Hieros   

 

 

Simone Zacchini

IL SACRO IN QUESTIONE

 

Ci si permette di offrire alla discussione la sottolineatura alcuni passaggi tratti da un interessante e recente contributo apparso in «Teoria. Rivista di filosofia diretta da Vittorio Sainati», XXII, 2002, 1. L'autrice, Annalisa Caputo, dedica un lungo intervento a La questione del sacro. Riflessioni a partire da un recente ciclo di seminari interdisciplinari: "Hieros. Sulla rivelazione" (pp. 93-107).

Il testo, che prende spunto, come recita il sottotitolo, da una serie di incontri seminariali dedicati alla tematica della rivelazione sacrale, si pone a metà strada tra la relazione ai lavori ed un più ambizioso tentativo di sistemare criticamente l'eterogeneo panorama che le varie conferenze hanno evidenziato. Il nocciolo della questione viene suddiviso, nel suo intervento, con estrema perizia ed attenzione e secondo prospettive metodologiche di approccio alla tematica del sacro; tale felice scelta permette un più chiaro confronto con i risultati dei lavori e con la posizione che Caputo poi, in veste critica, assume.

L'articolazione del contributo di Caputo è, come facile aspettarsi, molto complessa; in questa sede, data l'indole di questo spazio, ci si concentrerà sui risultati e sulle considerazioni dell'autrice in merito alle due posizioni più stratificate che emergono sia dal suo contributo che dagli stessi lavori dei convegni. Si crede opportuno, prima di iniziare la discussione, riportare l'intero secondo paragrafo del suo studio, centrale per questo breve intervento:


ANNALISA CAPUTO: La questione del Sacro. Riflessioni a partire da un recente ciclo di seminari interdisciplinari: «Hieros. Sulla rivelazione». Paragrafo 2


Concentrando l'attenzione sull'impostazione fenomenologica, dedicata esclusivamente al pensiero di Domenico Antonino Conci, si viene immediatamente a trattare, sebbene brevemente, del primo punto. Caputo parla della posizione fenomenologica di Conci come di una filosofia forte che «presuppone e veicola una chiara posizione teoretica» (p. 102). In pratica la fenomenologia radicale di Conci non sarebbe neutralmente analitica; essa, infatti avrebbe dei presupposti forti che sono il suo dichiararsi "analitica", "contrastiva" e sfondata". Si può inizialmente rilevare che l'analiticità in questione non è un presupposto, bensì una tecnica, e particolarmente una tecnica metodologica di tipo "contrastivo". "Contrastivo" significa semplicemente "non proiettivo", cioè, metodicamente, che cerca di non sovrapporre sensi propri a sensi altrui, proiettandoli e poi, fatalmente, ritrovandoli, più o meno trasfigurati, nell'altro. Tale questione rappresenta il cuore della metodica di Conci che, proprio dal contrasto, cerca di individuare, nel confronto fra principi culturali differenti, "alterità" o "identità". Data l'indole metodologica del contrasto, non vi può esser fondamento alcuno preventivamente assunto o presupposto. Questo non significa che, come scrive Caputo, si debba dire che non c'è un centro a partire dal quale la storia e le civiltà si dimensionano, oppure che esistano solo civiltà in sé separate. Tale posizione, di nuovo, sarebbe una ulteriore assunzione di principio. Semmai le identità (o gli "orizzonti comuni"), così come le alterità tra principi culturali, non esclusi a priori, cioè prima dell'analisi, debbono sempre emergere dall'analisi contrastiva, dal confronto tra i dati antropologici, dal lavoro analitico di indagine. Presupporre differenze o identità, fondamenti o «orizzonti comuni in cui "già da sempre" siamo "gettati" come interpretanti» (p. 103), significa proiettare illuministicamente ciò che invece dovrebbe emergere, se emerge, dall'analisi contrastiva. In conclusione la fenomenologia radicale di Conci non esclude possibili continuità culturali, particolari vissuti alla base dell'essere umano; pretende, però, che questi rampollino dall'analisi e non vengano presupposti in partenza; per questo l'analisi contrastiva, che è una analitica reale delle analogie o delle omogeneità, è anche "sfondata", cioè non fà di questo metodo anche una Weltanschauung e dunque, a maggior ragione, una filosofia forte, ma resta nei limiti che la metodica stessa contorna, senza pretendere che i suoi risultati valgano anche da un punto di vista extrametodico. Tutto ciò che si afferma ha dunque valore solo dentro l'analisi fenomenologica e non in assoluto. Cade così lo stesso mito della "netralità"; la centralità stessa che l'analitica fenomenologica accorda alla dimensione del senso è, se vogliamo, un presupposto. Ma tale presupposto non sfocia nella dogmatica della precomprensione in quanto, come si discuterà tra breve, l'epochéimpedisce ogni positio absoluta.

Un ulteriore motivo di discussione che lo stimolante saggio di Caputo richiama, investe proprio il senso e il ruolo dell'epoché. L'autrice dichiara che l'epoché fenomenologica è un'illusione in quanto ci portiamo dentro, sempre e comunque, tutti i preconcetti della nostra tradizione e della nostra cultura. Così, pensare di sospenderli, accantonarli, metterli tra parentesi affinchè emerga il senso dell'altro in quanto tale è, appunto, una mera illusione viziata dall'impossibilità di fondo, si potrebbe aggiungere, di "uscire dalla propria pelle". Ora il punto della discussione sembra non del tutto centrato. L'epoché, infatti, non colpisce i nostri concetti, la nostra cultura, la nostra tradizione; impossibile davvero sarebbe pensare di poter "analizzare" qualcosa senza alcun concetto; se anche potessi "sottrarre" i miei principi di funzionamento culturale, non resterebbe altro che la struttura biologica, in sé davvero povera ed insufficiente. L'epoché, piuttosto, colpisce l'assolutezza e l'esclusività dei propri concetti culturali. Senza questa operazione di riduzione, che è possibile, nelle forme radicali proposte da Conci, a partire dalla crisi del Novecento e dalla fine della metafisica (qui il discorso andrebbe allargato alla condizione culturale dell'occidente all'indomani della seconda guerra mondiale, condizione dalla quale emergono anche le ultime propaggini dell'ermeneutica, come il pensiero debole), fatalmente proietteremmo sull'altro questi concetti "assoluti" connotandolo per questo come "diverso". La diversità, infatti, è la relazione e la distanza tra me e i miei principi assoluti, assunti come centro, e l'altro colto come distante, più o meno, da questa mia centralità. Con l'epoché, invece, tale assolutezza viene sospesa (e questo è possibile proprio per la crisi del fondamento) e l'altro viene individuato non più come diverso, ma nella sua alterità, cioè con il suo centro di riferimento, da confrontare poi contrastivamente con il mio, non più assoluto ma relativo ai miei principi. Se poi dall'analisi vengono fuori identità o differenze, questo va verificato caso per caso e non presupposto aprioristicamente.

Da tutto ciò è evidente che il bersaglio polemico non è l'ermeneutica, come scrive Caputo (p. 102), in quanto l'ermeneutica si pone come una metodica del senso, ma proprio quelle posizione che si arroccano nell'assolutezza dei propri principi, cioè la metafisica e la teologia. Il confronto con l'ermeneutica, piuttosto, è di indole metodologica e tecnica e non sui contenuti che scaturiscono dalle analisi i queli, è noto, sono il precipitato del metodo impiegato nell'analisi stessa. Metafisica e teologia, invece, portano avanti contenuti senza una chiara visione del metodo credendoli per questo assoluti e fondati; con queste posizioni, pertanto, il confronto risulta incommensurabile in quanto la fenomenologia, nella sua forma radicale (Conci) e non classica (Husserl), è una pura metodica.

Si può concludere domandando ad Annalisa Caputo come pensa di dimostrare e motivare quell'orizzonte comune nel quale crede e che sarebbe l'unico a permetterci anche di cogliere le differenze tra le culture; quale, insomma, il fondamento che ci accomuna, come individuarlo, come farlo "vedere" a chi, certamente per sua debolezza, non riesce a stare dentro questa fede. L'onere della prova, sembra, dovrebbe appartenere a chi propone una tesi come "vera per l'umanità", piuttosto che a chi si limita a raccogliere dati culturali registrando identità o alterità, ma soprattutto cercando di far emergere, dalla differenze, le "stranezze" di casa propria.

 

 


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