RINASCITE
E REMINISCENZE
STRATEGIE CULTURALI DI VITA
E DI MORTE
È opportuno, anzitutto, evidenziare che, mentre in Occidente,
fin dalle origini greche della nostra cultura, si ritiene che
il pensiero possa, riducendola essenzialmente a materia, trascendere la realtà in blocco e, oltrepassandola, destinarla,
mediante la proiezione di adeguati costrutti mentali, ad un’inevitabile
ristrutturazione d’esistenza e di senso, negli universi mitico-rituali
tutto ciò non è rinvenibile in alcun modo perché simili culture
ritengono – a torto o a ragione1 – che
il senso dell’esistenza sia insito nel reale medesimo e
che esso venga elargito contestualmente al manifestarsi degli
accadimenti stessi, naturali o sociali che siano. Ma, se si
ritiene che il senso del reale sia custodito ed esibito direttamente
da esso, sia leggibile sulla superficie stessa del suo apparire
e che, pertanto, non vada cercato, estraendolo da un arcano altrove,
di là da poco affidabili manifestazioni fenomeniche, come si crede
in Occidente, questa generale identità di realtà e di senso, di
apparire e di essere, di linguaggio e di mondo, fonda quell’inaudito
“realismo segnico”, identitario e non referenziale (non mimetico),
ove il pensiero e il linguaggio, incarnando i propri referenti, si determinano
inevitabilmente come intrinsecamente rivelativi2. Questa singolare identificazione, del tutto incomprensibile se interpretata
impiegando le usuali categorie del pensiero occidentale che, elaborate
per esse, presuppongono le manifestazioni fenomeniche – intimamente
scisse in apparire ed essere – e che operano esclusivamente su
queste, ha indotto erroneamente da sempre tale pensiero ad intendere
l’informazione mitica riducendola preferibilmente a mero prodotto
di fantasie irreali e gratuite. Il mito, in prima istanza, possiede
di necessità una base rivelativa, ma non essendo sacra qualunque
rivelazione, la sacralità del mito riposa, in seconda istanza,
sull’esibizione potente che elargisce rivelativamente una realtà
e un senso assoluti (iperrealtà del Sacro). Diventa, allora, comprensibile perché, a differenza del pensiero
filosofico e scientifico d’Occidente, il pensiero mitico-rituale
non è in grado di pensare in termini astratti, simbolici o metaforici,
e non può, nemmeno, negare in blocco l’esistente, vale a dire
pensare il non essere. Tutto ciò presuppone, infatti, il vissuto
di credenza nella divaricazione – che trovasi all’origine della
nostra cultura – tra il pensiero e l’essere, tra il linguaggio
e la realtà, e lo iato intercorso tra la sfera della significazione
e quella della realtà, mentre consente con l’avvento di un pensiero
disincarnato e vuoto, cioè puramente relazionale, la nascita di
un pensiero scientifico propriamente detto che opera sui materiali
d’esperienza per ipotesi e per controlli, dischiude contestualmente
quell’ambiguo spazio semantico, da noi ritenuto ormai irriducibile
per essenza, in cui, nell’insuperabile inadeguatezza cognitiva
ed esistenziale di fondo, è possibile non solo parlare di cose
che non sono così come noi le riteniamo, ma anche di cose che
non esistono del tutto. Una singolarità, questa, tollerabile,
di certo, in contesti estetici o retorici, ma non, certo, in quelli
epistemologici. Così, la generale assenza nel pensiero mitico
di una concezione cognitiva ed esistenziale di negazione dell’esistente
in blocco non è dovuta, banalmente, alla rimozione di quanto di
più terrifico l’uomo possa immaginare nel decorso della sua esistenza,
vale a dire il pensiero dell’annichilimento personale dopo la
propria morte, ma va attribuita, piuttosto, a specificità concettuali
e linguistiche relate al realismo segnico che domina da cima a
fondo le strutture di senso delle culture mitico-rituali. Qui
il nulla è, semplicemente, impensabile. In tal senso, la morte
mitico-rituale è sempre pensata nella logica e nell’economia del
transito, analogamente, quindi, a tutti gli altri transiti che
scandiscono, ritmandola, la nostra esistenza, quali quelli che
si riferiscono alla nascita, alle classi d’età, ai matrimoni,
alle iniziazioni, alle consacrazioni, ai luoghi, alle stagioni,
alle migrazioni degli animali, agli astri, etc.. Tuttavia, data
l’indole fratta e non continua dello spazio e del tempo mitico-rituali,
ogni transito implica un vero e proprio balzo – intimamente rischioso
e, quindi, ritualmente assistito3 – di là dalle fratture,
delle discontinuità, che costituiscono vistosamente e concretamente
ogni crisi periodica o non periodica lungo il decorso dell’esistenza
umana (individuale e comunitaria) e cosmica. In tal caso, data
l’impermanenza generale dell’esistenza che può comportare in qualunque
momento la cessazione improvvisa della condizione di tranquillità
e di benessere in atto – sempre altamente probabile, dato l’evidente
strapotere dei mali nella nostra vita – la vera angoscia mitico-rituale
è, piuttosto, quella di ridursi dopo la morte in una condizione
miserabile di sofferenza permanente, non riscattabile in alcun
modo, e non già quella, tipicamente occidentale, di svanire improvvisamente
nel nulla come la nebbia sotto i raggi del sole. Dai grandi miti mesopotamici, sumeri,
babilonesi e assiri, apprendiamo che persino i grandi dei come
Inanna e il marito e re Dumuzi, morendo4, scendono o ascendono
agli Inferi (il Kur)
del tutto nudi, spogli di ogni abbigliamento o gioiello che, per
altro, incarna in vita, concretamente, le loro stesse facoltà
straordinarie che le costituiscono come figure potenti. La stessa
Signora degli Inferi, la potente dea Ereshkigal, giace nuda nel
buio del suo regno, cibandosi di fango e bevendo acqua sporca,
preda di una sterile e insaziabile sfrenatezza sessuale. L’uomo,
poi, che dopo morto non lascia superstiti che possano aver cura
di lui, recandogli acqua e cibo con le rituali offerte funerarie,
deve accontentarsi dei rifiuti e dei resti delle vivande di cui
i defunti più fortunati hanno potuto godere negli Inferi o cibarsi,
addirittura, solo della polvere e dell’acqua sporca. Il negativo
dell’esistenza, insomma, appare anche nell’universo mitico dell’Al
di là, sempre come qualcosa di reale e di palpabile e, proprio
per questo, per quanto spaventoso esso possa essere immaginato
dalla mente umana, resta, per così dire, concepito e vissuto sempre
a misura d’uomo perché è, in ogni modo, qualcosa di concreto,
di afferrabile, non diversamente, in definitiva, dalle cose e
dagli stati di cose percepibili nel mondo dei viventi. Invece dell’idea occidentale che la vita e la morte si neghino
vicendevolmente come contrari – se non, metafisicamente, addirittura
come ontologicamente contraddittori – nel pensiero mitico-rituale
domina l’idea, eminentemente realistica, che la vita e la morte
sono due stati esistenziali differenti che, lungi dall’escludersi,
si avvicendano semplicemente nel tempo, uno dopo l’altro, persino
più volte, elargendo, così, all’uomo e al mondo molteplici nascite
e molteplici morti che scandiscono, ridotte a semplici fasi, il
ritmo generale e continuo del reale. La morte mitica – sempre
vissuta e intesa, di norma, come prodotta dallo scatenarsi delle
potenze sacrali maligne o dall’ira di un dio offeso – può pure
essere solo una vittoria temporanea e marginale di sacralità avverse,
che può pure essere annullata, quindi, con il prevalere di intelligenze
e di volontà positive sacrali, operanti spontaneamente o ritualmente
all’interno di un modello di tempo in cui la reversibilità mitico-rituale
degli eventi è ampiamente prevista ed è sempre concretamente effettuabile.
L’uomo mitico, allora, acquisterebbe l’immortalità – un termine,
questo, il cui senso va, in ogni modo, rigorosamente precisato
– entrando a far parte, per coniugazione senza confusione, dei
grandi eventi ricorrenti dell’esistenza, raggiungendo in cielo,
ad esempio, Shamash, il dio sole sumero in viaggio nella sua barca,
come aspirava ardentemente Gilgamesh, o ruotando per sempre intorno
al Polo celeste come una stella, o rinascendo a primavera con
la vegetazione come Osiride, o mescolandosi nell’inondazione stessa
del Nilo, o, ancora, apparendo e scomparendo ogni mese nel cielo
notturno insieme al dio Sin, la luna di Sumer. La morte, insomma,
è solo un’altra vita, auspicabilmente serena, ma per pensare tutto
ciò letteralmente e non simbolicamente – come realmente lo era
- occorre impiegare una modalità fondamentale di pensiero del
tutto differente, quella sempre realisticamente incarnata, che
solo i sistemi culturali ancorati al mito e al rito, cioè a rivelazioni
e azioni potenti, possono legittimamente concepire e attuare. Sottratto, in tal modo, alla lezione che
colloca il mondo dei morti in un’astratta e incolore trascendenza
(Al di là) rispetto al mondo dei viventi
(Al di qua), ad un passo
dallo svaporare nel nulla d’esistenza e di senso, la vita e la
morte, assunte, in generale, dal mito come svolgentisi su un medesimo
piano, restano l’una alla portata dell’altra e diventano talmente
assimilabili da confluire paradossalmente all’interno di un’unica
e più ampia categoria d’esistenza che la cultura occidentale non
riesce più a concepire. Miticamente, poi, le ragioni della fertilità
e le ragioni dei morti che sogliono abitare sotto la terra, là
dove si ritiene sorga ogni esistenza in generale, tendono a confondersi
intimamente e a sostenersi vicendevolmente, dato che i nuovi nati
sono, di solito, intesi come dei morti risorti. Le comunicazioni,
poi, tra i vivi e i morti sono, poi, relativamente agevoli e,
in ogni modo, mai interrotte. Quando i defunti non vengono sepolti
direttamente sotto il calpestio dei vani stessi delle abitazioni
dei superstiti, com’è d’uso a partire dal Neolitico, o nei giardini
circostanti le abitazioni, per cui le frequentazioni sono di fatto
assicurate tramite le invocazioni d’assistenza e le offerte di
bevande e di cibo rivolte agli antenati, ci sono sempre luoghi
particolari, naturali o artificiali, come le acque, in generale,
i bordi dei fiumi, le caverne, i bothroi infernali (ad esempio il mundus dei Romani), ritenuti eminentemente
elettivi per il colloquio dei vivi con i morti. A volte, come
ad esempio fa Odisseo, basta solo scavare una fossa per raggiungerli
o, in definitiva, nemmeno questa, perché saranno i defunti stessi
a farci visita quando restiamo, inerti, in balia di sonni popolati
di sogni. In luogo dell’indeterminata e smarrente angoscia del nulla,
ben nota all’uomo occidentale secolarizzato, il vissuto della
morte mitico-rituale, quindi, è segnato dall’usuale, sebbene ingigantitasi,
paura che il transito della morte possa trascinare l’uomo a vivere
in luoghi di sofferenza e di disperazione e lasciarlo ivi abbandonato
nel grembo di una condizione esistenziale di irriscattabile, permanente,
infelicità, perché in balìa, inerme, di forze sacrali maligne.
I lunghi e onerosi riti di morte, ad esempio, sono fondamentalmente
finalizzati ad allontanare le potenze del male – di cui l’estinzione
del vivente, uomo, animale o vegetale, è, già, una delle molteplici
temute epifanie – che, secondo precisi dettati mitici, una volta
manifestatesi concretamente con la maschera della morte, potrebbero
prendere il sopravvento, coinvolgendo non solo il cadavere e poi
il defunto definitivo, ma anche, per ulteriore contagio pandemico,
i familiari, gli amici e, infine, l’intera comunità, seminando
ancora malattie e morti tra tutti gli esseri viventi e ostacolando
le rinascite a tempo dèbito dei trapassati5.
Noti paradigmi mitici, diffusi ecumenicamente, relati principalmente
alle vicende astrali, in particolare a quelli del Sole e della
Luna, ai solstizi, alle eclissi e alle alternanze stagionali,
rivelano lotte furibonde e selvagge, primordiali e ricorrenti
perché reversibili, contro mostri divini da parte di un Re o di
un Eroe divinizzati o di una potenza creatrice contro il Caos
delle origini (Apollo e Python, il Dio della tempesta e Illuyanka,
Zeus e Typhon, Osiride e Seth, Marduk e Tiamat, Indra e Vritra,
Thor e Midgar, etc.), tutte sacralità negative e maligne battute,
ma non uccise mai definitivamente, e solo respinte via, di là
dagli estremi confini di quel cosmo divino e umano nato proprio
con la loro sconfitta, ove giacciono, ostinatamente occhiute,
pronte a rigurgitare fuori, filtrando dalle fratture di spazi
e di tempi pensati sempre dal mito come singolarmente discontinui.
Così l’esistenza dell’uomo e del mondo è percorsa da un’arcana
tensione cosmica, originaria, “fossile”, che rende instabile ed
effimero ogni stato di cose e che impone una continua vigilanza
e una strenua difesa per poter sopravvivere, in particolare in
tutti gli inevitabili transiti critici dell’esistenza, sempre
pericolosi, impiegando riti adorcistici o esorcistici di sostegno
e di contrasto, grandi e piccoli, che riattivano, ora come allora,
scrupolosamente, le gesta salvifiche di energie e di figure potenti
rivelate nei miti originari, nella ferma convinzione che i mali
più nefasti e persino la morte stessa non sono mai eventi intrinsecamente
irreversibili. I riti salvifici, insomma, si devono necessariamente
ripetere perché si reiterano, ora come allora, con ostinazione,
gli attacchi delle figure potenti maligne e solo il Sacro, proprio
perché potente, può elargire all’uomo e al mondo l’essenziale
del vivere umano e cosmico, cioè quell’esistenza e quel senso
di cui essi – perché impotenti – sono privi, non essendone titolari
e gestori diretti. «Ora, che sonno è mai questo che ti possiede? Hai perso conoscenza
e non mi ascolti. Egli gli tocca il cuore, ma esso non batte più».6
Dalle profondità delle steppe mesopotamiche, forse tra la fine
del Terzo Millennio e gli inizi del Secondo, ci giunge il canto
doloroso e terrorizzato di Gilgamesh, uno dei re sudbabilonesi
di Uruk, quando un mattino, all’improvviso, scopre con stupefazione,
il volto della morte – intesa come punizione di divinità irate
– disteso sul viso dell’eroe senza pari, Enkidu, amante e compagno
di festini spensierati e di lotte immani contro mostruosi esseri
divini. Non diversamente da Achille, anche Gilgamesh è carne divina,
perché è figlio di una dea, Ninsun, che gli ha elargito 2/3 d’immortalità,
accanto ad 1/3 di mortalità ereditato dal padre, un semplice sacerdote
di Kullab7.
Tuttavia, indipendentemente dalle leggi bronzee della genetica
mitica, il re di Uruk avrebbe pur dovuto conoscerla la morte,
perché il sonno dei viventi, “rampollo umano”, è per i Mesopotamici
il segno inequivocabile della loro mortalità: «il dormiente e
il morto sono eguali; non riproducono essi l’immagine della morte?»8 E così Gilgamesh,
che non vuol fare la fine di Enkidu9, atterrito all’idea
di poter mutare la sua splendida condizione regale in un’altra
oscura, fatta di umiliazioni e di privazioni, si trascina, vagando
senza posa, fino agli estremi confini del mondo (isole del Golfo
Persico?), di là dalle porte del Sole, rigorosamente vietate ai
mortali, incurante dei pietosi consigli dello stesso dio dell’astro
diurno, Shamash, che, premurosamente, gli si fa incontro, scongiurandolo
di far ritorno a casa e in se stesso perché quella vita che va
cercando non la potrà trovare mai10.
Non pago del regalo del dio Enlil di Nippur,
il temuto Signore del vento e della terra, membro della grande
Triade divina, che gli ha concesso di possedere e di reggere un
regno potente, Gilgamesh aspira a ben altro ed «erra di qua e
di là come un ladrone in mezzo alla campagna»11 alla ricerca di quell’isola nel paese orientale
di Dilmun (?), di là dall’Oceano della Morte, là dove sorge il
sole, ove soggiorna, beato con la moglie, l’eroe sumero scampato
al Diluvio, Utnapishtim “il lontano”, unico degli umani che «è
entrato nell’assemblea degli dei ed ha ottenuto la vita eterna
(found life eternal)», onde strappargli,
una volta raggiuntolo, il segreto della vita e della morte.12
La moglie di Utnapishtim, impietositasi, diversamente dal marito,
di fronte all’incontenibile disperazione di Gilgamesh, gli svela
il segreto della potenza magica di una pianta, «simile al biancospino,
la cui spina come una rosa ti punge la mano»13, che, una volta assunta, trasforma il vecchio in
giovane. Ma accade che un serpente fiuta la fragranza della pianta
e, emergendo in silenzio dall’acqua, ove giaceva immerso, se ne
impossessa, rubandola al re di Uruk che l’aveva faticosamente
scoperta e raccolta. Dopo averla trangugiata, il rettile getta
via le squame della sua vecchia pelle – cioè
rinasce - sotto gli occhi desolati di Gilgamesh, a conferma
che il vegetale colto era, in effetti, la pianta dell’eterna giovinezza14. Apparentemente, Gilgamesh aspira, certo,
come Achille, ad un nome famoso15, ma tutto questo non
deve indurre a concludere, frettolosamente, che «l’ideale eroico
degli antichi Mesopotamici, sumeri e babilonesi e assiri (fosse)
nient’affatto dissimile da quello posteriore dei Greci».16
Si cercherebbero invano nella vita di Achille sentimenti, quasi
infantili, come l’acuto sgomento di Gilgamesh di fronte alla morte
e lo smarrirsi del re di Uruk nella steppa, lontano dagli affari
del regno, travolto nella foga di una caccia inesausta alla pianta
dell’eterna giovinezza, del tutto sordo ai duri detti della dea
Siduru che gestisce un’osteria proprio ai confini del mondo: «Gilgamesh,
dove corri? La vita che cerchi non troverai. Quando gli dei hanno
creato l’umanità, la morte hanno stabilito all’umanità, la vita
hanno tenuto nelle loro mani».17 Domina, piuttosto,
su tutto, l’indicibile orrore di una vita futura «nella casa della
tenebra, la dimora di Irkalla, nella casa dalla quale chi entra
non esce, sulla strada dalla quale l’andata non ha ritorno, nella
casa, gli abitanti della quale sono privi di luce, dove polvere
è il loro nutrimento, il loro cibo è l’argilla; sono vestiti,
come gli uccelli, di un vestito di ali, e luce non vedono, in
oscurità siedono, sopra i battenti e i chiavistelli è distesa
la polvere».18 Del resto, se Gilgamesh, comunque, cerca disperatamente
un’immortalità che è da intendere correttamente solo nella logica e nell’economia della rinascita,
come si evince, del resto, sia dal significativo nome della pianta,
“il vecchio diventa giovane”,19 come dall’indole della
metamorfosi subìta dal serpente che d’allora perderà stagionalmente
la propria pelle20, e non
già come la condizione del tutto trascendente di chi, sottraendosi
al tempo irreversibile di un divenire insensato e cieco, secondo
un modello di tempo egemone in Occidente, accede all’eternità
aspaziale e atemporale, tale comportamento, dicevo, rivela,
allora, che la fama delle grandi imprese compiute non può essere
intesa da Gilgamesh in alcun modo, a differenza di Achille, come
una possibile sostituta reale dell’immortalità. Non si tratta,
evidentemente, di semplici differenze temperamentali, ma di esiti
concettuali e comportamentali di irriducibili alterità culturali
che hanno allestito, ciascuna per proprio conto, per intendere
la vita e la morte, contesti di senso reciprocamente alieni, comprensibili
analiticamente solo per via contrastiva. Mi rendo, certo, conto
delle difficoltà di rendere termini quali zikaru,
rabu, iblu,21 ur-sag,
senza impiegare l’attraente, quanto deviante, vocabolo “eroe”22
– elargito dai traduttori, per altro, indifferentemente, non solo
a mortali o a semidei, ma anche a dei, a demoni e dagli etnologi
persino alle figure potenti civilizzatrici delle etnie - che rimanda
a contenuti e a strutture di senso spaziali, temporali e logiche
del tutto estranei, a mio avviso, a quelli che fanno da sfondo
ai pensieri e alle azioni di figure mitiche, divenute familiari
anche in Occidente, come Gilgamesh, Utnapishtim, Enkidu, Etana,
Adapa, etc., per quanto non meno mirabolanti di quelle degli eroi
greci siano le imprese di costoro e impossibili, certo, da dimenticare. In effetti, l’ideologia della fama gloriosa,
quella creatrice d’immortalità presso i superstiti, nasce e s’impone
solo in terra greca, per conquistare, poi, l’intero Occidente,
e questa, di fatto, ha sostituito la dottrina antichissima della
rinascita, incrinatasi, certamente, a partire dall’Età del Ferro
con l’obsolescenza, in situ, dei ruoli e delle funzioni dell’ultramillenaria
Grande Dea Mediterranea, la Signora della vita e della morte,
l’Artefice delle metamorfosi più mirabolanti, benigne e sinistre,
originariamente utero e tomba di ogni esistente cui assicurava
la resurrezione. Le sue “schegge impazzite”, sotto le spoglie
di piccole, malefiche, potnie, divenute poco comprensibili ai
Greci, sono rimaste come disperse a punteggiare con la loro presenza
alcune minuscole isole del Mediterraneo ai confini del mondo per
insidiare, ad esempio, gli approdi di gente smarritasi come l’Eroe
di Itaca. Tale non voluta surrogazione, perché necessitata da
un’imponente crisi antropologica di credibilità, che, sia pure
inizialmente in aree molto circoscritte del Mediterraneo Antico
Orientale, colpiva non già la fede in determinati sistemi mitico-rituali,
ma l’affidabilità generale del principio rivelativo stesso, mettendo,
in tal modo, in questione le fondamenta stesse del mito e del
rito, si sarebbe orientata, incamminandosi lungo strade talmente
diverse da quelle tradizionali, da condurre l’Occidente verso
quella condizione cognitiva ed esistenziale che si sarebbe chiamata,
più tardi, secolarizzazione. I miti e i riti eroici, greci e romani,
intendono sempre più la morte eroica non come un transito, per
quanto complesso e difficile, svolgentesi tra piani omogenei e
sostanzialmente commensurabili, analogamente a quanto suole accadere
da un luogo all’altro della nostra terra, ma come un vero e proprio
movimento di trascendimento del mondo di quaggiù, intimamente
riscattante della vita e della morte insieme, dischiudente un
tipo d’esistenza assolutamente altro, il cui statuto ontologico
non è di facile comprensione, sebbene la speculazione metafisica,
com’è noto, avrebbe offerto un poderoso supporto concettuale immaginando
e disegnando una singolare modalità d’esistenza puramente noetica,
propria di un pensiero del tutto disincarnato che può pensare
enti reali privi di hyle
(materia), cioè puramente intelligibili, fuori del tempo e dello
spazio del divenire e, quindi, eterni. Si narra, dunque, che Methis e Theti –
evidentemente ancora detentrici, diversamente da ogni altra dea
olimpica, di qualcosa della suprema potenza primigenia della Grande
Madre, titolare esclusiva della vita e della morte, sarebbero
state destinate, stando ad una sinistra profezia di Themis o di
Prometeo, se avessero sposato Zeus o un altro Olimpio, come Posidone
(nel caso di Theti), a mettere al mondo un figlio equipaggiato
con armi molto più devastanti di quelle del padre (del fulmine
o del tridente) che avrebbero distrutto l’impero cosmico di Zeus.
Zeus, allora, atterrito, inghiotte Methis, incinta d’Athena, per
generare da solo, espellendola dal proprio cervello con l’aiuto
di Efesto, la potente dea civetta, privando, in tal modo, la madre
di un potenziale generativo oltremodo sinistro, e darà sposa,
con l’allarmato consenso di tutti gli altri dei, la recalcitrante
Theti23, ad un uomo, al pio
Peleo, che darà alla luce, com’è noto, il mortale Achille24.
L’Iliade, che è il poema
epico di Achille, il canto del più grande eroe greco, ci presenta
esemplarmente con la contraddittoria figura di Theti – potentissima
e debolissima ad un tempo25
- il transito culturale delle etnie greche, all’alba dell’Occidente,
dai culti vicino-orientali di rinascita ai culti dell’immortalità
eroica nella fase finale della parabola descritta dalla dea stessa
che, in tempi e spazi lontani, era stata addirittura risolutiva,
come titolare delle inaudite prerogative della Grande Potnia mediterranea,
negli eventi narrati dai grandi miti teogonici di successione
al trono dell’universo, sventando, insieme a Briareo, un temibile
golpe ordito da Athena,
Hera e Posidone ai danni di Zeus26. Come Demetra, che
aveva cercato inutilmente di rendere immortale il piccolo Demofonte,
temprandolo nel fuoco, o come la stessa Medea, la nipote del Sole
sempre rinascente, con il suo calderone magico della giovinezza,
anche Theti, Signora della metamorfosi, aveva tentato, invano,
di trattare con il fuoco o con l’acqua dello Stige i propri figli
per renderli invulnerabili, attardandosi, per così dire, inutilmente,
in credenze e in comportamenti che “la sapienza dei Gentili” non
era più in grado di capire e che, quindi, bollandoli come folli,
duramente osteggiava. In Omero «la splendida Theti» è, ormai,
solo una sposa e una madre infelice che, dopo «aver subìto il
letto di un uomo», non diversamente da Eos, l’Aurora, che aveva
sbadatamente chiesto a Zeus l’immortalità per l’amatissimo marito
Tithonos, ma non l’eterna giovinezza27,
ha dovuto abbandonare Peleo che «ora di trista vecchiaia nella
casa egli è preda»28,
rimanendo sola e indifesa accanto ad un figlio, fortissimo guerriero,
che paga con la morte il prezzo dell’egemonia del potere di Zeus.29
Nient’altro che un’inerme30 e tremebonda madre,
dunque, dolente per le ingiuste sofferenze di cui soffre il fortissimo
figlio a causa dei soprusi di uomini di gran lunga a lui inferiori
e sempre costretta a mendicare presso Zeus e gli altri Olimpi
tutto ciò di cui il figlio ha bisogno – persino delle armi perdute
con la caduta di Patroclo31
– solo per poter sigillare con una morte violenta e prematura
sul campo di battaglia una condotta eroica impareggiabile. «E
morto il canto non l’abbandonò. Presso la pira, presso la sua
fossa, stettero le fanciulle d’Elicona e gli offrirono uno splendido
lamento. A chi non sa la morte dunque piacque che un forte ormai
scomparso fosse affidato a un canto non umano».32 È qui rilevante l’emergere faticoso, dalle
pieghe di questi mutili relitti di miti e di riti millenari del
Mediterraneo non più creduti e divenuti quasi incomprensibili,
di una struttura di senso, articolata nella polarizzazione tra
un divenire irreversibile della consumazione e della morte ed
un’immobile atemporalità (eternità), in cui traluce, appena riconoscibile,
qualcosa a noi divenuto familiare, il modello di tempo egemone
d’Occidente, quello che la filosofia e la scienza, complessificandolo,
successivamente svilupperanno e articoleranno. Theti, sebbene
irata e dolente, non può implorare Zeus affinché conceda al figlio
quell’immortalità reale
relata ai miti e ai riti della rinascita,
strappandolo alla morte definitiva, che condurrebbe, stando alla
profezia, all’estinzione dell’impero olimpico del cosmo e alla
sottrazione di Achille all’eroicità, cioè a quell’immortalità
ideale, unica ad essere ormai possibile e comprensibile alla luce
del nuovo logos greco. L’immortalità reale, infatti, è attingibile
solo mediante la rinascita che presuppone un modello di tempo
in cui gli eventi si possono ripetere, sebbene non in senso ciclico33, mentre l’immortalità
ideale, di chiara matrice ellenica, si basa sull’atemporalità,
cioè su una condizione d’esistenza che, in ogni modo intesa, è
pensata come sottratta del tutto al fluire del tempo. Theti, insomma,
può chiedere e, di fatto, chiede a Zeus, per il figlio, solo due
grazie minime ed estreme, in altre parole la tutela del di lui
onore, offeso da Agamennone, e le armi, fattori necessari per
attingere quella gloria eterna che, ormai, si è sostituita, surrogandola
integralmente, all’impossibile immortalità reale andata smarrita
con l’eclisse del realismo segnico. L’eroe è un essere propriamente
umano e vive nel tempo di una finitezza esistenziale che, con
il tramonto della credenza tradizionale nella rinascita mitico-rituale,
può essere riscattata solo con un movimento d’oltrepassamento
deciso – un vero e proprio trascendimento – verso un’eternità
intesa come uno stato d’esistenza atemporale di là dalla vita
e della morte.34 «Madre, poi che mi
hai generato per una breve vita, l’Olimpio Zeus che tuona dall’alto
mi dovrebbe dare almeno la gloria (timé)».35 Si narra, del resto,
che sia stata la stessa Theti a strappare Achille dal fuoco della
pira, per trasportarlo, sottraendolo al tempo della consumazione
e della morte, nel mondo degli Eroi, presso quell’isola Bianca
che trovasi negli Elisi. E si narra, anche, che Calipso, «colei
che si nasconde», la ninfa «dai riccioli belli», che come Circe,
una delle grandi figlie del Sole, ama cantare armoniosamente tessendo
con la spola d’oro tele grandi e immortali che, in realtà, sono
trame d’eventi cosmici e musiche di sfere astrali36,
possibili solo a chi domina la vita e la morte dell’intero universo,
abbia invitato Odisseo a rimanere stretto a lei da legami d’amore
nell’isola lontana, all’estremo Occidente, promettendogli, oltre
al possesso del suo splendido corpo divino, con il quale, ovviamente,
nessuna donna mortale può gareggiare37,
di farlo immortale e senza vecchiezza per sempre38. Lo sconcertante e
apparentemente insensato rifiuto di Odisseo testimonia l’eclisse
totale di senso dei miti e dei riti di rinascita, di cui certe
testimonianze molto remote recavano ai Greci delle poleis notizie ormai stravolte, attribuendole con terrore a conoscenze
e ad operazioni enigmatiche di dee, Signore della metamorfosi,
tanto abili quanto inaffidabili, sfigurate come maghe pharmakìdes, nel mescolare solo “farmaci tristi”39
e attesta, anzi, l’orrore dell’Eroe per la vera morte ellenica,
quella di vivere “nascosto” per sempre e, quindi, irrimediabilmente
dimenticato, perché privato, senza il suo ritorno ad Itaca, dell’unica
e reale immortalità che solo la gloria (kléos)
e gli onori dei morti da parte degli Achei raccolti intorno alla
tomba gli possono ormai elargire40. Una norma non scritta, questa, che, come ricorda
l’inflessibile e sovrumana Antigone, né Zeus, né Dike che abita
con gli dei inferi, hanno mai sancito, perché è immutabile ed
eterna e «non v’è alcuno che sappia quando si è rivelata».41
Il trascendimento, ora, della vita e della
morte, l’oltrepassamento riscattante del divenire terrifico, è
possibile e comprensibile solo se esiste ed è attingibile come
tale uno stato puramente noetico di là dallo spazio e del tempo,
privo di hyle, puramente intelligibile. È questo il principio di tutti i principi
della metafisica greca ed occidentale, senza il quale sarebbe
privo di senso e di portata ontologica il gesto di trascendere
il sensibile verso l’intelligibile con la convinzione di poter
attingere, in tal modo, ontologicamente ed epistemologicamente,
salvezze eterne e conoscenze vere. L’irreversibilità di un divenire
insensato si riscatta con l’invenzione di un noetòn che la credenza metafisica ritiene
possa e debba corrispondere a qualcosa d’esistente sottratto alle
indeterminatezze del sensibile e alle impermanenze di questo.
Non si muore e non si rinasce più, ma si nasce e si muore una
volta per tutte, definitivamente, ma, sotto particolari condizioni
(condizione eroica o iniziatica), si può trascendere il precario
aisthetòn, cioè la vita
e la morte stesse, attingendo un’esistenza sovratemporale, permanente
ed eterna, puramente noetica. Di codesta stoffa, ormai, sono fatti,
secondo la credenza metafisica, gli dei, le anime e le idee, sebbene
la religiosità popolare e il pensiero cosiddetto comune, che vanno
diversificati dal pensiero colto, egemone nelle poleis,
si distaccheranno sempre con riluttanza dalle credenze ereditate
dalle tradizioni demo-etniche. In testi e in luoghi divenuti celebri,
M. Heidegger ha interpretato, com’è noto, l’essenza della verità
originaria d’Occidente (alétheia)
– senza, tuttavia, domandarsi se tale modalità strutturale fosse
consentanea o no allo spirito dell’Occidente rivelatosi poi lungo
la sua storia – non già come fondata sulla soggettività dell’essenza
umana, per cui «gli oggetti si conformano alla norma della nostra
conoscenza»42, quindi non sulla
Uebereinstimmung (concordanza)
di una proposizione con la cosa43 o sul consenso dei
giudizi, ma come Entborgenheit,
Entbergung, Unverborgenheit, in altre parole come “non nascondimento”.44
Indipendentemente, ora, dalla discutibile tesi heideggeriana che
l’essenza della verità sia la libertà, da cui, per altro, l’uomo,
lungi dal possederla come facoltà propria, sarebbe posseduto45, qui Heidegger sembra
avvertire, comunque, il sentore di quell’antichissima matrice
essenzialmente rivelativa del vissuto della verità (Offenbarkeit) che dovrebbe essere inteso,
fenomenologicamente, come stato di coincidenza biunivoca di apparire
ed essere, senza resti, come connotato di tutto ciò che, da sempre, non si nasconde e che non può nascondersi per ragioni
di principio e al quale l’uomo fiduciosamente si abbandona. Se,
dunque, la lethe è da intendere fondamentalmente come
Verberung e l’alétheia come Unverborgenheit, al punto che l’illuminazione e il non nascondimento
sarebbero la medesima cosa, allora i Greci avrebbero esperito
e inteso, come ritiene conclusivamente Heidegger, anche la dimenticanza
(Vergessenheit), cioè propriamente la lethe, come una sorta di nascondimento46.
Tuttavia sembra, senza entrare, qui, in dettagli filologici, che
nel sistema greco le forme più arcaiche sono lètho,
èlathon, frequenti in Omero come «menzogna opposta a verità»,
per cui lanthàno (sto nascosto, rimango occulto,
inosservato, tengo una cosa nascosta), da intendere come rifacimento
secondo manthàno, sarebbe palesemente tardivo47,
come tarda anch’essa sarebbe la nota contrapposizione filosofica
e comune tra «verità o realtà ed apparenza»48. Del resto, due imponenti
figure divine, esemplarmente contrapposte, Lethe (Oblìo) e Mnemosyne (Memoria), assistono dall’alto l’attività intellettuale
ellenica, la cui risorsa principale è costituita, appunto, dai
contenuti rivelativi della Mneme
che vince l’oblio, ed esse sembrano dominare a lungo, influenzando
gli Orfici49,
i Pitagorici, Parmenide50, Socrate e Platone
per il quale, com’è noto, la ricerca e il sapere sono ancora e
sempre anamnesis, cioè
mera reminiscenza. È, del resto, probabile che proprio dalla
tradizione orale dei cosiddetti “secoli bui” del Medioevo Ellenico
(dal XII al IX secolo) ci giungono i canti celebrativi delle gesta
degli Immortali e degli Eroi, da parte di aedi ispirati da figure
potenti come Mneme e da Mnemosyne, specializzate nel ricordo del passato, nel discernimento
del presente e nella previsione del futuro, che amano rivelarsi
anche agli indovini e ai re di giustizia51. La gloria o il biasimo,
dunque, appaiono elargiti, anzitutto, dal dio, e il ruolo dell’aedo,
come servitore delle Muse, è quello di decidere, posseduto dal
dio, il valore del guerriero, elargendogli rispettivamente, con
il suo canto, memoria od oblio indelebili.52 Trattandosi, in definitiva,
di un dono di veggenza53
che consentirebbe ad un mortale la padronanza assoluta del passato,
del presente e del futuro, l’uomo, in evidente postura rivelativa,
resterebbe agito da figure potenti cui si abbandonerebbe, sotto
dettatura, del tutto fiducioso. Non ci sarebbe, allora, in tali
condizioni coscienziali, aletheia o lethe, senza
la volontà e l’intervento delle Muse e della Memoria54
che fanno vivere o fanno morire per l’eternità, con la lode o
col biasimo, gli Immortali e gli Eroi. L’immortalità ideale non
dovrebbe essere intesa, quindi, come la mera conseguenza, per
così dire “mediatica”, della fama delle grandi imprese degli eroi,
ottenuta presso i superstiti e, quindi, dipendente dai loro giudizi,
ma, al contrario, è la fama ad essere, piuttosto, l’esito necessario
dell’avvenuto ingresso del defunto, mutato in noetòn, nell’eternità55. È, in definitiva,
nient’altro che la rivelazione vera e propria di una simile apoteosi,
voluta dalle Muse. La stele, i giochi funebri e il canto dell’aedo
non sono essi a generare, da soli, l’immortalità ideale dell’eroe.
Non è la memoria, gelosamente conservata, ad assicurare l’immortalità
delle gesta compiute dall’eroe, ma, al contrario, è l’intrinseca
grandezza dell’azione compiuta a trascinare l’eroe a trascendere
necessariamente la condizione umana, consegnando il defunto tra
i noetà degli Elisi,
fuori dello spazio e del tempo abitati da coloro che muoiono,
e a vivere per sempre nell’eternità. È, proprio, questa traslazione
fuori del tempo irreversibile del divenire, rivelata dalle Muse
e dalla Memoria, a generare necessariamente “la
non dimenticanza” del defunto e delle sue gesta e, quindi,
la loro indefettibile memoria che è poi il vissuto greco dell’eternità,
il modo originario in cui gli Elleni ormai intendono e vivono
l’eterno, ontologicamente, come verità, in altre parole come “non
dimenticanza”. L’evento eroico, potente, trasferisce,
dunque, il defunto di là dallo spazio e del tempo, mutandolo in
un noetòn che può ormai esistere solo abitando
accanto agli dei immortali nell’eterno, e una simile apoteosi
si riverbera, per volontà delle Muse, nel mondo di quaggiù, rivelandosi
e imponendosi nel complesso cultuale della stele, dei giochi funebri,
del canto dell’aedo, cioè nel vissuto irresistibile di un insopprimibile
ricordo da parte di superstiti raccolti intorno alla tomba o al
cenotafio dell’eroe. Gli antichi Greci hanno generato e trasmesso
all’intero Occidente un particolare senso cognitivo ed esistenziale
che ancor oggi conserviamo, nonostante l’avvicendarsi di gravi
crisi culturali, che come invariante – un motivo ostinatamente
prediletto dai Greci che osteggiano il perpetuum
mobile – unificante e fondante ogni esperienza di quaggiù,
sottraendola a quella generale impermanenza e a quel caos dell’esistente
che significa “oblìo”, si scopre radicata profondamente
proprio in quel remoto culto degli eroi, nato e impostosi per
legittimare il governo dei ghene
aristocratici nelle antiche poleis
greche, agli albori della nostra avventura sul pianeta come figura
cognitiva ed esistenziale del “non
oblio”. Una non dimenticanza, questa, che, proprio perché
attiene ad un contenuto situato di là da ciò che, come fenomeno,
ambiguamente appare e rapidamente dilegua, vive in quel mondo
dell’aei estìn che è
proprio di ciò che non si può dimenticare perché abita, a differenza
dei mortali che vivono nello spazio e nel tempo dell’impermanenza
e, quindi, dell’inevitabile dimenticanza, nei luoghi dell’eternità,
configurandosi come invariante e, quindi, come intrinsecamente
indimenticabile. E non è, certo, difficile scorgere qui, nel confuso
crogiolo di questi vissuti collettivi delle origini, alcuni tratti
salienti di quei celebri sèmata che guideranno, più tardi, in terra d’Elea, il filosofo Parmenide
lungo l’ardua ascesa nei cieli della metafisica per dischiudere
avventurosamente all’intero Occidente l’esistenza di un Essere
inaudito. Ma quando le Muse rivelano ad un pastore della Beozia,
che, per altro, firma, come già fanno anche i grandi vasai, la
propria opera, di saper «dire molte menzogne simili al vero»,
«sebbene sanno quando vogliono annunziare la verità (alethéa gherusasthai)»56
o quando Simonide di Ceo «pratica la poesia come un mestiere,
definisce l’arte poetica come un’opera d’illusione (apate),
fa della memoria una tecnica laicizzata»57 e rifiuta l’alétheia
come rivelazione poetica, preferendole l’ambigua doxa,58
o quando «il Signore, il cui oracolo è a Delfi, non rivela e non
nasconde, ma accenna (semàinei)»59
o, ancora, quando, insomma, gli oracoli enunciano responsi irrimediabilmente
ambigui, che ne è allora del valore di verità della rivelazione
stessa?60 Se ritengo, in ogni modo, poco significativa
la discussione sull’interpretazione del termine greco alétheia come “non oblìo” o come “non nascondimento”,
perché entrambe tali espressioni negano, in definitiva, un’assenza
che nel primo caso pertiene al mondo dell’interiorità, mentre
nel secondo si riferisce al mondo dell’esteriorità, tuttavia il
gesto epocale greco di formulare stranamente la verità per via
negativa, impiegando l’alfa privativo, è un indiscutibile sintomo
dell’esistenza di un misterioso sfondo originario da cui l’impulso
veritativo, muovendosi problematicamente e come “a fatica”, sembra
emergere, vincendo, quando vince, una cieca resistenza iniziale.
Perché mai, insomma, la physis
amerebbe nascondersi? Questa singolare condizione di partenza,
francamente enigmatica e gratuita, storicamente ed antropologicamente
subìta, appare a tal punto non casuale, da determinare, addirittura
per ragioni d’essenza, la forma e la semantica del termine stesso.
E tale stato di cose, per altro indiscutibile, sigla già, fin
dalle origini, a mio avviso, la profonda estraneità genetica e
strutturale del concetto ellenico e poi occidentale di verità,
rispetto a quello, apparentemente analogico, vigente nell’universo
rivelativo. Lo stesso Heidegger in Platons
Lehre von der Wahrheit sembra spingerci inesorabilmente lungo
un cammino teoretico che andrebbe percorso fino in fondo. Se, infatti, la verità significa già,
originariamente, ciò che è strappato ad un nascondimento che,
con i suoi diversi modi di essere (chiusura, custodia, copertura,
occultamento, dissimulazione, contraffazione, etc.)61, in tal modo, s’impone
come primario e pregiudiziale, se poi Platone afferma che l’avvicinamento
alla verità sia necessariamente progressivo62
e riconduce l’alétheia sotto
il giogo dell’idea a tal punto che d’ora in poi l’essenza della
verità non si sviluppa come l’essenza del non nascondimento dalla
propria pienezza essenziale, ma si disloca sull’essenza dell’idea63 e la verità si tramuta,
allora, in orthòtes, cioè
nella giustezza del percepire e del dire e nella conformità dello
sguardo all’idea, connotando, in tal modo, il rapporto umano con
l’esistente orientato alla concordanza (omòiosis)
del conoscere con la cosa64, e se, ancora, ogni
tentativo di fondare l’essenza della verità nella ragione, nello
spirito, nel pensiero, nel logos
o in qualunque specie di soggettività, fallisce65, allora si deve concludere
che lo strutturarsi ellenico della verità intesa come non oblìo
o come non nascondimento non è e non può essere pienamente d’indole
rivelativa. L’analisi fenomenologica, infatti, coglie agevolmente
nell’insorgere improvviso di ambiguità e di deficienze all’interno
dell’impianto manifestativo di supporto alle informazioni del
mondo e ai valori tradizionali sacri e profani di una cultura,
intesi e vissuti, quindi, come poco affidabili senza il soccorso
di sostegni e di integrazioni di sorta, il cruciale evento della
crisi in atto dei vissuti della rivelazione e il loro tramutarsi
in vissuti fenomenici. L’avvento non voluto di un pensiero critico
e del sospetto, maturato alla fine del Medioevo Ellenico, come
testimoniano ampiamente i dati storici, archeologici e antropologici,
perché necessitato da una realtà ambientale e sociale, divenuta
per i singoli e per le comunità poco affidabile, scopre, con il
primo incrinarsi del sistema mitico-rituale, l’inedita figura
di una coscienza egocentrata, cioè segnata da una centralità referenziale
di pensiero e d’azione – nel bene o nel male - rispetto ad ogni
ente circostante e gettato in balìa di un divenire insensato e
terrifico dal quale solo l’immagine teologica e filosofica di
esistenze eterne, di là da tutte le impermanenze d’esistenza e
di tutte le indeterminazioni di senso, cioè di noetà
disincarnati, può riscattare la misera condizione degli esseri
umani, coniugandosi esistenzialmente e cognitivamente con questi.
L’oblìo o il nascondimento sono generati,
in definitiva, da quel divenire che, inteso come ghénesis e come phthorà,
è insito nella manifestazione fenomenica stessa, intrinsecamente
instabile nel tempo e nello spazio perché radicalmente scissa
in un apparire e in un essere. Così, l’oblìo è il dileguarsi inevitabile
di ogni cosa che nell’impossibilità di trattenersi e, quindi,
di durare, viene a perdersi, mentre il nascondimento è il necessario
trascorrere di ogni cosa che per essere visto integralmente non
può arrestarsi in alcuna posizione spaziale privilegiata e deve
traversarle tutte, adombrandosi indefinitamente. In queste condizioni,
la verità, allora, come alétheia,
potrebbe essere accessibile solo rimuovendo totalmente queste
formidabili limitazioni interne, insorte proprio con la fenomenizzazione
della manifestazione, attingendo, così, degli invarianti che,
per essere tali, dovrebbero collocarsi di là da ogni divenire,
di là da ogni impermanenza, come potrebbero essere solo dei noetà puri perché esistenze intelligibili
viventi nell’immobile eternità di un’esistenza trascendente priva
di tempo. Il dogma greco della riscattabilità del divenire, ottenibile
non attingendo la salvezza in esso, ma solo e sempre dall’esterno,
cioè muovendo dall’assolutamente altro del noetòn,
trascendente la vita mortale, è l’inevitabile conseguenza dell’eclisse
dei miti e dei riti di rinascita, ove la vita e la morte erano
pensate e gestite per via immanente, cioè dall’interno della realtà
stessa e dei suoi intrinseci sensi, così come questi si manifestavano,
non già trascendendoli radicalmente. I comuni mortali muoiono,
dimenticano e sono dimenticati, se essi restano, inermi, preda
del divenire. Solo il noetòn
sottrae l’uomo alla dimenticanza, perché ciò che vive nell’eterno
è indimenticabile, in quanto è sottratto al tempo dell’irreversibilità
degli eventi, che non può trattenere alcunchè perché in esso dominano
la consumazione e la morte senza ritorno, quindi la dimenticanza.
Solo ciò che necessariamente è e necessariamente non tramonta
può, allora, riscattare la vita e la sua intima contingenza perché
oltrepassa entrambe in blocco, cognitivamente ed esistenzialmente,
e il non oblìo, quindi, altro non sarebbe se non ciò che è trattenuto
nel suo irreversibile trascorrere e, quindi, permane e dura indefinitamente.
I sogni ontologici, allora, della metafisica
occidentale coincidono epistemologicamente con quelli di una verità
assoluta, ritenuta raggiungibile secondo il razionalismo greco,
nonostante un contesto informativo irrimediabilmente fenomenico,
in un numero finito di passi. L’analisi fenomenologica, del resto,
chiarifica che l’impiego delle categorie e dei metodi inventati
dal logos greco per
sopperire alle gravi e sconcertanti mancanze della manifestazione
fenomenica presuppongono, quanto al loro statuto di senso e di
funzionamento, proprio quella dilacerazione di apparire ed essere
costituente il fenomeno e che essi non possono annullare, reinstallando
l’uomo nel vissuto della verità mitico-rituale che gode dell’assoluta
adeguatezza di principio assicurata dalla ferma credenza nel realismo
segnico della manifestazione rivelativa. È lecito, addirittura,
domandarsi – anche per evitare possibili incomprensioni - se sia,
infine, corretto o non impiegare indifferentemente il termine
verità in entrambi i casi in questione, sia per la manifestazione
fenomenica che per quella rivelativa. In questo secondo caso,
comunque, a differenza del precedente, le lacune e i contrasti,
interessanti il contenuto e il senso della manifestazione rivelativa,
sono affrontati e risolti non ricorrendo a supporti estranei ed
eterogenei, come accade necessariamente con il logos occidentale in funzione integrativa d’ogni carenza fenomenica
d’esistenza e di senso, ma solo appellandosi ad ulteriori integrazioni
e a correzioni attinte direttamente sempre ad una fonte rivelativa.
La coincidenza di principio tra apparire ed essere, tra esistenza
e senso, propria del realismo segnico, assicura all’uomo che crede
in esso una modalità conoscitiva del tutto particolare in cui,
a differenza di quanto accade nel conoscere fenomenico, la saturabilità
del conoscere è qui assicurata per ragioni d’essenza, sebbene
non sempre anche fattualmente. Mentre nella rivelazione la verità
ha un significato e un contenuto presentativi perché in essa i
referenti s’incarnano nei loro segni che li esibiscono, per così
dire, “in carne ed ossa”, nella manifestazione fenomenica la verità
possiede un significato e un contenuto puramente rappresentativi
perché in essa i segni rinviano, accennano, a dei referenti con
i quali non potranno coincidere mai a causa della scissione originaria
tra intellectus e res.66
Il radicamento della cultura occidentale nella manifestazione
fenomenica, impostasi fin dalle origini come una manifestazione
rivelativa stessa collassata, perché divenuta ambigua e scissa
in apparire ed essere, è talmente saldo ed esclusivo da indurre
fatalmente non solo all’incomprensibilità dello specifico rivelativo,
ma anche alla riduzione fenomenica degli stessi dati rivelativi
della tradizione religiosa giudaico-cristiana, penetrati in Occidente. Sebbene si sia precisato che l’originario
concetto greco di idealità abbia un suo specifico ed ineliminabile
valore ontologico che intende significare una vera e propria realtà
intelligibile, accanto e di là da quella sensibile, e non entità
meramente astratte, irreali e mentali, è opportuno, tuttavia,
ricordare che la sfera del noetòn, anche se inizialmente mostra un’evidente
portata ontologica che implica il permanere di una valenza manifestativa
e di una postura rivelativa, d’indole palesemente residuale, finirà
col perdere, lungo la storia dell’Occidente, ogni connotazione
realistica. La fenomenologia insegna che la crisi della credenza
nella manifestazione rivelativa e nel realismo segnico e il contestuale
avvento della fenomenizzazione dell’universo manifestativo implicano
fatalmente la perdita dell’ultramillenaria postura rivelativa
da parte di coscienze mitico-rituali che sogliono attribuire a
forze o a figure estranee i pensieri, i sentimenti e le azioni
che la coscienza occidentale, centrata in un ego, ritiene propri, perché frutto di scelte personali, relativamente
libere e autonome. Con la scoperta occidentale di una coscienza
egocentrata – perché l’io è sinonimo di una coscienza autonoma
e libera – nasce e s’imporrà nella nostra cultura con alterne
vicende quell’antropocentrismo di base, inizialmente aurorale
e strisciante67, che finirà, inevitabilmente,
con lo svuotarsi di quella dimensione ontologica che soleva abbracciare
strettamente l’uomo, il mondo e il Sacro, a ridurre la totalità
del reale, originariamente attribuita dal mito e dal rito a contenuti
rivelativi sacri o profani, al soggetto, alla sua mente, ai suoi
giudizi, ai suoi enunciati linguistici, alle corroborazioni consensuali
altrui. Questa cruciale mutazione culturale in direzione “umanistica”,
che ha dominato e domina ancora la storia dell’Occidente e che,
in ogni modo, il fenomenologo non può valutare né positivamente,
né negativamente, è stata da tempo rilevata e analizzata da molti
importanti studiosi, storici della cultura e pensatori, ma essi
hanno mancato, a mio avviso, l’individuazione del vero fattore
scatenante in quel remoto trauma antropologico che, abbattutosi
su etnie greche all’inizio dell’Età del Ferro nel Mediterraneo
Orientale, ha incrinato per la prima volta la fede ultramillenaria
dell’uomo nelle credenze e negli apparati cognitivi ed esistenziali
mitico-rituali. È questo, a mio avviso, l’occulto presupposto
di senso di un generale comportamento storico e antropologico
che ha fatalmente condotto – lo si riconosca o no – con il trascendimento
dell’esistenza e con la sua riduzione ontologica ed epistemologica
alle ragioni supreme di un potente logos puramente noetico che proietta i
propri sensi, estraniatisi dal mondo, su un aistheton
dall’oscuro ed atono fondo pensato dal logos
stesso come materico (hyle)
e come proprio concetto limite, volgendosi, in tal modo, consapevolmente
all’artificializzazione scientifica e tecnologica della vita e
della morte.
[1]
L’analisi fenomenologica
indaga i vissuti e, tra gli altri, anche i vissuti di credenza.
Nient’altro. In tal senso non rientra nei compiti di un’antropologia
fenomenologica, ad esempio, indagare se il mondo sia affollato
di spiriti, secondo il dettato di certi miti, o sia costituito
di particelle elementari, secondo la fisica quantistica.
[2]
Nella manifestazione rivelativa,
a differenza di quella fenomenica, l’apparire e l’essere coincidono
per ragioni fenomenologiche d’essenza.
[3]
Le forze del Caos vinte, ma non uccise, dalle potenze creatrici,
nella grande battaglia degli inizi dell’universo, rivelata frequentemente
dai miti cosmogonici, pur respinte ai margini del mondo, amano
tuttavia puntualmente rigurgitare attraverso tutte le soluzioni
di continuità spazio-temporali, piccole e grandi, esistenti
nelle difese del cosmo. Solo una continua vigilanza da parte
di potenze apotropaiche e gli appropriati riti di sostegno possono
difendere e sostenere l’uomo e il mondo in tutte le molteplici
necessità di transito che la conclamata discontinuità della
tessitura del mondo implica e impone.
[4]
Per l’analisi fenomenologica,
il dio che muore è quello che, rientrando nell’immortalità reale,
gode della rinascita. Il dio cui appartiene l’immortalità ideale
non può conoscere né vecchiezza e né morte.
[5]
È questo, a mio avviso, il
senso corretto di quell’intensa e puntuale solidarietà dell’intera
comunità mitico-rituale mobilitata intorno agli sventurati,
ai malati, ai morti, ai loro parenti e ai loro superstiti che
tanto colpisce l’uomo occidentale, perché la fraintende eticamente.
[6]
Cito la versione standard
di The Epic of Gilgamesh,
tr. e intr. di Andrew GEORGE, ed. Penguin Books, London, 1999,
tab. VIII 55-58, p. 65 (d’ora in avanti Epic); cfr. anche “L’epopea di Gilgamesh”,
in Miti babilonesi e assiri,
Classici della religione, collezione diretta da R. Pettazzoni,
intr., tr. e commento di G. Furlani., ed. Sansoni, Bologna,
1958, tav. VIII, col. II, 13-16, p. 211 (d’ora in avanti “Epopea”).
[7]
Epic, tab. I 48, p. 2; “Epopea”,
tav. I col. I, 2, p.
167.
Del tutto comprensibili sono,
per altro, i parti ibridi di dei e di uomini tra sacerdoti e
tra sacerdotesse che, data l’indole del loro ufficio, operano
a contatto con dee e dei e sono, di norma, sempre posseduti
in generale da questi.
[8]
Epic, tab. X 36-37, p. 87; “Epopea”, tav. X, col. VI, 33-34,
p. 226.
[9]
Epic, tab. IX 3, p. 70; “Epopea”, tav. IX 3, col. 1, p. 213.
[10]
Epic, tab. IX si i 7-8, p. 71; “Epopea ”, tav. X , col. I,
7-8, p. 218.
[11]
Epic, tab. X 61-66, p. 78; “Epopea”, tav. X , col. II,
10, p. 219.
[12]
Epic, tab. IX 76-77, p. 72; “Epopea”, tav. IX, col. III,
4, p. 214.
[13]
Epic, tab. XI 283-284, p. 98; “Epopea”, tav. XI 269-270, p. 235.
[14]
Epic, tab. XI, 305-307, p. 99; “Epopea”, tav. XI 287-289, p.
236.
[15]
Cfr. Epic, tab. VII, Y 149, p. 110, Y 187, p. 20, p. 112; “Epopea”,
tav. III,
col. IV, 14, p. 183, col. V, 7, p. 184.
[16]
Cfr. la Nota introduttiva di G. FURLANI al Poema di Gilgamesh, in “Epopea”, p. 113;
cfr., inoltre, G. FURLANI, Sul
concetto dell’eroe in Babilonia, Atti del Reale Istituto
Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Anno Accademico 1928-29,
Tomo LXXXVIII, Parte Seconda, Venezia, 1929, pp. 671 e ss.,
p. 682.
[17]
“Epopea”, tav. X, col. III,
1-5, p. 219-220.
[18]
Epic, tab. VII, 183-191, p. 61; “Epopea”, tav. VII, col. IV,
33-39, p. 208.
[19]
Epic, tab. XI, 299, p. 99; “Epopea”, tav. XI, 281, p. 235.
[20]
La rinascita, cui va associato
anche il ritorno da un viaggio agli Inferi che è da intendere
come una vera e propria morte (Odissea
XII, vv. 21-22), è, da un punto di vista fenomenologico, il
risultato di una metamorfosi. La metamorfosi, figura fondamentale
per la corretta comprensione del dinamismo del reale in culture
non occidentali, è una trasformazione in cui l’identico si coniuga
con il diverso, generando qualcosa di logicamente aberrante
per la mente occidentale dopo Parmenide. I nuovi nati, in definitiva,
sono, in quanto morti risorti sotto qualunque specie, per virtù
metamorfica, contestualmente identici e diversi. Ad eventi metamorfici
vanno attribuiti anche gli ibridi, naturali e fantastici, diffusissimi
nelle culture antiche e in quelle d’interesse etnologico, che
l’ermeneutica favolistica di maniera ha sempre penosamente incompreso.
E’ importante precisare che all’interno del realismo segnico
e del suo modello di tempo, quello della ripetizione, ci si
sottrae alla morte definitiva solo mediante la rinascita, mentre
al di fuori di esso si può conseguire ciò solo trascendendo
il tempo ed entrando nell’atemporalità.
[21]
G. FURLANI, Sul concetto dell’eroe in Babilonia,
op.cit., p. 676.
[22]
M. POHLENZ in L’uomo greco suggerisce come appropriato
il termine “signore”, in riferimento alla condizione principesca
degli eroi in vita (tr. it. di B. Proto, ed. La Nuova Italia,
Milano, 1962, pp. 118-119).
[23]
E’ notissimo il vertiginoso
virtuosismo metamorfico operato dalla bellissima dea nel vano
tentativo di sottrarsi all’amplesso di Peleo.
[24]
PINDARO, Istimiche, VIII, 45-95
(cit. da PINDARO, L’opera superstite, IV, Le Istimiche e i frammenti,
ed. SE, Milano, 1994, trad. e note di E. Mandruzzato).
[25]
Cfr., in
tal senso, Laura M. SLATKIN, The
Power of Thetis. Allusion and Interpretation in the Iliad,
University of California Press, Berkeley and Los Angeles, California,
1991.
[26]
Iliade, I, 396-406.
[27]
Inni omerici, Ad Afrodite,
V, 218- 240
[28]
Iliade,
XVIII, 433-435.
[29]
The Power of Thetis, op. cit.,
pp.101-103.
[30]
«è afflitto e io non posso,
anche andando, aiutarlo», Iliade,
XVIII, 443.
[31]
The Power of Thetis, op.cit.,
p. 45.
[32]
Istimiche, VIII, 96-102, op.cit.
[33]
Il modello ciclico del tempo,
in cui gli eventi si ripetono per automatismo, portando a coincidenza
la fine con il principio, è, in realtà, un’immagine mobile,
del tutto astratta, del principio parmenideo d’identità. L’impiego
senza cautela alcuna da parte di M. Eliade e di altri negli
studi delle culture è stato gravemente sviante, perché l’esistenza
di riti scrupolosi ed onerosi, a sostegno dei transiti cosmici,
smentisce nei fatti la credenza in qualunque automatismo.
[34]
The Power of Thetis, op. cit.,
pp. 42-43.
[35]
Iliade, I, vv. 352-354.
[36]
Odissea V, vv. 61-62.
[37]
Ibid., V, vv. 211-218.
[38]
Ibid., V, vv. 135-136.
[39]
Ibid., X, v. 236.
[40]
Ibid., V, vv. 311-312.
[41]
SOFOCLE,
Antigone, vv. 450-457.
[42]
M. HEIDEGGER,
Von Wesen der Wahrheith,
ed. V. Klostermann, Frankfurt a. M., 1967, p. 8.
[43]
Ibid., p. 10.
[44]
Ibid., p. 16. ; M.
HEIDEGGER, Einfuehrung
in die Metaphysik, ed. M.
Niemeyer, Tubinga, 1957, pp. 77 e ss..
[45]
Von Wesen, p. 17.
[46]
M. HEIDEGGER,
Vortraege und Aufsaetze,
Teil III, „Aletheia (Heraklit, Fragment 16)“, ed. G. Neske Pfullingen,
Tubinga, 1967, pp. 54-55; pp. 60-61, pp. 72-74. Cfr., del resto,
HERAKLEITOS, 123 DK ; 10 B.
[47]
P. CHANTRAINE,
Dictionnaire étymologique
de la langue grecque. Histoire des mots, ed. Klincksieck,
Parigi 1974 ; HJ. FRISK,
Griechisches etymologisches Woerterbuch,
ed. C. Winter, Heidelberg, 1991.
[48]
H. G. LIDDELL
and R. SCOTT, A Greek-English
Lexikon, ed.Claredon Press, Oxford, 1968.
[49]
G. PUGLIESE
CARRATELLI, Les lamelles
d’or orphiques. Instructions
pour le voyage d’outre-tombe des initiés grecs, ed.
Les Belles Lettres, Parigi, 2003, pp. 17-20, p. 47.
[50]
Non è da escludere che la
misteriosa, potentissima, Thea che accoglie Parmenide dopo il
suo celebre viaggio celeste sia proprio Mnemosyne
(M. TORTORELLI GHIDINI, «Aletheia nel pensiero orfico. I. “Dire
la verità” nel v. 7 della lamina di Farsalo», Filosofia
e Teologia 4 (1990), p. 73, cit. da G. PUGLIESE CARRATELLI,
op.cit., p. 69.
[51]
M. DETIENNE, I maestri di verità nella Grecia arcaica
(tr. it. di A. Fraschetti), ed. G. Laterza & Figli Spa, Bari, 1977,
pp. 1-5.
[52]
Ibid., pp. 9-11.
[53]
Ibid., pp. 15-16.
[54]
Ibid., pp. 36-38.
[55]
La memoria indelebile è il naturale precipitato
dell’eternità e non viceversa, almeno fino ad Euripide.
[56]
ESIODO,
Theogonia, vv. 27-28.
[57]
M. DETIENNE, I maestri di verità…, cit., p. 81.
[58]
Ibid., pp. 79 e ss..
[59]
HERAKLEITOS,
93 DK; 11B.
[60]
Cfr., ad es., il più tardo
De defectu oraculorum
(L’eclisse degli oracoli) di PLUTARCO.
[61]
M. HEIDEGGER,
Platons Lehre von der
Wahrheit. Mit einem Brief ueber den „Humanismus“, ed. Francke,
Berna, 1954, pp. 26-32.
[62]
Ibid., pp. 27 e ss.
[63]
Ibid., p. 41.
[64]
Ibid., p. 42.
[65]
Ibid., p. 51.
[66]
Nella presentazione il segno
indica un referente presente nel segno stesso, nella rappresentazione,
invece, il segno indica un referente assente e presente di là
dal segno.
[67]
Cfr. R. MONDOLFO, La comprensione del soggetto umano nell’antichità
classica, tr. it. di L. Bassi, ed. La Nuova Italia, Firenze,
1958. |