RADICI E RAGIONI DEL SITO "HIEROS"



     

Le pagine di Hieros sono dedicate al pensiero di Domenico Antonino Conci (1936-2008)

  come testimonianza della sua vasta e originale ricerca fenomenologica, antropologica e filosofica


Domenico Antonino Conci



Domenico Antonino Conci. Un profilo

 

    In ogni tempo e in ogni spazio «l’esistenza del nomade dipende esclusivamente dall’orografia superficiale del territorio e, soprattutto, dall’avvicendarsi degli eventi meteorici, ampiamente intesi. Egli, di norma, non ha bisogno alcuno di radicamenti, fisici o psichici che siano, né per l’economia dei viventi, né per quella dei morti, quindi non tende a coltivare la terra e non scava il suolo per innalzare costruzioni su inamovibili fondamenta, sognando un’eterna permanenza in vita e dopo la morte».1

    Il 13 maggio 2008, all’età di settantadue anni, è scomparso Domenico Antonino Conci, filosofo, antropologo, fenomenologo. "Operatore culturale" - come negli ultimi anni, con somma ironia, amava definirsi. Conci era un pensatore nomade. La sua ricerca ha tracciato un sentiero atipico nei territori della filosofia, dell’antropologia e della fenomenologia, grazie all’adozione di un metodo anomalo e rigoroso, da lui forgiato metabolizzando il patrimonio analitico della fenomenologia di Edmund Husserl e accogliendo senza esitazioni né rimpianti quell’assenza di certezze e fondamenti che è ormai la cifra inemendabile dell’Occidente. Come un nomade appunto, senza bisogno alcuno di radicamenti, fisici psichici e men che mai speculativi, Conci procedeva seguendo l’orografia dei territori di indagine su cui aveva cominciato a muovere i primi passi fin dalla metà degli anni Sessanta, adeguando e affilando incessantemente i suoi strumenti d’analisi, sempre in corso d’opera, senza mai fermarsi a scavare il suolo nell’improbabile tentativo di gettare fondamenta salde e inamovibili.

    Domenico Antonino Conci era nato a Reggio Calabria il 26 marzo del 1936. Si era laureato in Giurisprudenza a Palermo e aveva superato l’esame di procuratore legale per affiancare al più presto il padre Francesco nel suo studio di avvocato penalista. Ma di nascosto studiava filosofia, obbedendo ad una vocazione che lo avrebbe portato ad abbandonare sul nascere l’annunciata carriera giuridica per seguire piuttosto la strada dello studio e della ricerca già intrapresa dalla madre, Pia Gravino, una delle prime donne ricercatrici all’Università, docente di Chimica. Sottraendosi all’ipoteca paterna, alla fine degli anni Cinquanta decide di lasciare Reggio Calabria per salire a Roma. Nel 1964 inizia il suo percorso accademico come assistente volontario di Pietro Prini, che in quegli anni insegna Filosofia teoretica nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Perugia ed ha tra i suoi assistenti anche Dario Antiseri. Nel 1968, sempre con Prini, viene nominato assistente ordinario alla prima cattedra di Storia della Filosofia della Facoltà di Magistero dell’Università di Roma "La Sapienza". Tra i colleghi romani stringe amicizia con il fenomenologo Enrico Nicoletti, che in seguito diventerà titolare della cattedra di Ermeneutica filosofica, assieme al quale cresce e si consolida il già vivo interesse per il pensiero di Edmund Husserl.
        Queste prime esperienze accademiche sono integrate e irrobustite da un lungo tirocinio metodologico, inizialmente presso le Università di Colonia e Lovanio, poi all’Università di Genova, dove studia con Evandro Agazzi, con il quale instaurerà un solido rapporto di stima e collaborazione. Nel 1971 comincia a insegnare Filosofia della Scienza all’Università di Macerata. Infine nel 1976, vinto il concorso a cattedra di Filosofia, viene chiamato alla Facoltà di Magistero dell’Università degli Studi di Siena - l’attuale Facoltà di Lettere e Filosofia di Arezzo - dove continuerà ad insegnare fino agli ultimi anni come professore ordinario di Filosofia Teoretica.

    Fin dalla metà degli anni Ottanta, all’attività presso l’Università di Siena aveva affiancato un ulteriore impegno didattico all’Istituto Universitario "Suor Orsola Benincasa" di Napoli, come docente di Antropologia culturale. Eppure, dopo oltre un quarantennio di insegnamento, la passione e l’intensità con cui svolgeva il suo lavoro di docente non si erano minimamente affievolite; lo stile espositivo, la disponibilità al dialogo, la sua profonda umanità non lasciavano mai indifferenti gli studenti che affollavano i suoi corsi, e l’acume teoretico delle sue osservazioni fatalmente finiva per marcare a fuoco gli allievi più dotati di sensibilità filosofica.

    Autore di numerosi testi, saggi e articoli, membro dei comitati scientifici di riviste e collane editoriali, Conci aveva svolto anche un’intensa attività come relatore in seminari interuniversitari, congressi e convegni nazionali e internazionali, arrivando ad essere insignito, il 27 dicembre del 1992, del titolo di Grande Ufficiale della Repubblica Italiana per meriti culturali. Ma le cose che avrebbero fatto gonfiare il petto e inorgoglito i più, venivano puntualmente fuse al calor bianco della sua trascinante e inarrestabile ironia.

    La sua competenza nel campo della fenomenologia si era strutturata con alcuni dei maggiori studiosi italiani, come Sofia Vanni Rovighi e Paolo Valori, mentre in Germania aveva seguito i seminari di Eugen Fink, l’ultimo allievo e assistente di Husserl. Stando alle sue parole, scarne e rarefatte quando si trattava di ripercorrere gli anni della propria formazione, era stata la possibilità di radicalizzare il discorso filosofico intravista fra le pagine di Edmund Husserl ad avvicinarlo inizialmente alla fenomenologia. Ma l’energia onnivora della sua mente mai si sarebbe risolta e appagata nella mera esegesi degli scritti husserliani. Una delle cose che Conci ha sempre insegnato e trasmesso è che essere un fenomenologo non coincide affatto con l’essere uno specialista di scolastica husserliana. Non che lo studio e l’interpretazione dei testi e dei manoscritti di Husserl non siano importanti: semplicemente sono tutt’altra cosa rispetto alla pratica dell’analisi fenomenologica. Fare fenomenologia non vuol dire tanto possedere ed esercitare una specifica competenza filologica, quanto applicare un metodo preciso, quello fenomenologico, ai più disparati campi di analisi. Ed è appunto seguendo le coordinate del metodo husserliano che Conci comincia a sviluppare le sue prime indagini, ponendo alcune questioni preliminari che prendono di mira la struttura portante dell’intero programma di ricerca della fenomenologia.
    Si tratta in buona sostanza di verificare la consistenza fenomenologica del metodo fenomenologico stesso, procedendo attraverso una ricognizione critica dell’opera di Husserl e operando un severo controllo analitico degli enunciati con cui il maestro registrava e trasmetteva gli esiti delle sue ricerche. Queste prime incursioni di “fenomenologia della fenomenologia”, presentate nel testo
La conclusione della filosofia categoriale. Contributi ad una fenomenologia del metodo fenomenologico (1967), finiscono per evidenziare un punto debole dell’analitica husserliana, rivelando una latente inadeguatezza del suo dichiarato fondamento intuitivo. È a partire da questi risultati che Conci comincia ad impostare una revisione del metodo fenomenologico, maturata teoreticamente nel primo volume dei Prolegomeni ad una fenomenologia del profondo (1970), e sviluppata poi incessantemente lungo il suo intero itinerario intellettuale, fedele alla convinzione che il metodo non può che configurarsi a partire dalle “cose stesse”, e dunque che tutte le questioni relative al metodo solvitur ambulando, si risolvono in corso d’opera, procedendo analiticamente nel confronto serrato con il proprio oggetto di studio, mai in astratto.


    Non è facile presentare l’opera di Domenico Antonino Conci succintamente e senza ricorrere almeno in parte ad un lessico tecnico. Limitando per quanto possibile oscurità e asperità espressive, possiamo innanzitutto ricordare che il baricentro del metodo fenomenologico, il “gesto inaugurale” della fenomenologia è, com’è noto, l’epoché. Ed è proprio sul ruolo, sulla portata e sulla possibilità stessa di questa operazione che si registra un primo scarto fondamentale tra la “fenomenologia ortodossa” e la “fenomenologia del profondo” inizialmente proposta da Conci. Nel tentativo di attingere quelle “datità” fenomenologiche originarie che sole potrebbero dare il senso e convalidare la fecondità del metodo fenomenologico, Conci, oltrepassando la classica epoché husserliana, comincia ad esercitare un tipo particolare di epoché, una “epoché radicale” che non si limita a sospendere l’atteggiamento naturalistico, bensì prende di mira il più ampio e articolato “atteggiamento obiettivante” o “categoriale”, di cui l’atteggiamento naturalistico rappresenta soltanto un sottoinsieme. Più esattamente, nel suo esercizio radicale l’epoché non colpisce tanto l’oggettivo, il mondano, il naturale in quanto tali, bensì colpisce l’assolutezza delle posizioni di senso e di esistenza, cioè il darsi in maniera inindagata – sempre all’interno dell’ambito analitico della fenomenologia – di manifestazioni che vengono assunte come autentiche e inquestionabili “autodatità”, pure “evidenze”, senza un opportuno controllo.
    Si tratta di un lavoro estremamente arduo e complesso, che porta Conci a individuare come insospendibile e dunque come autentico originario fenomenologico, la sfera del vissuto “precategoriale”, rendendo così inevitabile quella che lui stesso definirà una “riforma” della morfologia dell’
Erlebnis husserliano, al cui interno deve essere finalmente riconosciuta ed evidenziata la funzione generale della hyle, la cosiddetta componente materiale del vissuto, quale fonte di visualizzazione per l’intero Erlebnis. Tra i vari esiti di questo ponderoso impegno inaugurale, emerge anche la possibilità – che Husserl tendeva ad escludere per principio – di mettere tra parentesi e sospendere il polo egologico, l’io puro. La peculiare epoché della fenomenologia radicale arriva infatti a mostrare come l’identificazione husserliana dell’originario fenomenologico con la sfera immanente di un io trascendentale fosse più che altro dovuta all’equivoco di assumere come dato originario, adeguato e incontestabile, una nozione di soggetto che, sottoposta alla decostruzione fenomenologica, si rivela invece come un costrutto, il prodotto di una manipolazione categoriale.

    Con il termine “categoriale” – sarà bene chiarire – Conci si riferisce puntualmente ad una particolare struttura connettiva: la struttura di relazione che collega in maniera funzionale un piano invariante (Eidos) al piano delle sue molteplici variazioni. All’atteggiamento categoriale e a questa peculiare struttura invarianza-variazioni, che impagina e sottende integralmente le formazioni culturali dell’Occidente, si devono dunque tutte le nostre familiari dicotomie e distinzioni concettuali, come quelle tra soggetto e oggetto, io e mondo, dominio psichico e ambito fisico, segni ed enti, corpo e anima, ecc. Anche il soggetto, il polo egologico, dunque, una volta tematizzato radicalmente, più che un residuo insospendibile risulta essere piuttosto uno degli esiti costruttivi di tale struttura relazionale. Conseguentemente, oltre ad espandere, per così dire, il suo raggio d’azione, l’epoché non può essere più intesa come un percorso privilegiato verso la regione della soggettività trascendentale, verso quel “punto archimedico” a partire dal quale Husserl cercava di edificare una conoscenza certa e assolutamente fondata. Ma più che di una limitazione interna, qui si tratta di un’opzione che scaturisce dalla lucida consapevolezza dell’avvenuto collasso dei fondamenti della cultura dell’Occidente e di cui la fenomenologia radicale si fa carico fin dagli esordi.
    Dopo la pubblicazione dei
Prolegomeni, Conci si dedica all’approfondimento del pensiero categoriale filosofico e scientifico, impegnandosi in una ricognizione storico-teoretica della logica formale e riflettendo sulle varie prospettive metodologiche da cui è stata affrontata la questione dei fondamenti della matematica, nella convinzione che tale esame costituisca un momento propedeutico all’edificazione di una fenomenologia intesa come atteggiamento teoretico alternativo a quello scientifico. Tutto questo lavoro confluirà poi in Logica e matematica nel problema dei fondamenti (1974) e verrà portato avanti negli
anni successivi attraverso un’analisi fenomenologica del linguaggio delle teorie scientifiche, presentata nel volume L’universo artificiale. Per una epistemologia fenomenologica (1978), e con un’ulteriore indagine dedicata alle residue istanze fondazionali nella scienza contemporanea e nella filosofia della scienza, esposta nell’Introduzione ad una epistemologia non fondante (1982). Tuttavia sono le questioni connesse alla critica del metodo della fenomenologia classica a sollevare problemi più urgenti e a richiedere nuova attenzione. La possibilità di sospendere l’“atteggiamento egologico” e accedere effettivamente alla dimensione precategoriale, nonché le complesse implicazioni, non solo tecniche, di questa riforma del metodo, la plausibilità e la consistenza di quanto viene emergendo dalla fenomenologia radicale, richiedono ulteriori chiarificazioni, di cui dà conto Per una fenomenologia dell’originario (1978), testo che susciterà un animato confronto con Angela Ales Bello, fenomenologa energicamente impegnata nell’approfondimento e nella rivalutazione dell’eredità husserliana, di cui testimonia Il tempo e l’originario. Un dibattito fenomenologico (1978).
    Comincia così un periodo di critica e di assestamento delle tecniche impiegate nel lavoro analitico, nel corso del quale viene delineandosi meglio il campo di indagine. Durante una conversazione di qualche anno fa, Conci aveva fugacemente accennato al semiologo e filosofo del linguaggio Ferruccio Rossi-Landi, attribuendo a lui la spinta che avrebbe provocato la sua personale “svolta linguistica”, ovvero la decisione di impostare la ricerca fenomenologica come una particolare analitica dei segni. La fenomenologia, notoriamente, muove dalla scoperta dell’intenzionalità della coscienza. Secondo l’ortodossia husserliana, la
noesis, la componente noetica del vissuto intenzionale, svolge una funzione precipua, assoluta ed esclusiva: quella di dare senso, di significare. Ma se così stanno le cose, è evidente che l’attività intenzionale costitutiva di senso non può che precipitare e depositarsi in segni. L’attività intenzionale della noesis, in altre parole, tende a manifestarsi necessariamente come segno, laddove il segno è appunto segno degli specifici vissuti che ne costituiscono il senso. «La fenomenologia radicale, pertanto, va assunta specificamente come un’analisi dei segni vissuti o, se si vuole, come un’analitica delle componenti vissute dei segni, quindi come una singolarissima semiotica, ove il significato di ciascun segno è costituito dal vissuto che lo riempie e dalle sue specifiche modalità manifestative».
2 Questo vuol dire, tra le altre cose, che la fenomenologia non può essere concepita come una singolare analitica della psiche, che i vissuti non debbono essere intesi come degli speciali oggetti immanenti da tematizzare
esclusivamente con tecniche introspettive. Il fenomenologo, in poche parole, non svolge un’analitica di se stesso, della propria interiorità, del proprio ombelico, bensì, se vuole veramente andare “alle cose stesse”, deve impegnarsi a sviluppare un’analitica dei segni, e specificamente, come vedremo, dei segni delle diverse
culture. Tenendo conto del fatto che «in quanto presenze significanti, i vissuti sono allora dei “segni”, in senso amplissimo, cioè, di volta in volta, eventi, parole, scrittura, gesti, manufatti, non più pienamente comprensibili qualora isolati dai vissuti di cui essi sono direttamente segni».3


    Un’altra indicazione decisiva per il futuro decorso delle sue ricerche scaturirà dalla frequentazione del filosofo Remo Cantoni, il quale per primo gli suggerisce di applicare gli strumenti analitici della fenomenologia all’universo ancora poco esplorato delle culture mitico-rituali. «Il pensiero mitico» – come spiegava Cantoni – «non è un mondo arbitrario e caotico, un prodotto capriccioso di una mente ribelle o refrattaria alla logica. Esso è pervaso di una razionalità».4 Comincia così a dischiudersi la via verso l’universo molteplice e variegato delle altre culture, che condurrà la fenomenologia radicale ad attraversare i territori di competenza delle scienze umane, aprendo un confronto metodologico con l’antropologia culturale, l’etnologia, l’archeologia. Confronto che comincia a profilarsi con Le ragioni degli altri. Idee per una metamorfosi antropologica (1979), in cui Conci prende in esame l’antropologia descrittiva di Ludwig Wittgenstein, cercando di individuare il percorso ermeneutico in grado di condurci a
«comprendere le
Lebensformen (le attività) e le regole di modelli culturali radicalmente diversi dal sistema occidentale»
5, aprendo così la strada alla futura tematizzazione dei logoi delle culture lontane dall’Occidente. Si tratta degli universi culturali che saranno raccolti da Conci sotto l’espressione «realismo segnico» – negli ultimi lavori ulteriormente precisata e sostituita da «iperrealismo segnico» – ossia l’ambito di tutte quelle culture a fondamento mitico-rituale in cui senso ed esistenza, in virtù di una particolare postura esistenziale e cognitiva che non implica una coscienza personale ed egocentrata, si ritiene vengano elargiti dalla potenza sacrale. In altri termini, «l’universo del realismo, quello pervasivo del mito, della magia e della religione, non è un dominio di coscienze e di cose, ma è un tessuto di vissuti non egocentrati (impersonali)».6 Ed è a questo vasto e diversificato insieme che appartengono le antiche e ormai defunte culture pregreche e non greche, le rare culture etniche ancora presenti sul nostro pianeta e ciò che resta delle comunità agropastorali d’Europa, le cosiddette culture “subalterne” o “minori”.


    La fenomenologia del Sacro, la ricognizione delle multiformi manifestazioni e modalità della coscienza religiosa, rappresenta un ricchissimo e difficilmente esauribile campo di ricerca; tuttavia, prima di procedere ulteriormente nelle sue analisi, Conci avverte la presenza di alcuni presupposti inindagati, che fungono come occulte “ovvietà” all’interno del metodo radicale da lui stesso adottato. Nella sua fase aurorale, il lavoro era in effetti guidato dall’idea che la fenomenologia radicale potesse consentire in modo autentico e inequivocabile «l’accesso diretto ad un residuo fenomenologico costituito dal mondo non categoriale (o precategoriale), cioè, precisamente alla Lebenswelt (Mondo-della-vita) originaria».7 Ma la convinzione che il fenomenologo potesse addirittura vivere “una vita precategoriale”, l’identificazione, in altri termini, della postura analitica del fenomenologo con la postura che caratterizza la coscienza degli appartenenti alle culture mitico-rituali, nasceva da una serie di equivoci, primo tra tutti la concezione partecipativa della conoscenza, ovvero l’idea che per comprendere le “ragioni degli altri” sia indispensabile, e presuntivamente possibile, partecipare pienamente della loro logica vissuta. Quando si accorge del pericolo celato al fondo dell’ingenua persuasione che possa esserci una “postura rivelativa del fenomenologo”, che attraverso la fenomenologia radicale si possa attingere direttamente la Lebenswelt, il Mondo-della-vita, il precategoriale, l’antepredicativo, Conci rimette in discussione i presupposti del suo lavoro, allargando il campo di indagine e articolando ulteriormente il metodo analitico.
    Come non si stancava mai di ripetere durante le sue lezioni o partecipando ai dibattiti nei convegni, prendere consapevolezza e valutare prima di ogni altra cosa la prospettiva metodologica, storica, ideologica da cui il ricercatore – ermeneuta, antropologo o filosofo – muove le fila del proprio discorso è il compito preliminare di cui bisogna farsi carico, soprattutto quando ci si occupa di segni culturali che, in quanto tali, sono già portatori di un senso che non è il nostro. Tuttavia, sospendere le strutture della categorizzazione e dell’obiettivazione che caratterizzano il pensiero occidentale non vuol dire ingenuamente evadere dalla propria cultura, e tanto meno procedere a un’inverosimile fusione partecipativa con altri modelli di coscienza. Sospendere i propri paradigmi, principi, presupposti significa semplicemente sospendere la credenza nella loro assolutezza, esclusività, universalità, rendendo implausibile e ingiustificato il nostro insistere a proiettarli ovunque; significa evitare finalmente di manipolare il senso degli altri travolgendolo con l’armamentario di categorie, costrutti e paradigmi della nostra cultura.
    Si tratta di una postura scientifica che appare ormai come l’unica sostenibile dopo la crisi dei fondamenti che, a cavallo tra Ottocento e Novecento, ha travolto l’idea che i principi generali, i criteri, i paradigmi del pensiero occidentale fossero assoluti, incondizionati ed esclusivi. L’unica possibilità che rimane al ricercatore consapevole di tale condizione, è quella di praticare una analitica priva di fondamenti, assumendo questi principi in una forma indebolita, non assoluta, non esclusiva. È appunto da questa consapevolezza che scaturisce un ulteriore assestamento del metodo ed emerge la tecnica dell’analisi contrastiva, ovvero
quella particolare «analisi fenomenologica di un antropologo che, invece di assolutizzare i principi e le categorie della propria cultura, per proiettarle, poi, sui dati da analizzare, sovrapponendoli ad essi come un estraneo vestito di idee, nella convinzione di coglierne, in tal modo, il senso, li impieghi, invece, accostandoli semplicemente ai principi e alle categorie dell’altrui cultura, confrontandoli, in prima istanza, contrastivamente con i propri».8

    Conseguentemente, affiancarsi agli altri cessando di trasfigurarli in “diversi”, accostare le nostre strutture di senso a quelle altrui, vuol dire anche disporsi finalmente ad incontrare se stessi come altri tra gli altri, constatando che “oggetti culturali” sono anche la metafisica, i linguaggi delle teorie scientifiche, l’arte figurativa occidentale. Accostare le proprie strutture di senso a quelle degli altri, porta a conoscere per contrasto la propria ragione, il proprio logos. Porta a comprendere ad esempio che il mondo occidentale è nato liberandosi dalla hyle, che alle nostre radici c’è un gesto culturale epocale, quello di Parmenide di Elea,
che enuncia per primo quel principio di identità, fondamento logico del nostro pensiero, che consentirà la nascita e la costruzione della metafisica, della scienza, dell’arte, in poche parole di tutta la serie di oggetti culturali che caratterizza la nostra cultura. Procedere contrastivamente significa allora trovarsi a confrontare le strutture “vuote”, ovvero
deiletizzate, disincarnate, tipiche del pensiero occidentale, con quelle di un pensiero iletizzato, cioè “incarnato”, un pensiero in cui la hyle, quale fonte di manifestazione del vissuto, svolge pienamente il suo ruolo cruciale.
    Per isolare fenomenologicamente e definire l’effettivo ruolo della
hyle all’interno del vissuto impersonale tipico delle culture mitico-rituali, occorre prima di tutto abbandonare la sua usuale e riduttiva concettualizzazione come “materia” e affrontare il compito più che arduo dell’elaborazione di una “hyletica”, o iletica fenomenologica, mai debitamente affrontato dalla fenomenologia di Husserl, e di cui Disinterested Praise of Matter. Ideas for Phenomenological Hyletics (1998) rappresenta uno dei tentativi più perspicuamente articolati. Tuttavia la questione fenomenologica della hyle non può essere affrontata e risolta soltanto a livello teorico, stando seduti a tavolino: per sorprenderne e isolarne l’effettiva funzione manifestativa occorre impegnarsi nel più volte menzionato esercizio di una semiotica fenomenologica, attraverso lo svolgimento di una serie di dettagliate analisi sul campo. Ed è appunto con questi studi dedicati alle peculiari strutture della postura rivelativa e ai loro esiti concreti nelle più diverse tradizioni culturali che Conci inizia a delineare una nuova ermeneutica fenomenologica del Sacro, di cui testi quali Il Drago di San Michele. Fenomenologia dei vissuti originari del male (1999), Pietre che salvano. Fenomenologia di santuari preneolitici (1999), La guerra degli angeli. Contributo ad una fenomenologia dei
vissuti bellici (2000), Tempi sacri e tempi profani nelle culture a fondamento rivelativo. Analisi fenomenologiche (2001), rappresentano solo alcuni degli esempi più significativi. Procedendo attraverso questo minuzioso lavoro analitico, seguendo di volta in volta la particolare “topologia” del territorio da indagare, Conci giungerà tra l’altro ad isolare fenomenologicamente le inaudite e per noi paradossali strutture eidetiche di uno spazio dell’ubiquità, di un tempo della ripetizione e di una logica iletica (logica della metamorfosi), che caratterizzano, assieme ai contenuti manifestativi non fenomenici, la postura rivelativa della coscienza, ovvero quella condizione necessaria, anche se non sufficiente, affinché il Sacro si possa manifestare agli uomini.


    Molti altri luoghi e differenti aspetti dell’opera di Conci meriterebbero attenzione e approfondimento. In questa sede è possibile solo nominare di sfuggita le sue numerose ricerche sui temi dell’ibrido e della metamorfosi, le analisi dedicate all’immagine rivelativa e sacrale, la ricostruzione della genesi del logos occidentale dal collasso delle antiche culture mediterranee, i saggi sull’incompletezza di homo e sul vissuto della “disperazione fossile”. Ma è comunque opportuno segnalare che oltre a comunicare i risultati ottenuti attraverso il lavoro sui segni culturali, Conci ha sempre cercato di tematizzare anche l’incessante procedimento di controllo e revisione critica dei presupposti e dei criteri metodologici della sua antropologia fenomenologica. Di tali questioni trattano Per un’antropologia fenomenologica. Ragioni e metodo (1991), scritto con Angela Ales Bello, Medusa and Perseus. Is a Phenomenological Anthropology possible? (1996), Per il rilevamento fenomenologico in Antropologia (1996), Tra noi e gli altri: uno spazio per l’antropologia fenomenologica (1998).
    Oltre ad applicarsi allo studio, ai contributi scientifici ed agli impegni accademici – questi ultimi assolti ricoprendo, tra le altre cariche, anche quella di preside della Facoltà di Magistero dell’Università di Siena dal 1986 al 1991 – l’energia generosa e creativa di Domenico Antonino Conci si estendeva e dedicava anche ad altre attività. Intendendoli quasi come un naturale sbocco e proseguimento delle sue ricerche dedicate alle culture subalterne, Conci è stato un instancabile ispiratore e animatore di numerosi progetti per il recupero e la salvaguardia delle tradizioni popolari, soprattutto nell’Italia centro-meridionale. Come direttore del Centro di Cultura dell’Università del Molise, si era impegnato dalla seconda metà degli anni Ottanta in un progetto di allestimento della mappa antropica della Regione Molise. Nel 1996 in Toscana, sul territorio del monte Amiata, aveva contribuito come responsabile scientifico ad un progetto di mappa antropica finalizzato alla creazione di un osservatorio per la tutela dei beni
culturali demoantropologici e la promozione di un turismo consapevole. A Napoli, con l’Università Suor Orsola Benincasa, era stato tra gli ispiratori e i promotori dell’istituzione del nuovo Corso di Laurea in “Turismo per i beni culturali” a Pomigliano d’Arco. Ma sia che fosse assorto nel più tradizionale lavoro accademico oppure a spendersi nei suoi molteplici interessi culturali, era
sempre la sua magnanimità a dare la nota inconfondibile e ad imprimersi in coloro che entravano in contatto con lui. Così come colpiva immancabilmente l’irriducibile nomadismo intellettuale, che solo chi è dotato di una immensa libertà esistenziale può permettersi di praticare.
    Come già ricordato, la sua analitica “transculturale”, come a volte la chiamava, veniva sempre accordata e calibrata in movimento, nel confronto diretto con gli “oggetti culturali” provenienti da ogni epoca e da qualunque luogo. Eppure nel tentativo inesausto di indagare il senso e le ragioni degli altri, Conci finiva per mettere puntualmente in luce il senso della cultura occidentale, mostrando così le radici e la genesi delle nostre attuali condizioni di vita. Un’estrema e continua attenzione per la nostra cultura che rimarrà costante anche nei lavori più recenti, come
Il problema filosofico della morte (2007) e Prospettive fenomenologiche generali sul tema del fondamento (2007), fino agli ultimi testi, come Fenomenologia della Metafisica (2007), dettati con lucidità abbagliante dal letto d’ospedale dove la malattia l’aveva inchiodato e in cui la morte lo avrebbe colto.
    A partire dalla critica della filosofia categoriale degli esordi, che appariva come una brutale presa d’atto dei limiti costitutivi della tradizione e del lessico del pensiero occidentale, e che poteva suonare come un abbandono definitivo della filosofia, Conci ha così finito per portare oltre, ancora avanti, con coerenza e lucidità, il più profondo e originale discorso filosofico. Lasciando aperto davanti a sé un campo di ricerca sterminato, per altri nomadi del pensiero che vorranno seguire le sue orme.


Stefano Gonnella



Articolo pubblicato su Heliopolis. Rivista di filosofia e simbolica politica, Anno VII, N. 1, 2009, pp. 69-79.

http://www.artetetra.it/heliopolis/wp-content/uploads/2020/05/5_2009_Gonnella.pdf




1 D. A. Conci, I rapporti mitico-rituali tra cielo e terra fino alla prima Età del Ferro, in A. Achilli - L. Galli (a cura di), I riti dell’acqua e della terra nel folklore religioso, nel lavoro e nella tradizione orale, Edup, Roma 2006, p. 295.

2  D. A. Conci, Introduzione ad una epistemologia non fondante, in «Epistemologia», V, 1, 1982, p. 12.

3 D. A. Conci, Introduzione. Metodologia dell’analisi fenomenologica di residui di culture subalterne agro-pastorali toscane, in V. Dini, L. Sonni, La Madonna del Parto. Immaginario e realtà nella cultura agropastorale, Editrice Ianua, Roma 1985, p. 10.
4 R. Cantoni, Il pensiero dei primitivi. Preludio a un’antropologia, Il Saggiatore, Milano 1963, p. 299.

5 D. A. Conci, Le ragioni degli altri. Idee per una metamorfosi antropologica, in «Il Contributo», III, 2, 1979, p. 11.

6 D. A. Conci, Fenomenologia della metamorfosi, in R. Bertini, D. A. Conci, N. Da Costa, Mostri divini. Fenomenologia e logica della metamorfosi, Guida, Napoli 1991, p. 34.

7 D. A. Conci, Le ragioni degli altri, cit., p. 17.

8 D. A. Conci, Alle origini della secolarizzazione. Una prospettiva fenomenologica, Atti del Convegno dell’Associazione Holos International, Corpo Spirituale e Terra Celeste. La rinascita dello spirito nella materia, Ed. Holos International - La Tipografica, Lugano 2004, p. 58.





 
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