione di tempo e di divenire.

 

Ma ciò che accogliamo… è il tempo che appare, la durata che appare in quanto tale. Queste però sono datità assolute, di cui sarebbe insensato dubitare. In effetti, finiamo anche con l’assumere un tempo che è, ma questo non è il tempo del mondo dell’esperienza, bensì il tempo immanente del flusso di coscienza.14

 

I termini trascendente e immanente non hanno in Husserl alcun significato mistico o religioso: trascendente è tutto ciò che va oltre il vissuto, che non è primario ma costruito. Ciò viene spiegato dal nostro in relazione sia allo spazio che al tempo15, sottolineando l’”astrazione da ogni interpretazione trascendente” e la riduzione ai “contenuti primari dati”16.

 

 

1.3. La struttura del vissuto temporale

 

La struttura fondamentale del tempo presentata da Husserl distingue, come tutta la riflessione occidentale, la realtà degli eventi attualmente presenti (i soli che veramente sono) dall’idealità di quelli del passato (che non sono più, e vivono solo nel vissuto del ricordo-rimemorazione) e del futuro (che non sono ancora, e vivono solo nel vissuto dell’aspettazione-attesa).

Il presente, a sua volta, non è caratterizzato da alcuna atomicità, né da una qualunque struttura puntuale o istantanea: esso è invece un microcosmo composto dalla sintesi di protensioni, ritensioni, e dal loro limite che le congiunge, l’ora.

Uno schema approssimativo può essere il seguente (Figura 1):

 

Figura 1: Schema della struttura temporale husserliana.

 

Per comprendere la sfera del presente, Husserl considera spesso l’esempio dell’ascolto di una melodia. Nonostante essa sia una successione di suoni, noi la percepiamo come diversità costituita in unità, avendo cioè una esperienza della successione, e non solo una successione di esperienze, ciascuna istantanea e slegata dalle altre.

 

Nella “percezione della melodia”… diciamo l’intiera melodia, melodia percepita, benché come si vede, percepito sia solamente il punto ora. Procediamo così perché… l’unità della coscienza ritensionale “tiene saldi” ancora nella coscienza i suoni decorsi stessi, e produce via via l’unità della coscienza relativa all’oggetto temporale unitario, alla melodia… L’intiera melodia… appare come presente finché ancora risuona, finché i suoni ad essa appartenenti, intesi in un unico contesto apprensionale, ancora risuonano.17

 

Interessante è pure l’esempio di Paul Fraisse:

 

Parimenti, nella comprensione di un discorso, il mio “presente” consiste sempre nell’intera frase significativa, certo non nella fine di una frase seguita da un bit della frase successiva con uno scivolamento continuo che renderebbe l’intera espressione inintelligibile.18

 

Interviene dunque sempre un elemento di intenzionalità a definire l’unità globale di un accadimento vissuto, poiché è il significato complessivo della percezione temporale che definisce ritmo e durata di un accadimento presente.19 Ogni accadimento presente è dunque sempre analizzabile in una fase presente-presente (l’impressione), in una appena-passata (la ritensione), ed in una che-sta-per-accadere (la protensione):

 

L’atto costituito, composto di coscienza d’ora e di coscienza ritensionale è percezione adeguata dell’oggetto temporale. Quest’ultimo dovrà includere differenze temporali e le differenze temporali si costituiscono appunto in quegli atti che sono la coscienza originaria, la protensione e la ritensione.20

 

La ritensione (detta anche da Husserl “ricordo primario”) è dunque quell’atto dell’apprensione temporale che ci rende consapevoli, nell’”adesso” del presente, delle fasi temporali immediatamente passate.

 

L’ora-di-suono si tramuta in suono che è stato, la coscienza impressionale fluisce e trapassa costantemente in una coscienza ritensionale sempre nuova, (…) coscienza dell’appena stato.21

 

La protensione, al contrario, è quell’atto dell’apprensione temporale che ci permette di anticipare fasi non ancora vissute, ma alle quali si tende nella continuità dell’esperienza temporale in base alle regolarità esperite nel vissuto. Il rapporto tra ritensioni e protensioni non è comunque simmetrico: mentre le ritensioni sono “piene”, le protensioni sono “vuote”, e si riempiono nel corso della durata.

 

Ogni processo originariamente costituente è animato da protensioni che costituiscono e captano a vuoto ciò che ha da venire, come tale, e lo portano a compimento.22

 

Nell’ora, vera e propria dimensione originaria della temporalità, l’oggetto temporale immanente “appare” in un flusso costante, ossia “è dato”. Questo è il “punto d’origine”, l’”impressione originaria”23, e tuttavia non ha autonoma sussistenza:

 

la fase dell’”ora” è pensabile solo come limite di una continuità di ritensioni.24

 

L’ora non è altro, dunque che il confine tra le protensioni e le ritensioni, e non ha alcuna natura puntuale o istantanea. Il presente, in cui continuamente si costituiscono nuove protensioni, che si riempiono nell’ora, si conservano nelle ritensioni, per poi perdersi nell’oscurità del passato, acquisisce dunque un senso di spessore.

Importante è non confondere protensione con aspettazione-attesa o ritensione con ricordo-rimemorazione. Visto che, a prescindere dalla stessa differenza tra “pieno” e “vuoto” delineata sopra tra ritensioni e protensioni, “l’intuizione aspettativa è il rovescio dell’intuizione memorativa”25, Husserl si limita ad un’approfondita analisi della “fortissima differenza”26 tra ritensione e rimemorazione, da lui detti pure ricordo primario e secondario. Nella rimemorazione avviene una ri-produzione, o ri-presentazione dell’esperienza passata. Si tratta dunque di un nuovo atto di coscienza, mentre la ritensione fa parte dell’unico atto di percezione del presente.

 

La modificazione della coscienza che tramuta un “ora” originario in uno riprodotto, è qualcosa di completamente diverso da quella modificazione che tramuta sia l’”ora” originario sia quello riprodotto27, in “passato”. Quest’ultima modificazione ha il carattere di un adombramento [Abschattung] continuo; come l’”ora” continuamente digrada nel passato e nel trapassato, così anche la coscienza intuitiva del tempo digrada continuamente. Per contro, non c’è alcun trapasso continuo dalla percezione nella fantasia28, o dall’impressione nella riproduzione.29

 

Mentre la ritensione è l’adombrarsi nell’”appena passato” dell’impressione originaria, e fa parte della sfera del presente, la rimemorazione è dunque la libera ri-presentazione dell’intero vissuto, con le sue fasi protensionali e ritensionali e con il suo sprofondare continuo dal futuro nel passato attraverso l’ora, che si ri-presenta completamente di nuovo. Il presente ripresentato ha dunque la stessa struttura “spessa” del presente originario. Tuttavia

 

vi sono notevoli diversità tra il deflusso originario, e quello riprodotto, del “risprofondare”. L’originario apparire, e defluire dei modi di deflusso nell’apparire, è qualcosa di fisso, di cui si ha coscienza per “affezione”, e su cui si può solo posare lo sguardo. Invece il presentificare è qualcosa di libero, è un libero percorrere, e possiamo usare della presentificazione “più rapidamente” o “più lentamente”, più chiaramente ed esplicitamente o più confusamente, fulmineamente ed in un colpo solo o per passi articolati, ecc.30

 

C’è infine una differenza riguardo all’evidenza della riproduzione: mentre ciò che si ha ritensionalmente nella coscienza è assolutamente certo, l’evento rimemorativamente presente può avere degli errori.31

Ecco come Husserl sintetizza la relazione tra la sfera del presente (con la sua struttura), le rimemorazioni e le aspettazioni:

 

I contenuti immanenti sono ciò che sono in quanto, nella loro durata “attuale”, anticipano un futuro e rimandano a un passato. A proposito di questo rimandare in avanti e indietro, bisogna però distinguere ancora: in ogni fase originaria che originariamente costituisce il contenuto immanente, noi abbiamo ritensioni delle precedenti e protensioni delle future fasi di questo stesso contenuto e tali protensioni si riempiono finché, appunto, questo contenuto dura. Queste “determinate” ritensioni e protensioni hanno un orizzonte oscuro, scorrono trapassando in altre, indeterminate, relative al deflusso passato o futuro della corrente, attraverso le quali il contenuto attuale si inserisce nell’unità della corrente. Dalle ritensioni o protensioni dobbiamo poi distinguere le rimemorazioni e le aspettazioni che non portano sulle fasi costituenti del vissuto immanente, ma presentificano contenuti immanenti passati o futuri.32

 

Per concludere questa analisi occorre commentare un ultimo aspetto del grafico temporale sopra esposto. Abbiamo cercato di commentarlo a partire dal centro, ossia dal presente, per poi estere le considerazioni al passato e al futuro. Resta da dire che la struttura generale del tempo gode di proprietà quali unicità, continuità, linearità, direzionalità (ossia irreversibilità), infinità.

Il tempo è dunque ben rappresentabile con una retta orientata. Come spiega Husserl la genesi fenomenologica di questi caratteri del tempo?

 

Perché questa coscienza si stabilisca, svolge un’importante funzione il ricordo riproduttivo, sia esso intuitivo o nella forma di intuizioni vuote. Un ricordo riproduttivo può fare, e ripetutamente, di ogni istante retrocesso il punto zero di un’intuizione. Il precedente campo temporale, nel quale ciò che attualmente è retrocesso era un “ora”, viene riprodotto, e l’”ora” riprodotto viene identificato con l’istante ancora vivo nel ricordo fresco: l’intenzione individuale è la stessa.33

 

Husserl spiega dunque che riproducendo e rivivendo rimemorativamente un istante passato, si ricrea la stessa struttura spessa del presente, con le sue protensioni e ritensioni, e ci rendiamo conto che anche quell’istante aveva un “appena passato”.

 

È evidente che ogni istante temporale ha il suo “prima” e il suo “dopo”, e che i punti e le linee precedenti non possono accumularsi nel senso di una approssimazione a un limite matematico, come ad esempio il limite dell’intensità. Se ci fosse un punto limite, vi corrisponderebbe un “ora” privo di precedenti, il che è essenzialmente impossibile. Un “ora” è sempre ed essenzialmente un punto marginale di un tratto temporale. 34

 

Visto dunque che questa successione regressiva non può avere un punto d’accumulazione come avviene nei limiti dell’analisi matematica35, si giunge all’evidenza di una successione infinita di campi temporali, verso il passato, e, specularmente, verso il futuro. Ed infine, si chiede Husserl,

 

come si arriva, con tale sfilata in successione di campi temporali, all’unico tempo obbiettivo, col suo ordine unico e fisso? La risposta è data dalla progressiva sovrapposizione dei campi temporali che non è, in verità, una mera sfilata temporale di campi temporali. Le parti che si sovrappongono vengono identificate individualmente durante l’arretramento intuitivamente continuo nel passato.36

 

Dopo questi ragionamenti il nostro filosofo giunge a “fondamentali evidenze temporali che bisogna cogliere in modo immediato”, la prima delle quali riguarda la simultaneità.

 

Se, per cominciare, confrontiamo tra loro due sensazioni originarie, o piuttosto, correlativamente, due datità originarie che appaiono realmente ambedue in una coscienza come datiti originarie, come “ora”, esse si distingueranno l’una dall’altra per la loro materia, ma sono simultanee, hanno lo stesso posto temporale assoluto, sono ambedue ora  e nello stesso “ora” hanno necessariamente lo stesso valore di posto temporale.37

 

In seguito Husserl elenca come evidenze le proprietà che forniscono alla retta temporale quella struttura di continuità e di ordinamento totale prima38 accennata.39

 

 

2. I contributi alla fenomenologia di A. Ales Bello e di D. A. Conci

 

2.1. Una nuova fenomenologia

 

Negli ultimi tre decenni il panorama filosofico ha assistito, nell’ambito di un generale rinnovato interesse per la fenomenologia in tutta Europa (e anche oltre oceano), ad interessanti approfondimenti e “riforme” della stessa metodologia husserliana. Gli autori a cui qui ci riferiamo sono Angela Ales Bello e Domenico Antonino Conci, i quali hanno sviluppato una prospettiva di fenomenologia radicale che, mettendo a frutto le intuizioni di Husserl, ne ha tuttavia individuati i limiti ed ha cercato di superarli. Già alla fine degli anni Sessanta Domenico Antonino Conci ha rilevato, nei suoi primi lavori40, l’inadeguatezza del fondamento intuitivo dell’analitica husserliana, ed ha cercato di approfondire il momento centrale del metodo fenomenologico: l’epoché.

Husserl, dopo esser regredito dalle cose alle essenze tramite la riduzione eidetica, e dopo esser giunto al polo egologico tramite la riduzione trascendentale, ritenne di aver raggiunto un originario (Ur-Ich) su cui fondare la filosofia come “scienza rigorosa”. Conci ha tuttavia sospeso anche il polo egologico, l’io trascendentale, individuato come punto debole ed ingiustificato dell’analitica husserliana, e considerando originario soltanto il vissuto impersonale, che si presenta come Selbstgegebenheit (“autodatità” ossia datità che la coscienza riceve e non pone) e come Erfüllung (“riempimento”, ossia autosufficienza che non necessita di integrazioni noetiche esterne).

Isolando dunque la particolare struttura del logos dell’obiettivazione e della soggettivazione, caratteristico del pensiero occidentale, la fenomenologia radicale41 di Conci si è aperta al confronto con le scienze umane, in particolare con l’antropologia culturale, tematizzando, oltre i confini dell’Occidente, la più generale dimensione cognitiva delle culture non influenzate dal logos greco, e fondate invece sulla cultura mitico-rituale, in cui il sacro è pervasivo e viene continuamente in soccorso della debolezza della usuale vita profana dell’uomo. Conci ha identificato in esse le particolari strutture di uno spazio dell’ubiquità, di un tempo della ripetizione e di una logica della metamorfosi.42

Del resto, come ha mostrato Angela Ales Bello43 nella sua approfondita analisi dei manoscritti inediti di Husserl, il nostro filosofo non era estraneo al confronto con le culture non europee. Già Husserl aveva infatti parlato di una “archeologia fenomenologica”44, intendendo, afferma Ales Bello, un’“operazione di scavo negli elementi costitutivi di ciò che è costruito per mezzo delle operazioni di senso appercettive che ci si offrono già pronte e formano il mondo dell’esperienza”45. Si tratta in altri termini di scavare fino alle unità di senso che fondano la validità d’essere del nostro mondo, di ripercorrere il processo di formazione della nostra conoscenza, in confronto con altri mondi e altre conoscenze. Nonostante il suo proposito, Husserl non ha portato avanti tale ricerca, limitandosi alla sfera egologico-trascendentale, all’interno della quale del resto è impossibile aprirsi alla dimensione non egologica, ossia impersonale, delle culture non occidentali, ossia non toccate dal logos greco.

Ales Bello afferma comunque che “la genialità di Husserl consiste… non solo nell’aver individuato i vissuti, ma nell’aver sottolineato la loro struttura e quindi le due componenti, quella noetica e quella hyletica o materiale”46. Husserl ha sì individuato l’ambito di ricerca dell’hyletica fenomenologica, considerandola tuttavia assai meno fruttuosa della corrispondente noetica47. In realtà Ales Bello e Conci hanno compreso come la superiorità che Husserl attribuisce alla sfera noetica è legata allo straordinario sviluppo che tale dimensione ha avuto nella cultura occidentale (che, eccezione tra le culture del pianeta, su di essa si è addirittura costruita): nelle culture cosiddette primitive (o non greche, o pre-greche) è invece determinante il momento hyletico48.

Cercherò di riassumere di seguito alcuni risultati interessanti di questo nuovo approccio fenomenologico, riguardanti il tema del tempo.

 

 

2.2. A. Ales Bello: un’archeologia fenomenologica del tempo

 

Angela Ales Bello ha cercato di indagare il vissuto temporale (e spaziale) di culture “altre” rispetto alla nostra, mostrando “la fecondità dell’approccio fenomenologico in un ambito di fenomeni che rimangono incomprensibili se osservati e descritti utilizzando solo le nostre categorie mentali”49. L’antropologia culturale di studiosi come L. Lévy-Bruhl o C. Lévi-Strauss, pur nei suoi indubbi risultati, risulta infatti costruita da un’ottica strettamente eurocentrica, in cui, forse a causa della generale formazione positivistica degli antropologi, si arriva immancabilmente “a ritenere la cultura scientifica del logos occidentale come un punto d’arrivo”50.

Per entrare nel vissuto temporale di tali culture occorre operare quella epoché radicale che ci permette di “accettare ciò che si dà, nei limiti in cui si dà, e ciò che si manifesta, così come si manifesta”51. Operando questa epoché giungiamo dunque a quei vissuti spazio-temporali impersonali in cui essenziale è il momento hyletico.

La preminenza di tale momento si nota nel fatto che nelle culture in questione il tempo di una determinata cosa non può esistere prima di quella cosa stessa, e si caratterizza in base al contenuto hyletico che esprime: ciò comporta, tra l’altro che esistano tanti tempi quanti sono i relativi dati iletici. Il tempo è dunque fratto, è un sovrapporsi paratattico di regioni temporali indipendenti.52

Ales Bello rintraccia in alcune culture africane contemporanee, tra le poche ancora (per quanto?) estranee al logos occidentale,  dei vissuti impersonali in cui emerge una spazio-temporalità del tutto “altra”. Citando lo studioso J. Mbiti si trova che in tali culture

 

lo spazio e il tempo sono intimamente legati e spesso si usa la stessa parola per entrambi53. Come per il tempo, è il contenuto a definire lo spazio. Quello che importa alla gente è ciò che è geograficamente vicino, proprio come il sasa abbraccia la vita che la gente esperimenta direttamente.54

 

Due termini, sasa e zamani, aiutano a comprendere questa concezione “altra” del tempo. Afferma Mbiti che

 

Sasa dà l’idea dell’immediatezza, della vicinanza e della momentaneità: è il periodo che tocca immediatamente le persone, dal momento che è “dove” e “quando” essi esistono. Ciò che dovrebbe essere futuro è estremamente breve... Zamani non è limitato a ciò che potremmo chiamare passato... Potremmo definirlo come un macrotempo. Zamani si sovrappone a sasa e i due non sono separabili: sasa confluisce o scompare in zamani. Ma prima che gli eventi vengano incorporati nello zamani, devono essere realizzati o attualizzati nella dimensione sasa.55

 

L’archeologia fenomenologica vede in questa descrizione un esempio di quella stratificazione di tempi che, sul piano primario dell’Urzeit, il tempo mitico, sovrappone livelli successivi fino al tempo vissuto nel presente. Il tempo mitico non è tuttavia sepolto per sempre, anzi può e deve essere richiamato in superficie in ogni momento di crisi del tempo presente profano, per esempio nel passaggio dall’anno vecchio a quello nuovo. Ecco che in tali momenti, in cui non è garantita l’esistenza di un futuro56, il sacro viene in soccorso attualizzando ciò che è accaduto alle origini e dando nuovamente il via al cosmo. Non a caso Mbiti osserva che “la forza e il contributo maggiori delle religioni tradizionali africane risiedono nello zamani”: questo, contenendo il tempo mitico, è più reale del debole presente profano, e conferisce ad esso ogni volta la potenza del sacro.

Anticipando alcune delle considerazioni del prossimo paragrafo, notiamo come questa struttura di tempo è ben diversa da quella descritta da Husserl: è un tempo non lineare e non continuo ma a strati, senza futuro, in cui il forte passato mitico toglie al presente il posto centrale e, se opportunamente chiamato, torna a  realizzarsi nel debole presente dell’uomo. L’archeologia fenomenologica che Husserl aveva per primo intuito ha portato dunque a negare l’originarietà e la metaculturalità della struttura temporale tracciata proprio dal filosofo di Friburgo.

 

 

2.3. D. A. Conci: tempi che salvano

 

In questo paragrafo cercherò di precisare i caratteri che distinguono - o addirittura oppongono - la struttura della temporalità nella cultura occidentale e quelle delle culture non influenzate dal logos greco. Seguirò in questa analisi la lezione di D. A. Conci, che ha trattato il tema in alcuni suoi articoli57, applicando al vissuto temporale quella analitica contrastiva58 che resta l’unica metodica per il confronto tra le culture, dopo la presa di consapevolezza dell’impossibilità di affermazioni metaculturali.

Lo spazio e il tempo sono i criteri di ordine e misura della molteplicità e della variabilità del vissuto. Se lo spazio è il criterio d’ordine della coesistenza (astraendo dalla successione), il tempo è il criterio d’ordine della successione (astraendo dalla coesistenza). Su questa definizione di tempo sia Conci che Husserl, sia la cultura occidentale che le “altre” concordano. Tuttavia, afferma Conci, le differenze arrivano quando “ci si volge ad analizzare come le culture hanno scelto, inteso e vissuto tali principi d’ordine e di misura”59. Anche una questione per noi tanto ovvia come l’irreversibilità del divenire temporale si rivela ad una approfondita analisi assai poco scontata.

 

Va, anzitutto, precisato, che il livello fenomenologicamente più elementare in cui si manifesta il dinamismo del reale è costituito dal semplice comparire e dallo scomparire delle cose e degli eventi. Pertanto, la reversibilità o meno degli accadimenti nel tempo è l’esito specifico di qualcosa di altro, cioè di credenze e di assunti generali, rinvianti a complessi sistemi culturali60

 

Una di quelle che per Husserl è una “fondamentale evidenza temporale”61 non è dunque tale agli occhi della fenomenologia radicale di Conci. Le sorti della reversibilità degli eventi sono associate a quelle della credenza nel realismo segnico62. All’interno di tale credenza gli eventi si possono realmente ripetere, grazie a riti che attualizzano quanto è accaduto nella Urzeit, il tempo mitico. Con l’eclissi del sacro e la perdita della fiducia nei miti e nei riti, la reversibilità si può salvare solo come visione ciclica dell’universo, oppure viene decisamente abbandonata a favore di una visione lineare del tempo (vedi la Figura 2):

 

REALISMO SEGNICO                              REVERSIBILITA’ DEGLI EVENTI

e dunque per contronominale

NON REVERSIBILITA’ DEGLI EVENTI          CRISI DEL REALISMO SEGNICO

Tuttavia

REVERSIBILITA’ DEGLI EVENTI                 REALISMO SEGNICO

CRISI DEL REALISMO SEGNICO                NON REVERSIBILITA’ oppure CIRCOLARITA’

 

Figura 2: Cerchiamo di spiegare queste relazioni apparentemente complesse.

Se con reversibilità intendiamo la possibilità che si ripresenti un evento già accaduto, e precisamente lo stesso evento, è chiaro che nel mondo dominato dal realismo segnico, in cui il rito attualizza di continuo il mito delle origini, tale reversibilità è possibile. In tale mondo il passato si ripresenta ripetendosi ritualmente. Una cultura che non credesse più in tale ripresentazione, avrebbe perso la fede nel mito e nel rito, e sarebbe dunque uscita dal realismo segnico.

La credenza nella reversibilità non implica tuttavia la fede nel realismo segnico: un evento può infatti ripetersi anche se il tempo possiede una struttura circolare ciclica (come ritorno automatico, necessitato, periodico e identitario, degli eventi). Tale struttura del tempo è, come vedremo, del tutto estranea alle culture mitico-rituali, ed ha origine invece nella grecità.

Dunque dalla fine del realismo segnico può derivare o un pensiero di un tempo “della inarrestabile consumazione di ogni cosa”, o anche di un possibile ritorno, garantito però noeticamente, ossia da un logos esterno, e non ileticamente, ossia dal mito e dal rito.

 

        

Circolarità e linearità sono dunque le due opzioni temporali dell’Occidente, civiltà nata proprio con il crollo del realismo segnico. In particolare mentre il tempo profano, in cui concretamente vive l’uomo, è stato sempre considerato lineare (da Aristotele ad Agostino, fino a Bergson, Husserl e Heidegger), ossia un “insensato e nullificante divenire (ghénesis e phtorà) che muove dal nulla e va verso il nulla”63, al tempo sacro è stata spesso attribuita una struttura ciclica.

Studiosi come Mircea Eliade64, o come lo stesso Friedrich Nietzsche, hanno diffuso nel secolo passato la convinzione che la struttura ciclica del tempo fosse quella propria delle culture primitive, basate appunto sul sacro. Conci contesta con forza questa lezione, perché sia la ciclicità che la linearità sono strutture temporali noetiche, risultato di quel “volo” compiuto per la prima volta da Parmenide di Elea. L’essere di Parmenide semplicemente “è”, “al di là dello spazio e del tempo abitati dai mortali, in uno stato del tutto disincarnato e, quindi, noetizzato”65. Qui Conci vede la nascita del principio di identità noetica, ossia della logica occidentale, opposta alla logica iletica66 tipica delle culture mitico-rituali, nonché di quella struttura invariante-variazioni67 fondamentale nel pensiero occidentale, in cui una sequenza indefinita di variazioni è resa intellegibile e razionale dal riferimento ad un polo invariante.

Poco importa che questo polo invariante, rispetto al quale nel nostro caso viene osservato il divenire temporale, sia inteso ontologicamente come essere, idea, atto (alla maniera greca) o soggettivamente come l’io di una coscienza attraversata da un continuo fluire di eventi che dal futuro si precipitano nell’oscurità del passato (alla maniera moderna, vedi Husserl): la struttura alla base è la stessa, ed è una struttura del tutto assente prima o fuori dalla grecità.

Soffermandoci dapprima sulla struttura ciclica del tempo, vediamo perché una seria analisi fenomenologica non può ammettere tale struttura nei vissuti temporali delle culture mitico-rituali. La presenza evidente di pratiche rituali che scandiscono scrupolosamente ogni momento significativo della vita (nascita, matrimonio, attività agricole o di caccia, malattie, eventi atmosferici o astronomici, ecc.) sarebbe del tutto assurda se la prosecuzione della vita fosse garantita automaticamente da una struttura ciclica precostituita. Come già abbiamo accennato nel paragrafo precedente, in tali culture il futuro non è invece minimamente garantito, specie nei momenti di crisi68, in cui gli unici “puntelli e supporti per transiti difficili al di là delle voragini esistenziali”69 sono i riti, che devono essere eseguiti con scrupolo, diligenza, grandiosità, e, se serve, anche violenza. “La ripetizione... e non l’astratta ciclicità, domina il tempo dei miti e dei riti”,70 perché “il fatalismo che deriva dall’automatismo ciclico necessitato, indotto dalla identità noetica, confligge duramente con la sintassi, la semantica e la pragmatica di qualunque cerimoniale rituale che, invocando la prosecuzione o l’interruzione dei decorsi temporali, implica eo ipso che il tempo mitico rituale sia retto da un altro principio, quello identitario iletico”71.

Il tempo lineare e storico, invece, nasce con l’impossibilità per i greci di credere ad una qualsiasi forma di ritorno del passato nel  mondo delle vicende umane, neppure se garantita da un logos della ciclicità. Il culto degli eroi denota già agli albori della grecità che l’unica via per resistere alla morte senza ritorno è la poesia, il canto degli aedi o i racconti degli storici72. Ecco dunque che “l’irreversibilità degli eventi in successione inaugura il modello di tempo estatico e narrativo, divenuto, poi, familiare ed egemone in Occidente. In esso il passato (che fu e quindi non è più) e il futuro (che sarà e quindi non è ancora) sono estasi73 ideali per l’irrealtà dei loro contenuti, basate come sono sulle Abschattungen primarie (ritenzioni e protensioni) che contornano per essenza, come profili, scorci e adombramenti, l’unica estasi con contenuti legittimamente reali, quella del presente vivente”74. Gli adombramenti, così importanti per la “fenomenologia del logos occidentale” di Husserl75, sono nelle culture “altre” del tutto assenti, sia riguardo al tempo che riguardo allo spazio76. Con la visione lineare del tempo nasce inoltre la storia, intesa sia come successione continua, ordinata e sensata di eventi (res gestae), sia come racconto di essi (historia rerum gestarum): non a caso i primi storici sono i greci Ecatéo ed Erodoto.

Tenterò adesso di sintetizzare le conclusioni di questa analisi fenomenologica che ha confrontato il tempo occidentale con quello delle culture mitico-rituali.

 

TEMPO nelle culture MITICO-RITUALI

TEMPO in OCCIDENTE

hyletico

noetico

tempo della ripetizione

tempo dell’irreversibilità

anestatico

estatico

Figura 3

 

Riguardo alla prima riga della tabella, rimando alle considerazioni sul tempo hyletico svolte nel paragrafo precedente. Sulla seconda opposizione ripetizione-irreversibilità ci siamo soffermati poco sopra. Merita tuttavia spendere qualche parola per un’ulteriore considerazione.

Se consideriamo il vissuto critico di un indigeno che ha visto affondare la propria piroga ormai vecchia, notiamo che egli procederà a invocare l’assistenza fabbrile dell’eroe civilizzatore che nell’Urzeit per la prima volta inventò e costruì la piroga, lasciandola in eredità alla tribù. Con la forza sacrale elargita da tale rito, lo sfortunato indigeno può costruire la sua piroga, che è allo stesso tempo una nuova piroga e la stessa piroga che l’eroe costruì nel tempo mitico delle origini, ritornata in superficie dalle profondità dell’Urzeit, da quella stratificazione di tempi rilevata dall’archeologia fenomenologica. Come spiegare l’identità tra la nuova piroga e la piroga delle origini, se non con una logica non noetica ma iletica-metamorfica, in cui si assume come identico anche “l’analogo, l’omologo, e, persino, il semplice contiguo”77? “La nuova piroga è, quindi, la metamorfosi di quella prototipica... ed appare, come ogni ibrido metamorfico, identica e diversa contestualmente nei confronti dell’originale”78. Ogni interpretazione “occidentale”, per esempio ti tipo simbolico o metaforico, rende impossibile l’effettiva efficacia reale del sostegno sacrale.79

Riguardo infine alla terza opposizione anestaticità-estaticità, occorre soffermarci brevemente per confrontare il vissuto del presente nei due mondi culturali da noi considerati. Come abbiamo visto nella nostra sintesi dell’analisi husserliana, la coscienza egocentrata costituisce quel polo invariante che consente alla noesis categoriale di sporgersi indietro (ritensione) o avanti (protensione), gettandosi in tal modo oltre l’”attimo fuggente” del presente verso il passato e il futuro. In tal modo, abbiamo visto,  nasce la storia, intesa come un racconto unitario e coerente, che necessita di un tempo altrettanto unitario e coerente, e sempre in tal modo nasce l’attitudine progettuale dell’uomo, quell’ex-sistere e quella cura che Heidegger riteneva proprie dell’uomo tout-court, mentre lo sono solo dell’uomo occidentale80. Una coscienza impersonale, non egocentrata, non può invece ex-sistere, pro-gettarsi (=gettarsi avanti) perché vive in un presente debole, senza futuro81, perché priva di quella struttura lineare, ordinata e fortissima delineata da Husserl e propria dell’intero Occidente. Ciò che essa può fare è solo abbandonarsi fiduciosamente all’ascolto del sacro, in una postura rivelativa82 che non ammette dunque alcuna estasi.83

Una ulteriore considerazione sulla realtà o idealità delle tre estasi temporali può infine aiutarci a confrontare la struttura topologica complessiva dei due tempi a confronto. Nella noesis egocentrata dell’Occidente, le cui fasi temporali sono estasi del ricordo, dell’attenzione e dell’attesa, solo il presente è reale, mentre il passato e il futuro “non sono” (rispettivamente “più” e “ancora”), ossia sono puramente ideali, sono nulla. Nelle culture mitico-rituali (che, essendo ileticamente fondate, non pensano il nulla), al contrario, il passato (Urzeit) e il futuro (Endzeit) sono reali, anzi iperreali o realissimi, perché tempi sacri e dunque forti che si coniugano di continuo con il debole presente profano (lebendige Gegenwart), dandogli solidità.

La differenza non sta tanto nella realtà, quanto nella attualità: il presente soltanto è attuale, ma la sua attualità è fragilità, debolezza, continuo bisogno d’aiuto. Come nota inoltre Conci, il passato e il futuro mitici, attualizzandosi nel presente, “elargiscono a quella coscienza impersonale, vivente anestaticamente in un presente stazionario oltremodo malsicuro, (...) con il loro ritorno ed il loro anticipo, anche le altre due dimensioni del tempo”84. Se abbiamo visto come il passato mitico irrompe nel presente (ripetizione) con l’esempio della costruzione di una piroga mediante il rito d’appello all’eroe civilizzatore, l’oracolo, la mantica e la profezia sono occasioni in cui il futuro mitico irrompe altrettanto realmente nel presente (anticipazione)85. La struttura temporale risulta dunque un sovrapporsi paratattico di piani temporali: un fortissimo piano di base costituito dal passato mitico o tempo delle origini (Urzeit), un fragile piano intermedio costituito dal presente profano (lebendige Gegenwart), e in alto infine il piano costituito dal futuro mitico o tempo escatologico (Endzeit). Mentre inoltre il tempo occidentale “husserliano” è centrato prospetticamente sul presente86, “nelle culture mitico-rituali la coscienza vissuta del tempo appare palesemente come sbilanciata all’indietro, dato l’evidente ruolo egemonico esercitato... dal passato mitico su ogni altra dimensione”87. Al centro del tempo non sta dunque il presente, ma l’Urzeit (mentre l’Endzeit, pur importante, è di gran lunga secondario, comparendo del resto, quando è presente, molto più tardi88). Ritroviamo qui le considerazioni di Mbiti, che fonda la dimensione sasa su quella zamani, vero centro dell’identità e del destino della tribù. In tale vissuto del presente, tra l’altro, non compare alcun cenno di futuro mitico.89

Tramite la precedente analisi abbiamo dunque compreso che mentre il vissuto temporale occidentale, legato ad una coscienza egocentrata e ad una logica noetica, possiede un ordinamento lineare compiuto e definitivo, nel vissuto proprio di culture mitico-rituali troviamo soltanto un fragile presente profano, che ha bisogno di un continuo e reiterato soccorso da parte di altri piani temporali potenti, in una struttura complessiva discontinua, fratta, paratattica e anestatica.

 

 

2.4. Appendice: considerazioni sulla struttura temporale di alcune lingue antiche

 

Davvero interessanti, riguardo a questa analisi contrastiva del tempo, credo che siano le seguenti osservazioni fenomenologiche su alcune lingue antiche, alcune indoeuropee (greco, latino), alcune semitiche (ebraico), in cui la struttura temporale del verbo risulta ricca di indicazioni. Com’è noto, nonostante la complessa struttura temporale del latino e del greco classici, nei loro antenati arcaici (e dunque nell’indoeuropeo), i temi temporali erano fondamentalmente due: il tema del presente e il tema del perfetto. Il primo indica un’azione nel suo svolgersi, il secondo un’azione compiuta. Questa semplice struttura è fondata, affermano le grammatiche, non su tempi ma su aspetti del verbo, perché sembra distinguere il verbo in base non ad un ordine cronologico delle azioni, ma in base a loro differenze qualitative. Qualunque termine si voglia usare, ciò che questa difficoltà espressiva indica è che non si tratta di “tempi” nella nostra accezione occidentale del termine. Curiosamente anche in ebraico è presente la stessa struttura: soltanto due tempi-aspetti: l’imperfetto (azione incompiuta) ed il perfetto (azione compiuta).

Come non notare, a questo punto, il valore fenomenologico di tutto ciò? Il tempo-aspetto “presente-imperfetto” non è altro che la struttura linguistica che l’uomo ha creato per esprimere il suo presente profano, il suo sasa, mentre l’altro tempo-aspetto, il perfetto, esprime il suo passato mitico, il suo zamani. Ovviamente i popoli creano la lingua (come i calendari, le religioni, i sistemi di pensiero) in base ai loro vissuti, ed ecco che sia le antiche lingue indoeuropee sia quelle semitiche hanno una struttura temporale che sembra ricalcare i risultati fenomenologici a cui siamo giunti riguardo al tempo nelle culture a fondamento mitico-rituale. Come tra passato mitico e presente c’è un salto, poiché i due piani temporali non sono contigui ma sovrapposti paratatticamente, anche tra presente e perfetto è presente un salto qualitativo, oltre che cronologico.

Mentre tuttavia l’ebraico ha mantenuto la sua struttura nei secoli (fino alla sua sostituzione nel comune uso scritto e parlato da parte dell’aramaico verso il II°-III° secolo a.C. e il suo utilizzo solo come lingua delle Sacre Scritture), il latino ed il greco sono andati incontro a numerose trasformazioni: dai temi del presente e del perfetto hanno avuto origine più tempi (veri e propri), distinti tra loro stavolta cronologicamente e non qualitativamente: dal perfetto è sorto il piuccheperfetto, dal presente sono sorti l’imperfetto e, più tardi, il futuro. Due sono le considerazioni fenomenologiche che possiamo trarre.

La prima consiste nel notare il progressivo spostamento dal piano di una temporalità fratta e qualitativa, propria delle culture mitico-rituali, ed espressa nel binomio di tempi-aspetti presente/perfetto, ad una temporalità sempre più lineare e continua, tipica delle culture influenzate dal logos greco, ed espressa da tutta quella serie di tempi che cercano di riempire tutto l’asse temporale, dal passato più lontano, a quello vicino, a quello appena passato, fino al presente (piuccheperfetto, perfetto, imperfetto, presente). Oggi, nonostante a ben vedere resti qualcosa dell’antico valore qualitativo nei vari tempi grammaticali delle lingue moderne, il loro significato è quasi del tutto cronologico.

La seconda riguarda l’avvento del futuro, notoriamente assente nelle strutture grammaticali della lingua greca e latina fino a un’epoca abbastanza tarda. E come poteva esser presente un futuro, quando nel sasa “ciò che dovrebbe essere futuro è estremamente breve”, cioè non c’è futuro? quando la coscienza impersonale non ex-siste, non pro-getta, ma vive anestaticamente il presente? Chi non pensa al domani90 non ha neppure bisogno di inventarsi un tempo verbale per esprimerlo. Ecco che, comunque, ad un certo punto nel latino e nel greco compare il futuro, e compare più come modo che come tempo, essendo per lo più un presente desiderativo (vedi anche l’ausiliare inglese will). Si struttura poi come tempo, legandosi al tema del presente e non esprimendo alcun aspetto dell’azione, come sottolineano tutte le grammatiche, notando l’eccezione costituita dal futuro nei confronti di tutti gli altri tempi più “antichi”. Si può arguire da tutto ciò che il futuro è nato con la nascita del tempo storico, con il superamento dell’universo mitico-rituale, e con l’ingresso dell’uomo in un tempo che, dal presente (che assume nelle lingue un ruolo sempre più centrale) si allarga con continuità verso il passato e, lentamente, verso il futuro, nella dimensione del desiderio, cioè del progetto, dell’estaticità, dell’esistenza. Certamente non è legata alla comparsa del futuro nel latino e nel greco la dimensione dell’Endzeit, sia perché un futuro mitico non ha alcun carattere desiderativo (proprio invece, come si è visto, delle strutture linguistiche che contengono questo tempo, e legato a quel carattere allusivo per cui la coscienza egocentrata parla anche di ciò che ancora non c’è), sia perché le culture mitico-rituali dell’Europa mediterranea non hanno avuto il tempo di elaborare miti riguardanti l’Endzeit: il collasso dell’universo mitico-rituale, avvenuto prima in area greca e poco dopo in area italica (si ricordi che Parmenide visse in Italia meridionale) ha reso inutile ogni sostegno al passato mitico da parte di un futuro mitico.

Tutta questa evoluzione non è presente nell’ebraico, lingua di un popolo che resta praticamente per sempre al di fuori della grecità (a parte influenze non trascurabili tra il II° sec. a.C. e il I° sec. d.C., che non hanno avuto conseguenze sulla struttura temporale della lingua soprattutto sia per la loro marginalità, e perché tale lingua non veniva, a quel tempo, neppure più parlata), e dunque immerso fino alla fine (cioè fino agli inizi del II° sec. a.C., quando Adriano distrusse Gerusalemme) in una cultura mitico-rituale, con i ben noti scontri con gli ellenizzati dominatori romani.

Ritengo davvero utile il contributo della fenomenologia radicale per la comprensione dell’evoluzione delle lingue sopra citate. Senza una penetrazione dei vissuti, infatti, gli storici della lingua possono solo limitarsi a dire che cosa è successo, senza capire il perché di mutazioni linguistiche tanto radicali quanto la presenza o meno del futuro, e l’utilizzo di due tempi-aspetti paratattici o di otto tempi cronologici uniti l’un l’altro pressoché con continuità. Certamente questo tema meriterebbe ulteriori analisi, che però qui non è il caso di fare.

 



Bibliografia

 

I seguenti titoli costituiscono il materiale essenziale da cui abbiamo tratto le precedenti riflessioni. I testi citati nelle note sono invece soltanto riferimenti per ulteriori approfondimenti o semplici citazioni.

 

ALES BELLO Angela, Culture e religioni. Una lettura fenomenologica, Città Nuova, Roma, 1997.

 

ALES BELLO Angela, “Archeologia fenomenologica del tempo e dello spazio”, in: Adriana Dentone (a c. di), Esistenza. I vissuti: “tempo” e “spazio”, Atti del II Incontro Nazionale del Centro di Studi Interdisciplinari (Chiavari 30-31/03/1996), Bastogi, Foggia, 1996, pp. 21-32.

 

CONCI Domenico Antonino, L’universo artificiale. Per una epistemologia fenomenologica, M. Spada, Roma, 1978.

 

CONCI Domenico Antonino, “Metodologia dell’analisi fenomenologica di residui di culture subalterne agropastorali toscane – Introduzione”, in: V. Dini, L. Sonni, La Madonna del Parto. Immaginario e realtà nella cultura agropastorale, Ianua, Roma, 1985.

 

CONCI Domenico Antonino, “Tempi che salvano. Prove fenomenologiche generali di modelli alieni di tempo”, in: AA.VV., Il tempo in questione. Paradigmi della temporalità nel pensiero occidentale, Guerini e Associati, Milano, 1997, pp. 207-221.

 

CONCI Domenico Antonino, “Tempi sacri e tempi profani di culture a fondamento rivelativi. Analisi fenomenologiche”, in: AA.VV., Annuario filosofico, Mursia, n. 17, 2001, pp. 135-189.

 

CONCI Domenico Antonino, “Tempo e spazio del sacro: un’analisi fenomenologica”, in: Rosa Brambilla (a c. di), Husserl. Oltre le scienze verso il mondo della vita, Pro Civitate Christiana, Assisi, 1988, pp. 123-139.

 

HUSSERL Edmund, Vorlesungen zur Phänomenologie des inneren Zeitbewusstseins, in: Martin Heidegger (a cura di), Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung, vol. IX, Niemeyer, Halle, 1928;  ristampato in: R. Boehm (a cura di), Zur Phänomenologie des inneren Zeitbewusstseins: 1893-1917, Martinus Nijhoff, Den Haag, 1966; trad. it. di Alfredo Marini, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, Franco Angeli, Milano, 1998.

 

PAURI Massimo, “La descrizione fisica del mondo e la questione del divenire temporale”, in: Giovanni Boniolo (a cura di), Filosofia della fisica, Bruno Mondatori, Milano, 1997, pp.245-334.

 



[1] L’opera di riferimento sarà naturalmente HUSSERL [1928].

[2] H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza (1889), Materia e memoria. Saggio sulla relazione tra il corpo e lo spirito (1896), Durata e simultaneità. In merito alla teoria di Einstein (1922). Le edizioni italiane sono in Opere, a cura di P. A. Rovatti, Mondatori, Milano, 1986.

[3] Questo legame sarà del resto al centro di buona parte della filosofia analitica del Novecento, vedi PAURI [1997] p.247 e oltre.

[4] La questione era la seguente: l’irreversibilità di fatto dei fenomeni fisici, ossia del tempo in cui essi si svolgono, è un puro accidente oppure è giustificato nomologicamente nelle leggi fondamentali della fisica? Nell’epoca meccanicistica era considerata credibile senz’altro la prima opzione, perché tutte le leggi della fisica classica sono simmetriche per inversione temporale. Qualcosa cambiava con il secondo principio della termodinamica, secondo il quale l’entropia (la misura del disordine) in un sistema isolato tende inevitabilmente ad aumentare. La questione non era tuttavia chiara, perché questo principio non sembrava una legge fondamentale, e in realtà poté essere ricondotto alla meccanica classica tramite la teoria delle probabilità da Poincaré ed altri. La questione rimane tuttora aperta, anche se sembra proprio che, come afferma Pauri, “se il divenire c’è, il fisico non può saperlo” (vedi PAURI [1997]).

[5] “Husserl pensava scrivendo; questo modo di procedere nella ricerca gli consentiva da un lato di lasciare un traccia delle sue analisi, ma dall’altro gli impediva di dedicarsi alla organizzazione delle sue pubblicazioni, che ha sempre affidato ai suoi assistenti; fra questi ricordiamo Edith Stein, Martin Heidegger, Stephan Strasser, Eugen Fink” (ALES BELLO [1997] p.15 nota 1)

[6] HUSSERL [1928] pp.39-122.

[7] HUSSERL [1928] pp.123-162 e pp.163-368.

[8] R. Boehm, “Introduzione”, in HUSSERL [1928], pp.17-18.

[9] Vedi HUSSERL [1928].

[10] HUSSERL [1928] p.44.

[11] HUSSERL [1928] p.44.

[12] Non così Bergson, che invece vede la riflessione sul tempo proprio come punto di partenza per la soluzione del problema psico-fisico. Vedi anche le note 3 e 4.

[13] Husserl era del resto consapevole del pericolo di ogni fondazione psicologistica, dopo le sue iniziali ricerche sui fondamenti dell’aritmetica e le pesanti critiche di Frege.

[14] HUSSERL [1928] p.44.

[15] Nonostante l’analisi qui svolta si rivolga precipuamente al tempo, occorre aver presente che “per ragioni metodologiche non è mai consigliabile affrontare un’analisi della struttura del tempo senza tener presente, sia pure con la coda dell’occhio, quella dello spazio, con la quale la prima è sempre necessariamente coniugata, e senza connettere entrambe alle strutture del logos, cioè alle strutture sintattiche dei discorsi cognitivi e non cognitivi in cui il mondo e l’uomo vengono in molteplici modi unitariamente pensati” (CONCI [2001] p.210). Nonostante l’attenzione sul logos sia sottolineata in modo particolare dal nuovo approccio interculturale di Conci e di Ales Bello, sulla necessaria coniugazione spazio-tempo insistono pressoché tutti gli autori che si sono interessati alla questione temporale, nei filoni sia fenomenologico che analitico del Novecento (vedi PAURI [1997] p.248). Husserl stesso, del resto, sottolineava l’intima ed originaria connessione di spazialità e temporalità, e solo attraverso una “astrazione” ammetteva una loro distinzione (vedi l’analisi di Ales Bello in: ALES BELLO [1996] p.23).

[16] HUSSERL [1928] p.45.

[17] HUSSERL [1928] p.72.

[18] Paul Fraisse, Psychologie du Temps, Presses Universitaires de France, Paris, 1957, citato in PAURI [1997] p.264.

[19] Come altri esempi possiamo pensare a eventi quali “la morte di Napoleone” o “il matrimonio dei miei genitori”: quando sono accaduti? quanto sono durati? Inevitabilmente la nostra tendenza ad obbiettivare tutto, e ad accompagnare ogni vissuto con una data e un orario si scontra con serie difficoltà: quel che conta è, alla fine, ciò che io considero significativo del vissuto in questione:  nel caso del matrimonio, può essere l’intera giornata, o solo la durata della cerimonia, o lo scambio degli anelli…

[20] HUSSERL [1928] p.72.

[21] HUSSERL [1928] p.65 e 67.

[22] HUSSERL [1928] p.84.

[23] HUSSERL [1928] p.64.

[24] HUSSERL [1928] p.68.

[25] HUSSERL [1928] p.86.

[26] HUSSERL [1928] p.78.

[27] Anche una fase riprodotta e ri-vissuta nel ricordo ha la stessa struttura del presente, in quanto è ri-vissuta “ora”.

[28] “Fantasia” è un termine che in Husserl indica sia la rimemorazione che l’aspettazione, accomunate dalla produzione di vissuti già accaduti o immaginati nel futuro

[29] HUSSERL [1928] p.79.

[30] HUSSERL [1928] p.80.

[31] Vedi HUSSERL [1928] p.81.

[32] HUSSERL [1928] p.110.

[33] HUSSERL [1928] p.98.

[34] HUSSERL [1928] p.98.

[35] Husserl, di formazione matematica, pensa probabilmente alle successioni decrescenti convergenti (per es. an=1/n, ossia 1, 1/2, 1/3, ecc. ), in cui ogni elemento successivo è inferiore al precedente, ma tutti convergono ad un limite finito (nel nostro caso L=0). Ciò è considerato da Husserl impossibile per i campi temporali, perché si arriverebbe ad un “ora” senza passato, ossia senza ritensioni (corrispondente al limite L=0). Il paragone matematico non è però del tutto probativo  perché in molti casi (e pure nel nostro esempio) il limite di una successione non è un elemento della successione stessa e non gode di proprietà godute da tutti gli elementi della successione (vedi nel nostro caso l’essere un numero positivo). Dunque il limite di una successione regressiva di “ora” riprodotti potrebbe non essere a sua volta un “ora”, e non avere dunque le sue proprietà strutturali.

[36] HUSSERL [1928] pp.98.

[37] HUSSERL [1928] pp.99.

[38] In matematica un insieme si dice totalmente ordinato se valgono le proprietà riflessiva, antisimmetrica, transitiva, e se qualsiasi due elementi sono confrontabili nell’ordine considerato.

[39] HUSSERL [1928] pp.99-100.

[40] D. A. Conci, La conclusione della filosofia categoriale. Contributi ad una fenomenologia del metodo fenomenologico, Edizioni Abete, Roma, 1967; Prolegomeni ad una fenomenologia dl profondo, Ist. di Fil. e St. della Fil. della Fac. di Magistero dell’Università di Roma, Roma, 1970.

[41] Vedi la voce Fenomenologia radicale in www.hieros.it.

[42] Vedi CONCI [1988] e D. A. Conci, Fenomenologia della metamorfosi, in: R. Bestini, D. A. Conci, N. Da Costa, Mostri divini. Fenomenologia e logica della metamorfosi, Guida, Napoli 1991, pp.19-53.

[43] ALES BELLO [1997] cap.1.

[44] E. Husserl, Ms. trans. C 16 IV, Phänomenologische Archäologie, maggio 1932.

[45] ALES BELLO [1997] p.16.

[46] ALES BELLO [1997] p.80.

[47] E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, tr. it. di E. Filippini, Einaudi, Torino, 1965, vol. I, p.195.

[48] Si ricorda che “hyle” non significa “materia”, nel significato di “sostrato inerte” che la grecità ci ha trasmesso. Hyle è il precipitato dei sensi interni ed esterni, l’insieme dei dati di colore, suono, tatto, movimento. Essa è considerata dall’indigeno come avente una propria vitalità e intenzionalità, che le conferisce una noesi dall’interno.

[49] ALES BELLO [1996] p.26.

[50] ALES BELLO [1997] p.70. Vedi anche le considerazioni di D. A. Conci in CONCI [2001] pp.142-143.

[51] E’ per Husserl il principio di tutti i principi (vedi E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, tr. it. di E. Filippini, Einaudi, Torino, 1965, vol. I, par.24). Proprio in base a questo principio base è stata sviluppata la fenomenologia radicale, che ha notato come il polo egologico non rientrasse nei limiti e nelle modalità in cui ciò che si dà effettivamente si dà (vedi D. A. Conci, Per una fenomenologia dell’originario, in: Il Contributo, Anno II - n°2, 1978, pp.3-12).

[52] Per chiarire questo autostrutturarsi dall’interno del tempo hyletico possono essere utili alcuni esempi. Conci ricorda il canto di Qoélet (Qo, 3,1-8, vedi CONCI [2001] p.170), a me viene invece in mente un racconto di un giovane africano, che diceva di essere nato il giorno in cui “il sole sparì per un po’”.  Questa determinazione temporale è hyletica, perché ha origine non da una struttura vuota, precostituita ed esterna (come si ha nell’affermazione “sono nato il 7/12/1974), ma dal contenuto stesso del vissuto. Analogamente non è affatto la stessa cosa dire “ci vediamo in tempo di vendemmia” o “ci vediamo nel mese di settembre”: la prima indicazione di tempo fa diretto riferimento ad un vissuto, che caratterizza hyleticamente quel tempo, mentre la seconda utilizza una struttura di misura del tempo vuota, che fenomenologicamente (cioè riguardo al vissuto) non significa niente. Basta questo esempio per renderci conto di come anche nel nostro mondo occidentale la sfera hyletica sia tutt’altro che ininfluente, specie in culture legate al mondo rurale (Vedi CONCI [1985]).

[53] L’intimo ed originario legame tra spazio e tempo è intuito anche da Husserl. Vedi la conclusione della nota 6.

[54] J. S. Mbiti, African Religion and Philosophy, East African Educational Publisher, Nairobi 1969; tr. it. di C. Valli: Oltre la magia - Culture e religioni nel mondo africano, SEI, Torino 1992, cit. in ALES BELLO [1997] p.151.

[55] J. S. Mbiti, cit. in ALES BELLO [1997] p.152.

[56] Manca infatti ogni struttura lineare o circolare di tempo, che garantisca la “ovvia”e “regolare” prosecuzione del tempo. E’ il sentimento terribile di una continua imminente “fine del mondo”, temuta ogni volta che sono presenti vissuti hyletici di crisi: accadimenti umani particolarmente gravi, come guerre o rivoluzioni, un evento naturale eccezionale, come una eclissi, il passaggio di una cometa, un’eruzione vulcanica, una carestia, o anche momenti “normali”, ma pur sempre critici, come il solstizio d’inverno, in cui il sole sembra scendere sempre più in basso fino a sparire e a lasciare il popolo in un buio mortale, ed occorre ridestare con i riti del Dies Natalis la potenza sacra del sole, affinché si decida a rinascere e a tornare a splendere alto nel cielo, rievocando ciò che una prima volta si era compiuto nel tempo mitico con la vittoria della luce sulle tenebre.

[57] Mi riferirò principalmente a CONCI [1997] e CONCI [2001].

[58] Vedi CONCI [2001] p.136, nota 2.

[59] CONCI [2001] p.135.

[60] CONCI [2001] pp.135-6.

[61] Vedi sopra alla fine del par.1.3.

[62] In fenomenologia radicale si intende per “realismo segnico” la convinzione nella generale identità (iletica) di segni ed enti, apparire ed essere, linguaggio e realtà. Questa convinzione, che “ha dominato, per millenni, un modo di stare al mondo determinato da una totale e pervasiva presenza del Sacro,... è dunque espressione di quelle culture che vivono regolandosi attraverso il mito e il rito e si pone come un universo nel quale vigono principi e logiche “altre” da quelle originatesi dalla filosofia greca” (vedi le voci Logica iletica e Realismo segnico in www.hieros.it). Senza tale credenza non è concepibile alcuna rivelazione, essendo questa caratterizzata dalla reale presenza del sacro nei segni che lo rivelano.La nascita della filosofia, al contrario, si spiega proprio con la crisi di questa credenza, avvenuta agli albori della civiltà greca, e proprio in risposta a questa crisi ha avuto origine quel pensiero disincarnato, noetizzato, che, separando parole e cose, è stato capace per la prima volta di pensare il nulla. Vedi anche CONCI [1985] p.6.

[63] CONCI [2001] p.144.

[64] Vedi M. Eliade, Le Mythe de l’Éternel Retour. Archétipes et répétition, Gallimard, Parigi, 1949 ; tr. it. Il mito dell’eterno ritorno, Milano, 1975.

[65] CONCI [2001] p.145. Vedi anche ALES BELLO [1997] p.134-138.

[66] Vedi Logica iletica in www.hieros.it.

[67] Vedi Invariante/variazioni in www.hieros.it.

[68] O anche nei luoghi di crisi: la stessa analisi vale per lo spazio. Specularmente alle fratture temporali sono rinvenibili analoghe fratture spaziali: ponti che permettono di superare un fiume, incroci in cui confluiscono più sentieri, portoni di abitazioni. In tutti questi luoghi critici sono spesso presenti immagini sacre, affinché ogni volta il sacro aiuti e permetta il transito dell’uomo.

[69] CONCI [2001] p.156.

[70] CONCI [2001] p.157.

[71] CONCI [2001] p.148.

[72] Non è forse questa l’unica immortalità che anche U. Foscolo concede all’uomo? Vedi il carme Dei Sepolcri: “E tu onore di pianti, Ettore, avrai / ove fia santo e lagrimato il sangue / per la patria versato, e finché il Sole / risplenderà su le sciagure umane” (vv.293-295). Parafrasando E. M. Remarque, davvero “niente di nuovo sul fronte occidentale”.

[73] Il termine “estasi” è usato, da Heidegger in poi, per indicare le tre dimensioni del tempo, in quanto la temporalità è, almeno nella nostra cultura, l’essere “fuori di sé” (proiettato verso il mondo presente, o verso il passato e il futuro) dell’”esserci”, cioè dell’uomo.

[74] CONCI [2001] p.148.

[75] Il termine “Abschattung”, ossia “adombramento”, è uno dei più frequenti in HUSSERL [1928]. Vedi per es. il brano relativo alla nota 29.

[76] Vedi D. A. Conci, Tra apparire ed essere. Fenomenologia della natura come segno culturale occidentale, in: Sánchez Sorondo, Marcello (a cura di), Physica, cosmologia, Naturphilosophie: nuovi approcci, Atti del Colloquio internazionale "Filosofia della natura" (Roma, 8-10 gennaio 1992), Herder - Pontificia Università Lateranense, Roma 1993, Collana "Dialogo di filosofia" N. 10, pp. 315-326, nota 3.

[77] Vedi “Logica iletica” in www.hieros.it.

[78] CONCI [2001] p.162.

[79] Perché l’eucaristia sia cibo per la vita eterna occorre, come sa bene la Chiesa Cattolica,  che là sia realmente presente il corpo di Cristo, è che non sia solo un simbolo, perché un simbolo non salva nessuno.

[80] Non ogni uomo è infatti Dasein: solo nel tempo storico della morte senza ritorno l’uomo si sente infatti gettato nel mondo, continuamente proteso verso l’avvenire e, fondamentalmente, verso la morte.

[81] Vedi quanto osserva Mbiti nel brano relativo alla nota 54: il sasa non ha futuro. Sull’assenza di futuro tornerò in seguito con ulteriori considerazioni.

[82] Vedi Postura rivelativa in www.hieros.it.

[83] Conci cita, come esempio (a mio parere davvero calzante) di tale atteggiamento, il tema evangelico degli uccelli del cielo e dei gigli dei campi, che non si affannano per il domani (Mt 6,25-34) o la raccomandazione a non preoccuparsi di cosa dire in tribunale, perché “vi sarà suggerito in quel momento...: non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi” (Mt 10, 19-20). E’ qui evidente, oltre la postura rivelativa, l’assenza completa di estasi, di progetto, di angoscia, di cura, esorcizzate dalla fiducia nel continuo soccorso del sacro (vedi CONCI [2001] p.165, nota 20).

[84] CONCI [2001] p.168.

[85] Nota giustamente Conci che ogni parallelo tra la profezia (o previsione oracolare) e la previsione scientifica è fuorviante, perché mentre quest’ultima implica l’irreversibilità degli eventi, l’altra visualizza nel presente l’effetto stesso che si produrrà. Mentre la previsione indica (zeigt an) la profezia mostra (zeigt hin): ogni rimando, allusione, segno è del resto assente nelle culture dominate dal realismo segnico.

[86] Abbiamo visto quanto insista Husserl sull’originarietà del presente, vera e propria fonte di tutto il vissuto temporale.

[87] CONCI [2001] p.169.

[88] L’Endzeit nasce, nella storia delle etnie, relativamente tardi, quando, in momenti particolarmente critici (per es. dominazioni straniere), la sola Urzeit non riesce a dare forza sufficiente al presente. Ecco allora che nasce la letteratura apocalittica, in cui la forza sacrale proviene da un inedito futuro mitico prima affatto sconosciuto La presenza dell’Endzeit è dunque un segno di sofferenza del vissuto di un popolo, tanto che a volte essa ha preceduto di poco il crollo dell’edificio mitico-rituale (vedi CONCI[2001] par.7).

 

[90] Vedi la raccomandazione evangelica citata alla nota 83.