Domenico Antonino Conci


RINASCITE E REMINISCENZE

STRATEGIE CULTURALI DI VITA E DI MORTE

 

È opportuno, anzitutto, evidenziare che, mentre in Occidente, fin dalle origini greche della nostra cultura, si ritiene che il pensiero possa, riducendola essenzialmente a materia, trascendere la realtà in blocco e, oltrepassandola, destinarla, mediante la proiezione di adeguati costrutti mentali, ad un’inevitabile ristrutturazione d’esistenza e di senso, negli universi mitico-rituali tutto ciò non è rinvenibile in alcun modo perché simili culture ritengono – a torto o a ragione1 che  il senso dell’esistenza sia insito nel reale medesimo e che esso venga elargito contestualmente al manifestarsi degli accadimenti stessi, naturali o sociali che siano. Ma, se si ritiene che il senso del reale sia custodito ed esibito direttamente da esso, sia leggibile sulla superficie stessa del suo apparire e che, pertanto, non vada cercato, estraendolo da un arcano altrove, di là da poco affidabili manifestazioni fenomeniche, come si crede in Occidente, questa generale identità di realtà e di senso, di apparire e di essere, di linguaggio e di mondo, fonda quell’inaudito “realismo segnico”, identitario e non referenziale (non mimetico), ove il pensiero e il linguaggio, incarnando i propri referenti, si determinano inevitabilmente come intrinsecamente rivelativi2. Questa singolare identificazione, del tutto incomprensibile se interpretata impiegando le usuali categorie del pensiero occidentale che, elaborate per esse, presuppongono le manifestazioni fenomeniche – intimamente scisse in apparire ed essere – e che operano esclusivamente su queste, ha indotto erroneamente da sempre tale pensiero ad intendere l’informazione mitica riducendola preferibilmente a mero prodotto di fantasie irreali e gratuite. Il mito, in prima istanza, possiede di necessità una base rivelativa, ma non essendo sacra qualunque rivelazione, la sacralità del mito riposa, in seconda istanza, sull’esibizione potente che elargisce rivelativamente una realtà e un senso assoluti (iperrealtà del Sacro).

Diventa, allora, comprensibile perché, a differenza del pensiero filosofico e scientifico d’Occidente, il pensiero mitico-rituale non è in grado di pensare in termini astratti, simbolici o metaforici, e non può, nemmeno, negare in blocco l’esistente, vale a dire pensare il non essere. Tutto ciò presuppone, infatti, il vissuto di credenza nella divaricazione – che trovasi all’origine della nostra cultura – tra il pensiero e l’essere, tra il linguaggio e la realtà, e lo iato intercorso tra la sfera della significazione e quella della realtà, mentre consente con l’avvento di un pensiero disincarnato e vuoto, cioè puramente relazionale, la nascita di un pensiero scientifico propriamente detto che opera sui materiali d’esperienza per ipotesi e per controlli, dischiude contestualmente quell’ambiguo spazio semantico, da noi ritenuto ormai irriducibile per essenza, in cui, nell’insuperabile inadeguatezza cognitiva ed esistenziale di fondo, è possibile non solo parlare di cose che non sono così come noi le riteniamo, ma anche di cose che non esistono del tutto. Una singolarità, questa, tollerabile, di certo, in contesti estetici o retorici, ma non, certo, in quelli epistemologici. Così, la generale assenza nel pensiero mitico di una concezione cognitiva ed esistenziale di negazione dell’esistente in blocco non è dovuta, banalmente, alla rimozione di quanto di più terrifico l’uomo possa immaginare nel decorso della sua esistenza, vale a dire il pensiero dell’annichilimento personale dopo la propria morte, ma va attribuita, piuttosto, a specificità concettuali e linguistiche relate al realismo segnico che domina da cima a fondo le strutture di senso delle culture mitico-rituali. Qui il nulla è, semplicemente, impensabile. In tal senso, la morte mitico-rituale è sempre pensata nella logica e nell’economia del transito, analogamente, quindi, a tutti gli altri transiti che scandiscono, ritmandola, la nostra esistenza, quali quelli che si riferiscono alla nascita, alle classi d’età, ai matrimoni, alle iniziazioni, alle consacrazioni, ai luoghi, alle stagioni, alle migrazioni degli animali, agli astri, etc.. Tuttavia, data l’indole fratta e non continua dello spazio e del tempo mitico-rituali, ogni transito implica un vero e proprio balzo – intimamente rischioso e, quindi, ritualmente assistito3 – di là dalle fratture, delle discontinuità, che costituiscono vistosamente e concretamente ogni crisi periodica o non periodica lungo il decorso dell’esistenza umana (individuale e comunitaria) e cosmica. In tal caso, data l’impermanenza generale dell’esistenza che può comportare in qualunque momento la cessazione improvvisa della condizione di tranquillità e di benessere in atto – sempre altamente probabile, dato l’evidente strapotere dei mali nella nostra vita – la vera angoscia mitico-rituale è, piuttosto, quella di ridursi dopo la morte in una condizione miserabile di sofferenza permanente, non riscattabile in alcun modo, e non già quella, tipicamente occidentale, di svanire improvvisamente nel nulla come la nebbia sotto i raggi del sole.

         Dai grandi miti mesopotamici, sumeri, babilonesi e assiri, apprendiamo che persino i grandi dei come Inanna e il marito e re Dumuzi, morendo4, scendono o ascendono agli Inferi (il Kur) del tutto nudi, spogli di ogni abbigliamento o gioiello che, per altro, incarna in vita, concretamente, le loro stesse facoltà straordinarie che le costituiscono come figure potenti. La stessa Signora degli Inferi, la potente dea Ereshkigal, giace nuda nel buio del suo regno, cibandosi di fango e bevendo acqua sporca, preda di una sterile e insaziabile sfrenatezza sessuale. L’uomo, poi, che dopo morto non lascia superstiti che possano aver cura di lui, recandogli acqua e cibo con le rituali offerte funerarie, deve accontentarsi dei rifiuti e dei resti delle vivande di cui i defunti più fortunati hanno potuto godere negli Inferi o cibarsi, addirittura, solo della polvere e dell’acqua sporca. Il negativo dell’esistenza, insomma, appare anche nell’universo mitico dell’Al di là, sempre come qualcosa di reale e di palpabile e, proprio per questo, per quanto spaventoso esso possa essere immaginato dalla mente umana, resta, per così dire, concepito e vissuto sempre a misura d’uomo perché è, in ogni modo, qualcosa di concreto, di afferrabile, non diversamente, in definitiva, dalle cose e dagli stati di cose percepibili nel mondo dei viventi.

Invece dell’idea occidentale che la vita e la morte si neghino vicendevolmente come contrari – se non, metafisicamente, addirittura come ontologicamente contraddittori – nel pensiero mitico-rituale domina l’idea, eminentemente realistica, che la vita e la morte sono due stati esistenziali differenti che, lungi dall’escludersi, si avvicendano semplicemente nel tempo, uno dopo l’altro, persino più volte, elargendo, così, all’uomo e al mondo molteplici nascite e molteplici morti che scandiscono, ridotte a semplici fasi, il ritmo generale e continuo del reale. La morte mitica – sempre vissuta e intesa, di norma, come prodotta dallo scatenarsi delle potenze sacrali maligne o dall’ira di un dio offeso – può pure essere solo una vittoria temporanea e marginale di sacralità avverse, che può pure essere annullata, quindi, con il prevalere di intelligenze e di volontà positive sacrali, operanti spontaneamente o ritualmente all’interno di un modello di tempo in cui la reversibilità mitico-rituale degli eventi è ampiamente prevista ed è sempre concretamente effettuabile. L’uomo mitico, allora, acquisterebbe l’immortalità – un termine, questo, il cui senso va, in ogni modo, rigorosamente precisato – entrando a far parte, per coniugazione senza confusione, dei grandi eventi ricorrenti dell’esistenza, raggiungendo in cielo, ad esempio, Shamash, il dio sole sumero in viaggio nella sua barca, come aspirava ardentemente Gilgamesh, o ruotando per sempre intorno al Polo celeste come una stella, o rinascendo a primavera con la vegetazione come Osiride, o mescolandosi nell’inondazione stessa del Nilo, o, ancora, apparendo e scomparendo ogni mese nel cielo notturno insieme al dio Sin, la luna di Sumer. La morte, insomma, è solo un’altra vita, auspicabilmente serena, ma per pensare tutto ciò letteralmente e non simbolicamente – come realmente lo era - occorre impiegare una modalità fondamentale di pensiero del tutto differente, quella sempre realisticamente incarnata, che solo i sistemi culturali ancorati al mito e al rito, cioè a rivelazioni e azioni potenti, possono legittimamente concepire e attuare.

         Sottratto, in tal modo, alla lezione che colloca il mondo dei morti in un’astratta e incolore trascendenza (Al di là) rispetto al mondo dei viventi (Al di qua), ad un passo dallo svaporare nel nulla d’esistenza e di senso, la vita e la morte, assunte, in generale, dal mito come svolgentisi su un medesimo piano, restano l’una alla portata dell’altra e diventano talmente assimilabili da confluire paradossalmente all’interno di un’unica e più ampia categoria d’esistenza che la cultura occidentale non riesce più a concepire. Miticamente, poi, le ragioni della fertilità e le ragioni dei morti che sogliono abitare sotto la terra, là dove si ritiene sorga ogni esistenza in generale, tendono a confondersi intimamente e a sostenersi vicendevolmente, dato che i nuovi nati sono, di solito, intesi come dei morti risorti. Le comunicazioni, poi, tra i vivi e i morti sono, poi, relativamente agevoli e, in ogni modo, mai interrotte. Quando i defunti non vengono sepolti direttamente sotto il calpestio dei vani stessi delle abitazioni dei superstiti, com’è d’uso a partire dal Neolitico, o nei giardini circostanti le abitazioni, per cui le frequentazioni sono di fatto assicurate tramite le invocazioni d’assistenza e le offerte di bevande e di cibo rivolte agli antenati, ci sono sempre luoghi particolari, naturali o artificiali, come le acque, in generale, i bordi dei fiumi, le caverne, i bothroi infernali (ad esempio il mundus dei Romani), ritenuti eminentemente elettivi per il colloquio dei vivi con i morti. A volte, come ad esempio fa Odisseo, basta solo scavare una fossa per raggiungerli o, in definitiva, nemmeno questa, perché saranno i defunti stessi a farci visita quando restiamo, inerti, in balia di sonni popolati di sogni.

In luogo dell’indeterminata e smarrente angoscia del nulla, ben nota all’uomo occidentale secolarizzato, il vissuto della morte mitico-rituale, quindi, è segnato dall’usuale, sebbene ingigantitasi, paura che il transito della morte possa trascinare l’uomo a vivere in luoghi di sofferenza e di disperazione e lasciarlo ivi abbandonato nel grembo di una condizione esistenziale di irriscattabile, permanente, infelicità, perché in balìa, inerme, di forze sacrali maligne. I lunghi e onerosi riti di morte, ad esempio, sono fondamentalmente finalizzati ad allontanare le potenze del male – di cui l’estinzione del vivente, uomo, animale o vegetale, è, già, una delle molteplici temute epifanie – che, secondo precisi dettati mitici, una volta manifestatesi concretamente con la maschera della morte, potrebbero prendere il sopravvento, coinvolgendo non solo il cadavere e poi il defunto definitivo, ma anche, per ulteriore contagio pandemico, i familiari, gli amici e, infine, l’intera comunità, seminando ancora malattie e morti tra tutti gli esseri viventi e ostacolando le rinascite a tempo dèbito dei trapassati5. Noti paradigmi mitici, diffusi ecumenicamente, relati principalmente alle vicende astrali, in particolare a quelli del Sole e della Luna, ai solstizi, alle eclissi e alle alternanze stagionali, rivelano lotte furibonde e selvagge, primordiali e ricorrenti perché reversibili, contro mostri divini da parte di un Re o di un Eroe divinizzati o di una potenza creatrice contro il Caos delle origini (Apollo e Python, il Dio della tempesta e Illuyanka, Zeus e Typhon, Osiride e Seth, Marduk e Tiamat, Indra e Vritra, Thor e Midgar, etc.), tutte sacralità negative e maligne battute, ma non uccise mai definitivamente, e solo respinte via, di là dagli estremi confini di quel cosmo divino e umano nato proprio con la loro sconfitta, ove giacciono, ostinatamente occhiute, pronte a rigurgitare fuori, filtrando dalle fratture di spazi e di tempi pensati sempre dal mito come singolarmente discontinui. Così l’esistenza dell’uomo e del mondo è percorsa da un’arcana tensione cosmica, originaria, “fossile”, che rende instabile ed effimero ogni stato di cose e che impone una continua vigilanza e una strenua difesa per poter sopravvivere, in particolare in tutti gli inevitabili transiti critici dell’esistenza, sempre pericolosi, impiegando riti adorcistici o esorcistici di sostegno e di contrasto, grandi e piccoli, che riattivano, ora come allora, scrupolosamente, le gesta salvifiche di energie e di figure potenti rivelate nei miti originari, nella ferma convinzione che i mali più nefasti e persino la morte stessa non sono mai eventi intrinsecamente irreversibili. I riti salvifici, insomma, si devono necessariamente ripetere perché si reiterano, ora come allora, con ostinazione, gli attacchi delle figure potenti maligne e solo il Sacro, proprio perché potente, può elargire all’uomo e al mondo l’essenziale del vivere umano e cosmico, cioè quell’esistenza e quel senso di cui essi – perché impotenti – sono privi, non essendone titolari e gestori diretti.

«Ora, che sonno è mai questo che ti possiede? Hai perso conoscenza e non mi ascolti. Egli gli tocca il cuore, ma esso non batte più».6 Dalle profondità delle steppe mesopotamiche, forse tra la fine del Terzo Millennio e gli inizi del Secondo, ci giunge il canto doloroso e terrorizzato di Gilgamesh, uno dei re sudbabilonesi di Uruk, quando un mattino, all’improvviso, scopre con stupefazione, il volto della morte – intesa come punizione di divinità irate – disteso sul viso dell’eroe senza pari, Enkidu, amante e compagno di festini spensierati e di lotte immani contro mostruosi esseri divini. Non diversamente da Achille, anche Gilgamesh è carne divina, perché è figlio di una dea, Ninsun, che gli ha elargito 2/3 d’immortalità, accanto ad 1/3 di mortalità ereditato dal padre, un semplice sacerdote di Kullab7. Tuttavia, indipendentemente dalle leggi bronzee della genetica mitica, il re di Uruk avrebbe pur dovuto conoscerla la morte, perché il sonno dei viventi, “rampollo umano”, è per i Mesopotamici il segno inequivocabile della loro mortalità: «il dormiente e il morto sono eguali; non riproducono essi l’immagine della morte?»8 E così Gilgamesh, che non vuol fare la fine di Enkidu9, atterrito all’idea di poter mutare la sua splendida condizione regale in un’altra oscura, fatta di umiliazioni e di privazioni, si trascina, vagando senza posa, fino agli estremi confini del mondo (isole del Golfo Persico?), di là dalle porte del Sole, rigorosamente vietate ai mortali, incurante dei pietosi consigli dello stesso dio dell’astro diurno, Shamash, che, premurosamente, gli si fa incontro, scongiurandolo di far ritorno a casa e in se stesso perché quella vita che va cercando non la potrà trovare mai10.

         Non pago del regalo del dio Enlil di Nippur, il temuto Signore del vento e della terra, membro della grande Triade divina, che gli ha concesso di possedere e di reggere un regno potente, Gilgamesh aspira a ben altro ed «erra di qua e di là come un ladrone in mezzo alla campagna»11 alla ricerca di quell’isola nel paese orientale di Dilmun (?), di là dall’Oceano della Morte, là dove sorge il sole, ove soggiorna, beato con la moglie, l’eroe sumero scampato al Diluvio, Utnapishtim “il lontano”, unico degli umani che «è entrato nell’assemblea degli dei ed ha ottenuto la vita eterna (found life eternal)», onde strappargli, una volta raggiuntolo, il segreto della vita e della morte.12 La moglie di Utnapishtim, impietositasi, diversamente dal marito, di fronte all’incontenibile disperazione di Gilgamesh, gli svela il segreto della potenza magica di una pianta, «simile al biancospino, la cui spina come una rosa ti punge la mano»13, che, una volta assunta, trasforma il vecchio in giovane. Ma accade che un serpente fiuta la fragranza della pianta e, emergendo in silenzio dall’acqua, ove giaceva immerso, se ne impossessa, rubandola al re di Uruk che l’aveva faticosamente scoperta e raccolta. Dopo averla trangugiata, il rettile getta via le squame della sua vecchia pelle – cioè rinasce - sotto gli occhi desolati di Gilgamesh, a conferma che il vegetale colto era, in effetti, la pianta dell’eterna giovinezza14.

         Apparentemente, Gilgamesh aspira, certo, come Achille, ad un nome famoso15, ma tutto questo non deve indurre a concludere, frettolosamente, che «l’ideale eroico degli antichi Mesopotamici, sumeri e babilonesi e assiri (fosse) nient’affatto dissimile da quello posteriore dei Greci».16 Si cercherebbero invano nella vita di Achille sentimenti, quasi infantili, come l’acuto sgomento di Gilgamesh di fronte alla morte e lo smarrirsi del re di Uruk nella steppa, lontano dagli affari del regno, travolto nella foga di una caccia inesausta alla pianta dell’eterna giovinezza, del tutto sordo ai duri detti della dea Siduru che gestisce un’osteria proprio ai confini del mondo: «Gilgamesh, dove corri? La vita che cerchi non troverai. Quando gli dei hanno creato l’umanità, la morte hanno stabilito all’umanità, la vita hanno tenuto nelle loro mani».17 Domina, piuttosto, su tutto, l’indicibile orrore di una vita futura «nella casa della tenebra, la dimora di Irkalla, nella casa dalla quale chi entra non esce, sulla strada dalla quale l’andata non ha ritorno, nella casa, gli abitanti della quale sono privi di luce, dove polvere è il loro nutrimento, il loro cibo è l’argilla; sono vestiti, come gli uccelli, di un vestito di ali, e luce non vedono, in oscurità siedono, sopra i battenti e i chiavistelli è distesa la polvere».18 Del resto, se Gilgamesh, comunque, cerca disperatamente un’immortalità che è da intendere correttamente solo nella logica e nell’economia della rinascita, come si evince, del resto, sia dal significativo nome della pianta, “il vecchio diventa giovane”,19 come dall’indole della metamorfosi subìta dal serpente che d’allora perderà stagionalmente la propria pelle20, e non già come la condizione del tutto trascendente di chi, sottraendosi al tempo irreversibile di un divenire insensato e cieco, secondo un modello di tempo egemone in Occidente, accede all’eternità aspaziale e atemporale, tale comportamento, dicevo, rivela, allora, che la fama delle grandi imprese compiute non può essere intesa da Gilgamesh in alcun modo, a differenza di Achille, come una possibile sostituta reale dell’immortalità. Non si tratta, evidentemente, di semplici differenze temperamentali, ma di esiti concettuali e comportamentali di irriducibili alterità culturali che hanno allestito, ciascuna per proprio conto, per intendere la vita e la morte, contesti di senso reciprocamente alieni, comprensibili analiticamente solo per via contrastiva. Mi rendo, certo, conto delle difficoltà di rendere termini quali zikaru, rabu, iblu,21 ur-sag, senza impiegare l’attraente, quanto deviante, vocabolo “eroe”22 – elargito dai traduttori, per altro, indifferentemente, non solo a mortali o a semidei, ma anche a dei, a demoni e dagli etnologi persino alle figure potenti civilizzatrici delle etnie - che rimanda a contenuti e a strutture di senso spaziali, temporali e logiche del tutto estranei, a mio avviso, a quelli che fanno da sfondo ai pensieri e alle azioni di figure mitiche, divenute familiari anche in Occidente, come Gilgamesh, Utnapishtim, Enkidu, Etana, Adapa, etc., per quanto non meno mirabolanti di quelle degli eroi greci siano le imprese di costoro e impossibili, certo, da dimenticare.

         In effetti, l’ideologia della fama gloriosa, quella creatrice d’immortalità presso i superstiti, nasce e s’impone solo in terra greca, per conquistare, poi, l’intero Occidente, e questa, di fatto, ha sostituito la dottrina antichissima della rinascita, incrinatasi, certamente, a partire dall’Età del Ferro con l’obsolescenza, in situ, dei ruoli e delle funzioni dell’ultramillenaria Grande Dea Mediterranea, la Signora della vita e della morte, l’Artefice delle metamorfosi più mirabolanti, benigne e sinistre, originariamente utero e tomba di ogni esistente cui assicurava la resurrezione. Le sue “schegge impazzite”, sotto le spoglie di piccole, malefiche, potnie, divenute poco comprensibili ai Greci, sono rimaste come disperse a punteggiare con la loro presenza alcune minuscole isole del Mediterraneo ai confini del mondo per insidiare, ad esempio, gli approdi di gente smarritasi come l’Eroe di Itaca. Tale non voluta surrogazione, perché necessitata da un’imponente crisi antropologica di credibilità, che, sia pure inizialmente in aree molto circoscritte del Mediterraneo Antico Orientale, colpiva non già la fede in determinati sistemi mitico-rituali, ma l’affidabilità generale del principio rivelativo stesso, mettendo, in tal modo, in questione le fondamenta stesse del mito e del rito, si sarebbe orientata, incamminandosi lungo strade talmente diverse da quelle tradizionali, da condurre l’Occidente verso quella condizione cognitiva ed esistenziale che si sarebbe chiamata, più tardi, secolarizzazione. I miti e i riti eroici, greci e romani, intendono sempre più la morte eroica non come un transito, per quanto complesso e difficile, svolgentesi tra piani omogenei e sostanzialmente commensurabili, analogamente a quanto suole accadere da un luogo all’altro della nostra terra, ma come un vero e proprio movimento di trascendimento del mondo di quaggiù, intimamente riscattante della vita e della morte insieme, dischiudente un tipo d’esistenza assolutamente altro, il cui statuto ontologico non è di facile comprensione, sebbene la speculazione metafisica, com’è noto, avrebbe offerto un poderoso supporto concettuale immaginando e disegnando una singolare modalità d’esistenza puramente noetica, propria di un pensiero del tutto disincarnato che può pensare enti reali privi di hyle (materia), cioè puramente intelligibili, fuori del tempo e dello spazio del divenire e, quindi, eterni.

         Si narra, dunque, che Methis e Theti – evidentemente ancora detentrici, diversamente da ogni altra dea olimpica, di qualcosa della suprema potenza primigenia della Grande Madre, titolare esclusiva della vita e della morte, sarebbero state destinate, stando ad una sinistra profezia di Themis o di Prometeo, se avessero sposato Zeus o un altro Olimpio, come Posidone (nel caso di Theti), a mettere al mondo un figlio equipaggiato con armi molto più devastanti di quelle del padre (del fulmine o del tridente) che avrebbero distrutto l’impero cosmico di Zeus. Zeus, allora, atterrito, inghiotte Methis, incinta d’Athena, per generare da solo, espellendola dal proprio cervello con l’aiuto di Efesto, la potente dea civetta, privando, in tal modo, la madre di un potenziale generativo oltremodo sinistro, e darà sposa, con l’allarmato consenso di tutti gli altri dei, la recalcitrante Theti23, ad un uomo, al pio Peleo, che darà alla luce, com’è noto, il mortale Achille24. L’Iliade, che è il poema epico di Achille, il canto del più grande eroe greco, ci presenta esemplarmente con la contraddittoria figura di Theti – potentissima e debolissima ad un tempo25 - il transito culturale delle etnie greche, all’alba dell’Occidente, dai culti vicino-orientali di rinascita ai culti dell’immortalità eroica nella fase finale della parabola descritta dalla dea stessa che, in tempi e spazi lontani, era stata addirittura risolutiva, come titolare delle inaudite prerogative della Grande Potnia mediterranea, negli eventi narrati dai grandi miti teogonici di successione al trono dell’universo, sventando, insieme a Briareo, un temibile golpe ordito da Athena, Hera e Posidone ai danni di Zeus26. Come Demetra, che aveva cercato inutilmente di rendere immortale il piccolo Demofonte, temprandolo nel fuoco, o come la stessa Medea, la nipote del Sole sempre rinascente, con il suo calderone magico della giovinezza, anche Theti, Signora della metamorfosi, aveva tentato, invano, di trattare con il fuoco o con l’acqua dello Stige i propri figli per renderli invulnerabili, attardandosi, per così dire, inutilmente, in credenze e in comportamenti che “la sapienza dei Gentili” non era più in grado di capire e che, quindi, bollandoli come folli, duramente osteggiava. In Omero «la splendida Theti» è, ormai, solo una sposa e una madre infelice che, dopo «aver subìto il letto di un uomo», non diversamente da Eos, l’Aurora, che aveva sbadatamente chiesto a Zeus l’immortalità per l’amatissimo marito Tithonos, ma non l’eterna giovinezza27, ha dovuto abbandonare Peleo che «ora di trista vecchiaia nella casa egli è preda»28, rimanendo sola e indifesa accanto ad un figlio, fortissimo guerriero, che paga con la morte il prezzo dell’egemonia del potere di Zeus.29 Nient’altro che un’inerme30 e tremebonda madre, dunque, dolente per le ingiuste sofferenze di cui soffre il fortissimo figlio a causa dei soprusi di uomini di gran lunga a lui inferiori e sempre costretta a mendicare presso Zeus e gli altri Olimpi tutto ciò di cui il figlio ha bisogno – persino delle armi perdute con la caduta di Patroclo31 – solo per poter sigillare con una morte violenta e prematura sul campo di battaglia una condotta eroica impareggiabile. «E morto il canto non l’abbandonò. Presso la pira, presso la sua fossa, stettero le fanciulle d’Elicona e gli offrirono uno splendido lamento. A chi non sa la morte dunque piacque che un forte ormai scomparso fosse affidato a un canto non umano».32

         È qui rilevante l’emergere faticoso, dalle pieghe di questi mutili relitti di miti e di riti millenari del Mediterraneo non più creduti e divenuti quasi incomprensibili, di una struttura di senso, articolata nella polarizzazione tra un divenire irreversibile della consumazione e della morte ed un’immobile atemporalità (eternità), in cui traluce, appena riconoscibile, qualcosa a noi divenuto familiare, il modello di tempo egemone d’Occidente, quello che la filosofia e la scienza, complessificandolo, successivamente svilupperanno e articoleranno. Theti, sebbene irata e dolente, non può implorare Zeus affinché conceda al figlio quell’immortalità reale relata ai miti e ai riti della rinascita, strappandolo alla morte definitiva, che condurrebbe, stando alla profezia, all’estinzione dell’impero olimpico del cosmo e alla sottrazione di Achille all’eroicità, cioè a quell’immortalità ideale, unica ad essere ormai possibile e comprensibile alla luce del nuovo logos greco. L’immortalità reale, infatti, è attingibile solo mediante la rinascita che presuppone un modello di tempo in cui gli eventi si possono ripetere, sebbene non in senso ciclico33, mentre l’immortalità ideale, di chiara matrice ellenica, si basa sull’atemporalità, cioè su una condizione d’esistenza che, in ogni modo intesa, è pensata come sottratta del tutto al fluire del tempo. Theti, insomma, può chiedere e, di fatto, chiede a Zeus, per il figlio, solo due grazie minime ed estreme, in altre parole la tutela del di lui onore, offeso da Agamennone, e le armi, fattori necessari per attingere quella gloria eterna che, ormai, si è sostituita, surrogandola integralmente, all’impossibile immortalità reale andata smarrita con l’eclisse del realismo segnico. L’eroe è un essere propriamente umano e vive nel tempo di una finitezza esistenziale che, con il tramonto della credenza tradizionale nella rinascita mitico-rituale, può essere riscattata solo con un movimento d’oltrepassamento deciso – un vero e proprio trascendimento – verso un’eternità intesa come uno stato d’esistenza atemporale di là dalla vita e della morte.34 «Madre, poi che mi hai generato per una breve vita, l’Olimpio Zeus che tuona dall’alto mi dovrebbe dare almeno la gloria (timé)».35 Si narra, del resto, che sia stata la stessa Theti a strappare Achille dal fuoco della pira, per trasportarlo, sottraendolo al tempo della consumazione e della morte, nel mondo degli Eroi, presso quell’isola Bianca che trovasi negli Elisi. E si narra, anche, che Calipso, «colei che si nasconde», la ninfa «dai riccioli belli», che come Circe, una delle grandi figlie del Sole, ama cantare armoniosamente tessendo con la spola d’oro tele grandi e immortali che, in realtà, sono trame d’eventi cosmici e musiche di sfere astrali36, possibili solo a chi domina la vita e la morte dell’intero universo, abbia invitato Odisseo a rimanere stretto a lei da legami d’amore nell’isola lontana, all’estremo Occidente, promettendogli, oltre al possesso del suo splendido corpo divino, con il quale, ovviamente, nessuna donna mortale può gareggiare37, di farlo immortale e senza vecchiezza per sempre38. Lo sconcertante e apparentemente insensato rifiuto di Odisseo testimonia l’eclisse totale di senso dei miti e dei riti di rinascita, di cui certe testimonianze molto remote recavano ai Greci delle poleis notizie ormai stravolte, attribuendole con terrore a conoscenze e ad operazioni enigmatiche di dee, Signore della metamorfosi, tanto abili quanto inaffidabili, sfigurate come maghe pharmakìdes, nel mescolare solo “farmaci tristi”39 e attesta, anzi, l’orrore dell’Eroe per la vera morte ellenica, quella di vivere “nascosto” per sempre e, quindi, irrimediabilmente dimenticato, perché privato, senza il suo ritorno ad Itaca, dell’unica e reale immortalità che solo la gloria (kléos) e gli onori dei morti da parte degli Achei raccolti intorno alla tomba gli possono ormai elargire40. Una norma non scritta, questa, che, come ricorda l’inflessibile e sovrumana Antigone, né Zeus, né Dike che abita con gli dei inferi, hanno mai sancito, perché è immutabile ed eterna e «non v’è alcuno che sappia quando si è rivelata».41

         Il trascendimento, ora, della vita e della morte, l’oltrepassamento riscattante del divenire terrifico, è possibile e comprensibile solo se esiste ed è attingibile come tale uno stato puramente noetico di là dallo spazio e del tempo, privo di hyle, puramente intelligibile. È questo il principio di tutti i principi della metafisica greca ed occidentale, senza il quale sarebbe privo di senso e di portata ontologica il gesto di trascendere il sensibile verso l’intelligibile con la convinzione di poter attingere, in tal modo, ontologicamente ed epistemologicamente, salvezze eterne e conoscenze vere. L’irreversibilità di un divenire insensato si riscatta con l’invenzione di un noetòn che la credenza metafisica ritiene possa e debba corrispondere a qualcosa d’esistente sottratto alle indeterminatezze del sensibile e alle impermanenze di questo. Non si muore e non si rinasce più, ma si nasce e si muore una volta per tutte, definitivamente, ma, sotto particolari condizioni (condizione eroica o iniziatica), si può trascendere il precario aisthetòn, cioè la vita e la morte stesse, attingendo un’esistenza sovratemporale, permanente ed eterna, puramente noetica. Di codesta stoffa, ormai, sono fatti, secondo la credenza metafisica, gli dei, le anime e le idee, sebbene la religiosità popolare e il pensiero cosiddetto comune, che vanno diversificati dal pensiero colto, egemone nelle poleis, si distaccheranno sempre con riluttanza dalle credenze ereditate dalle tradizioni demo-etniche.

         In testi e in luoghi divenuti celebri, M. Heidegger ha interpretato, com’è noto, l’essenza della verità originaria d’Occidente (alétheia) – senza, tuttavia, domandarsi se tale modalità strutturale fosse consentanea o no allo spirito dell’Occidente rivelatosi poi lungo la sua storia – non già come fondata sulla soggettività dell’essenza umana, per cui «gli oggetti si conformano alla norma della nostra conoscenza»42, quindi non sulla Uebereinstimmung (concordanza) di una proposizione con la cosa43 o sul consenso dei giudizi, ma come Entborgenheit, Entbergung, Unverborgenheit, in altre parole come “non nascondimento”.44 Indipendentemente, ora, dalla discutibile tesi heideggeriana che l’essenza della verità sia la libertà, da cui, per altro, l’uomo, lungi dal possederla come facoltà propria, sarebbe posseduto45, qui Heidegger sembra avvertire, comunque, il sentore di quell’antichissima matrice essenzialmente rivelativa del vissuto della verità (Offenbarkeit) che dovrebbe essere inteso, fenomenologicamente, come stato di coincidenza biunivoca di apparire ed essere, senza resti, come connotato di tutto ciò che, da sempre, non si nasconde e che non può nascondersi per ragioni di principio e al quale l’uomo fiduciosamente si abbandona. Se, dunque, la lethe è da intendere fondamentalmente come Verberung e l’alétheia come Unverborgenheit, al punto che l’illuminazione e il non nascondimento sarebbero la medesima cosa, allora i Greci avrebbero esperito e inteso, come ritiene conclusivamente Heidegger, anche la dimenticanza (Vergessenheit), cioè propriamente la lethe, come una sorta di nascondimento46. Tuttavia sembra, senza entrare, qui, in dettagli filologici, che nel sistema greco le forme più arcaiche sono lètho, èlathon, frequenti in Omero come «menzogna opposta a verità», per cui lanthàno (sto nascosto, rimango occulto, inosservato, tengo una cosa nascosta), da intendere come rifacimento secondo manthàno, sarebbe palesemente tardivo47, come tarda anch’essa sarebbe la nota contrapposizione filosofica e comune tra «verità o realtà ed apparenza»48. Del resto, due imponenti figure divine, esemplarmente contrapposte, Lethe (Oblìo) e Mnemosyne (Memoria), assistono dall’alto l’attività intellettuale ellenica, la cui risorsa principale è costituita, appunto, dai contenuti rivelativi della Mneme che vince l’oblio, ed esse sembrano dominare a lungo, influenzando gli Orfici49, i Pitagorici, Parmenide50, Socrate e Platone per il quale, com’è noto, la ricerca e il sapere sono ancora e sempre anamnesis, cioè mera reminiscenza.

         È, del resto, probabile che proprio dalla tradizione orale dei cosiddetti “secoli bui” del Medioevo Ellenico (dal XII al IX secolo) ci giungono i canti celebrativi delle gesta degli Immortali e degli Eroi, da parte di aedi ispirati da figure potenti come Mneme e da Mnemosyne, specializzate nel ricordo del passato, nel discernimento del presente e nella previsione del futuro, che amano rivelarsi anche agli indovini e ai re di giustizia51. La gloria o il biasimo, dunque, appaiono elargiti, anzitutto, dal dio, e il ruolo dell’aedo, come servitore delle Muse, è quello di decidere, posseduto dal dio, il valore del guerriero, elargendogli rispettivamente, con il suo canto, memoria od oblio indelebili.52 Trattandosi, in definitiva, di un dono di veggenza53 che consentirebbe ad un mortale la padronanza assoluta del passato, del presente e del futuro, l’uomo, in evidente postura rivelativa, resterebbe agito da figure potenti cui si abbandonerebbe, sotto dettatura, del tutto fiducioso. Non ci sarebbe, allora, in tali condizioni coscienziali, aletheia o lethe, senza la volontà e l’intervento delle Muse e della Memoria54 che fanno vivere o fanno morire per l’eternità, con la lode o col biasimo, gli Immortali e gli Eroi. L’immortalità ideale non dovrebbe essere intesa, quindi, come la mera conseguenza, per così dire “mediatica”, della fama delle grandi imprese degli eroi, ottenuta presso i superstiti e, quindi, dipendente dai loro giudizi, ma, al contrario, è la fama ad essere, piuttosto, l’esito necessario dell’avvenuto ingresso del defunto, mutato in noetòn, nell’eternità55. È, in definitiva, nient’altro che la rivelazione vera e propria di una simile apoteosi, voluta dalle Muse. La stele, i giochi funebri e il canto dell’aedo non sono essi a generare, da soli, l’immortalità ideale dell’eroe. Non è la memoria, gelosamente conservata, ad assicurare l’immortalità delle gesta compiute dall’eroe, ma, al contrario, è l’intrinseca grandezza dell’azione compiuta a trascinare l’eroe a trascendere necessariamente la condizione umana, consegnando il defunto tra i noetà degli Elisi, fuori dello spazio e del tempo abitati da coloro che muoiono, e a vivere per sempre nell’eternità. È, proprio, questa traslazione fuori del tempo irreversibile del divenire, rivelata dalle Muse e dalla Memoria, a generare necessariamente “la non dimenticanza” del defunto e delle sue gesta e, quindi, la loro indefettibile memoria che è poi il vissuto greco dell’eternità, il modo originario in cui gli Elleni ormai intendono e vivono l’eterno, ontologicamente, come verità, in altre parole come “non dimenticanza”.

         L’evento eroico, potente, trasferisce, dunque, il defunto di là dallo spazio e del tempo, mutandolo in un noetòn che può ormai esistere solo abitando accanto agli dei immortali nell’eterno, e una simile apoteosi si riverbera, per volontà delle Muse, nel mondo di quaggiù, rivelandosi e imponendosi nel complesso cultuale della stele, dei giochi funebri, del canto dell’aedo, cioè nel vissuto irresistibile di un insopprimibile ricordo da parte di superstiti raccolti intorno alla tomba o al cenotafio dell’eroe. Gli antichi Greci hanno generato e trasmesso all’intero Occidente un particolare senso cognitivo ed esistenziale che ancor oggi conserviamo, nonostante l’avvicendarsi di gravi crisi culturali, che come invariante – un motivo ostinatamente prediletto dai Greci che osteggiano il perpetuum mobile – unificante e fondante ogni esperienza di quaggiù, sottraendola a quella generale impermanenza e a quel caos dell’esistente che significa “oblìo”, si scopre radicata profondamente proprio in quel remoto culto degli eroi, nato e impostosi per legittimare il governo dei ghene aristocratici nelle antiche poleis greche, agli albori della nostra avventura sul pianeta come figura cognitiva ed esistenziale del “non oblio”. Una non dimenticanza, questa, che, proprio perché attiene ad un contenuto situato di là da ciò che, come fenomeno, ambiguamente appare e rapidamente dilegua, vive in quel mondo dell’aei estìn che è proprio di ciò che non si può dimenticare perché abita, a differenza dei mortali che vivono nello spazio e nel tempo dell’impermanenza e, quindi, dell’inevitabile dimenticanza, nei luoghi dell’eternità, configurandosi come invariante e, quindi, come intrinsecamente indimenticabile. E non è, certo, difficile scorgere qui, nel confuso crogiolo di questi vissuti collettivi delle origini, alcuni tratti salienti di quei celebri sèmata che guideranno, più tardi, in terra d’Elea, il filosofo Parmenide lungo l’ardua ascesa nei cieli della metafisica per dischiudere avventurosamente all’intero Occidente l’esistenza di un Essere inaudito. Ma quando le Muse rivelano ad un pastore della Beozia, che, per altro, firma, come già fanno anche i grandi vasai, la propria opera, di saper «dire molte menzogne simili al vero», «sebbene sanno quando vogliono annunziare la verità (alethéa gherusasthai56 o quando Simonide di Ceo «pratica la poesia come un mestiere, definisce l’arte poetica come un’opera d’illusione (apate), fa della memoria una tecnica laicizzata»57 e rifiuta l’alétheia come rivelazione poetica, preferendole l’ambigua doxa,58 o quando «il Signore, il cui oracolo è a Delfi, non rivela e non nasconde, ma accenna (semàinei59 o, ancora, quando, insomma, gli oracoli enunciano responsi irrimediabilmente ambigui, che ne è allora del valore di verità della rivelazione stessa?60

         Se ritengo, in ogni modo, poco significativa la discussione sull’interpretazione del termine greco alétheia come “non oblìo” o come “non nascondimento”, perché entrambe tali espressioni negano, in definitiva, un’assenza che nel primo caso pertiene al mondo dell’interiorità, mentre nel secondo si riferisce al mondo dell’esteriorità, tuttavia il gesto epocale greco di formulare stranamente la verità per via negativa, impiegando l’alfa privativo, è un indiscutibile sintomo dell’esistenza di un misterioso sfondo originario da cui l’impulso veritativo, muovendosi problematicamente e come “a fatica”, sembra emergere, vincendo, quando vince, una cieca resistenza iniziale. Perché mai, insomma, la physis amerebbe nascondersi? Questa singolare condizione di partenza, francamente enigmatica e gratuita, storicamente ed antropologicamente subìta, appare a tal punto non casuale, da determinare, addirittura per ragioni d’essenza, la forma e la semantica del termine stesso. E tale stato di cose, per altro indiscutibile, sigla già, fin dalle origini, a mio avviso, la profonda estraneità genetica e strutturale del concetto ellenico e poi occidentale di verità, rispetto a quello, apparentemente analogico, vigente nell’universo rivelativo. Lo stesso Heidegger in Platons Lehre von der Wahrheit sembra spingerci inesorabilmente lungo un cammino teoretico che andrebbe percorso fino in fondo.

         Se, infatti, la verità significa già, originariamente, ciò che è strappato ad un nascondimento che, con i suoi diversi modi di essere (chiusura, custodia, copertura, occultamento, dissimulazione, contraffazione, etc.)61, in tal modo, s’impone come primario e pregiudiziale, se poi Platone afferma che l’avvicinamento alla verità sia necessariamente progressivo62 e riconduce l’alétheia sotto il giogo dell’idea a tal punto che d’ora in poi l’essenza della verità non si sviluppa come l’essenza del non nascondimento dalla propria pienezza essenziale, ma si disloca sull’essenza dell’idea63 e la verità si tramuta, allora, in orthòtes, cioè nella giustezza del percepire e del dire e nella conformità dello sguardo all’idea, connotando, in tal modo, il rapporto umano con l’esistente orientato alla concordanza (omòiosis) del conoscere con la cosa64, e se, ancora, ogni tentativo di fondare l’essenza della verità nella ragione, nello spirito, nel pensiero, nel logos o in qualunque specie di soggettività, fallisce65, allora si deve concludere che lo strutturarsi ellenico della verità intesa come non oblìo o come non nascondimento non è e non può essere pienamente d’indole rivelativa. L’analisi fenomenologica, infatti, coglie agevolmente nell’insorgere improvviso di ambiguità e di deficienze all’interno dell’impianto manifestativo di supporto alle informazioni del mondo e ai valori tradizionali sacri e profani di una cultura, intesi e vissuti, quindi, come poco affidabili senza il soccorso di sostegni e di integrazioni di sorta, il cruciale evento della crisi in atto dei vissuti della rivelazione e il loro tramutarsi in vissuti fenomenici. L’avvento non voluto di un pensiero critico e del sospetto, maturato alla fine del Medioevo Ellenico, come testimoniano ampiamente i dati storici, archeologici e antropologici, perché necessitato da una realtà ambientale e sociale, divenuta per i singoli e per le comunità poco affidabile, scopre, con il primo incrinarsi del sistema mitico-rituale, l’inedita figura di una coscienza egocentrata, cioè segnata da una centralità referenziale di pensiero e d’azione – nel bene o nel male - rispetto ad ogni ente circostante e gettato in balìa di un divenire insensato e terrifico dal quale solo l’immagine teologica e filosofica di esistenze eterne, di là da tutte le impermanenze d’esistenza e di tutte le indeterminazioni di senso, cioè di noetà disincarnati, può riscattare la misera condizione degli esseri umani, coniugandosi esistenzialmente e cognitivamente con questi.

         L’oblìo o il nascondimento sono generati, in definitiva, da quel divenire che, inteso come ghénesis e come phthorà, è insito nella manifestazione fenomenica stessa, intrinsecamente instabile nel tempo e nello spazio perché radicalmente scissa in un apparire e in un essere. Così, l’oblìo è il dileguarsi inevitabile di ogni cosa che nell’impossibilità di trattenersi e, quindi, di durare, viene a perdersi, mentre il nascondimento è il necessario trascorrere di ogni cosa che per essere visto integralmente non può arrestarsi in alcuna posizione spaziale privilegiata e deve traversarle tutte, adombrandosi indefinitamente. In queste condizioni, la verità, allora, come alétheia, potrebbe essere accessibile solo rimuovendo totalmente queste formidabili limitazioni interne, insorte proprio con la fenomenizzazione della manifestazione, attingendo, così, degli invarianti che, per essere tali, dovrebbero collocarsi di là da ogni divenire, di là da ogni impermanenza, come potrebbero essere solo dei noetà puri perché esistenze intelligibili viventi nell’immobile eternità di un’esistenza trascendente priva di tempo. Il dogma greco della riscattabilità del divenire, ottenibile non attingendo la salvezza in esso, ma solo e sempre dall’esterno, cioè muovendo dall’assolutamente altro del noetòn, trascendente la vita mortale, è l’inevitabile conseguenza dell’eclisse dei miti e dei riti di rinascita, ove la vita e la morte erano pensate e gestite per via immanente, cioè dall’interno della realtà stessa e dei suoi intrinseci sensi, così come questi si manifestavano, non già trascendendoli radicalmente. I comuni mortali muoiono, dimenticano e sono dimenticati, se essi restano, inermi, preda del divenire. Solo il noetòn sottrae l’uomo alla dimenticanza, perché ciò che vive nell’eterno è indimenticabile, in quanto è sottratto al tempo dell’irreversibilità degli eventi, che non può trattenere alcunchè perché in esso dominano la consumazione e la morte senza ritorno, quindi la dimenticanza. Solo ciò che necessariamente è e necessariamente non tramonta può, allora, riscattare la vita e la sua intima contingenza perché oltrepassa entrambe in blocco, cognitivamente ed esistenzialmente, e il non oblìo, quindi, altro non sarebbe se non ciò che è trattenuto nel suo irreversibile trascorrere e, quindi, permane e dura indefinitamente.

         I sogni ontologici, allora, della metafisica occidentale coincidono epistemologicamente con quelli di una verità assoluta, ritenuta raggiungibile secondo il razionalismo greco, nonostante un contesto informativo irrimediabilmente fenomenico, in un numero finito di passi. L’analisi fenomenologica, del resto, chiarifica che l’impiego delle categorie e dei metodi inventati dal logos greco per sopperire alle gravi e sconcertanti mancanze della manifestazione fenomenica presuppongono, quanto al loro statuto di senso e di funzionamento, proprio quella dilacerazione di apparire ed essere costituente il fenomeno e che essi non possono annullare, reinstallando l’uomo nel vissuto della verità mitico-rituale che gode dell’assoluta adeguatezza di principio assicurata dalla ferma credenza nel realismo segnico della manifestazione rivelativa. È lecito, addirittura, domandarsi – anche per evitare possibili incomprensioni - se sia, infine, corretto o non impiegare indifferentemente il termine verità in entrambi i casi in questione, sia per la manifestazione fenomenica che per quella rivelativa. In questo secondo caso, comunque, a differenza del precedente, le lacune e i contrasti, interessanti il contenuto e il senso della manifestazione rivelativa, sono affrontati e risolti non ricorrendo a supporti estranei ed eterogenei, come accade necessariamente con il logos occidentale in funzione integrativa d’ogni carenza fenomenica d’esistenza e di senso, ma solo appellandosi ad ulteriori integrazioni e a correzioni attinte direttamente sempre ad una fonte rivelativa. La coincidenza di principio tra apparire ed essere, tra esistenza e senso, propria del realismo segnico, assicura all’uomo che crede in esso una modalità conoscitiva del tutto particolare in cui, a differenza di quanto accade nel conoscere fenomenico, la saturabilità del conoscere è qui assicurata per ragioni d’essenza, sebbene non sempre anche fattualmente. Mentre nella rivelazione la verità ha un significato e un contenuto presentativi perché in essa i referenti s’incarnano nei loro segni che li esibiscono, per così dire, “in carne ed ossa”, nella manifestazione fenomenica la verità possiede un significato e un contenuto puramente rappresentativi perché in essa i segni rinviano, accennano, a dei referenti con i quali non potranno coincidere mai a causa della scissione originaria tra intellectus e res.66 Il radicamento della cultura occidentale nella manifestazione fenomenica, impostasi fin dalle origini come una manifestazione rivelativa stessa collassata, perché divenuta ambigua e scissa in apparire ed essere, è talmente saldo ed esclusivo da indurre fatalmente non solo all’incomprensibilità dello specifico rivelativo, ma anche alla riduzione fenomenica degli stessi dati rivelativi della tradizione religiosa giudaico-cristiana, penetrati in Occidente.

         Sebbene si sia precisato che l’originario concetto greco di idealità abbia un suo specifico ed ineliminabile valore ontologico che intende significare una vera e propria realtà intelligibile, accanto e di là da quella sensibile, e non entità meramente astratte, irreali e mentali, è opportuno, tuttavia, ricordare che la sfera del noetòn, anche se inizialmente mostra un’evidente portata ontologica che implica il permanere di una valenza manifestativa e di una postura rivelativa, d’indole palesemente residuale, finirà col perdere, lungo la storia dell’Occidente, ogni connotazione realistica. La fenomenologia insegna che la crisi della credenza nella manifestazione rivelativa e nel realismo segnico e il contestuale avvento della fenomenizzazione dell’universo manifestativo implicano fatalmente la perdita dell’ultramillenaria postura rivelativa da parte di coscienze mitico-rituali che sogliono attribuire a forze o a figure estranee i pensieri, i sentimenti e le azioni che la coscienza occidentale, centrata in un ego, ritiene propri, perché frutto di scelte personali, relativamente libere e autonome. Con la scoperta occidentale di una coscienza egocentrata – perché l’io è sinonimo di una coscienza autonoma e libera – nasce e s’imporrà nella nostra cultura con alterne vicende quell’antropocentrismo di base, inizialmente aurorale e strisciante67, che finirà, inevitabilmente, con lo svuotarsi di quella dimensione ontologica che soleva abbracciare strettamente l’uomo, il mondo e il Sacro, a ridurre la totalità del reale, originariamente attribuita dal mito e dal rito a contenuti rivelativi sacri o profani, al soggetto, alla sua mente, ai suoi giudizi, ai suoi enunciati linguistici, alle corroborazioni consensuali altrui. Questa cruciale mutazione culturale in direzione “umanistica”, che ha dominato e domina ancora la storia dell’Occidente e che, in ogni modo, il fenomenologo non può valutare né positivamente, né negativamente, è stata da tempo rilevata e analizzata da molti importanti studiosi, storici della cultura e pensatori, ma essi hanno mancato, a mio avviso, l’individuazione del vero fattore scatenante in quel remoto trauma antropologico che, abbattutosi su etnie greche all’inizio dell’Età del Ferro nel Mediterraneo Orientale, ha incrinato per la prima volta la fede ultramillenaria dell’uomo nelle credenze e negli apparati cognitivi ed esistenziali mitico-rituali. È questo, a mio avviso, l’occulto presupposto di senso di un generale comportamento storico e antropologico che ha fatalmente condotto – lo si riconosca o no – con il trascendimento dell’esistenza e con la sua riduzione ontologica ed epistemologica alle ragioni supreme di un potente logos puramente noetico che proietta i propri sensi, estraniatisi dal mondo, su un aistheton dall’oscuro ed atono fondo pensato dal logos stesso come materico (hyle) e come proprio concetto limite, volgendosi, in tal modo, consapevolmente all’artificializzazione scientifica e tecnologica della vita e della morte.

        

 

 

 



[1] L’analisi fenomenologica indaga i vissuti e, tra gli altri, anche i vissuti di credenza. Nient’altro. In tal senso non rientra nei compiti di un’antropologia fenomenologica, ad esempio, indagare se il mondo sia affollato di spiriti, secondo il dettato di certi miti, o sia costituito di particelle elementari, secondo la fisica quantistica.

[2] Nella manifestazione rivelativa, a differenza di quella fenomenica, l’apparire e l’essere coincidono per ragioni fenomenologiche d’essenza.

[3]   Le forze del Caos vinte, ma non uccise, dalle potenze creatrici, nella grande battaglia degli inizi dell’universo, rivelata frequentemente dai miti cosmogonici, pur respinte ai margini del mondo, amano tuttavia puntualmente rigurgitare attraverso tutte le soluzioni di continuità spazio-temporali, piccole e grandi, esistenti nelle difese del cosmo. Solo una continua vigilanza da parte di potenze apotropaiche e gli appropriati riti di sostegno possono difendere e sostenere l’uomo e il mondo in tutte le molteplici necessità di transito che la conclamata discontinuità della tessitura del mondo implica e impone.

[4] Per l’analisi fenomenologica, il dio che muore è quello che, rientrando nell’immortalità reale, gode della rinascita. Il dio cui appartiene l’immortalità ideale non può conoscere né vecchiezza e né morte.

[5] È questo, a mio avviso, il senso corretto di quell’intensa e puntuale solidarietà dell’intera comunità mitico-rituale mobilitata intorno agli sventurati, ai malati, ai morti, ai loro parenti e ai loro superstiti che tanto colpisce l’uomo occidentale, perché la fraintende eticamente.

[6] Cito la versione standard di The Epic of Gilgamesh, tr. e intr. di Andrew GEORGE, ed. Penguin Books, London, 1999, tab. VIII 55-58, p. 65 (d’ora in avanti Epic); cfr. anche “L’epopea di Gilgamesh”, in Miti babilonesi e assiri, Classici della religione, collezione diretta da R. Pettazzoni, intr., tr. e commento di G. Furlani., ed. Sansoni, Bologna, 1958, tav. VIII, col. II, 13-16, p. 211 (d’ora in avanti “Epopea”).       

[7]  Epic, tab. I 48, p. 2; “Epopea”, tav. I  col. I, 2, p. 167. Del tutto comprensibili sono, per altro, i parti ibridi di dei e di uomini tra sacerdoti e tra sacerdotesse che, data l’indole del loro ufficio, operano a contatto con dee e dei e sono, di norma, sempre posseduti in generale da questi.

[8] Epic, tab. X 36-37, p. 87; “Epopea”, tav. X, col. VI, 33-34, p. 226.

[9] Epic, tab. IX 3, p. 70; “Epopea”, tav. IX 3, col. 1, p. 213.

[10] Epic, tab. IX si i 7-8, p. 71; “Epopea ”, tav. X , col. I,  7-8, p. 218.

[11] Epic, tab. X 61-66, p. 78; “Epopea”, tav. X , col. II, 10, p. 219.

[12] Epic, tab. IX 76-77, p. 72; “Epopea”, tav. IX, col. III, 4, p. 214.

[13] Epic, tab. XI 283-284, p. 98; “Epopea”, tav. XI 269-270, p. 235.

[14] Epic, tab. XI, 305-307, p. 99; “Epopea”, tav. XI 287-289, p. 236.

[15] Cfr. Epic, tab. VII, Y 149, p. 110, Y 187, p. 20, p. 112; “Epopea”, tav. III, col. IV, 14, p. 183, col. V, 7, p. 184.

[16] Cfr. la Nota introduttiva di G. FURLANI al Poema di Gilgamesh, in “Epopea”, p. 113; cfr., inoltre, G. FURLANI, Sul concetto dell’eroe in Babilonia, Atti del Reale Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Anno Accademico 1928-29, Tomo LXXXVIII, Parte Seconda, Venezia, 1929, pp. 671 e ss., p. 682.

[17] “Epopea”, tav. X, col. III, 1-5, p. 219-220.

[18] Epic, tab. VII, 183-191, p. 61; “Epopea”, tav. VII, col. IV, 33-39, p. 208.

[19] Epic, tab. XI, 299, p. 99; “Epopea”, tav. XI, 281, p. 235.

[20] La rinascita, cui va associato anche il ritorno da un viaggio agli Inferi che è da intendere come una vera e propria morte (Odissea XII, vv. 21-22), è, da un punto di vista fenomenologico, il risultato di una metamorfosi. La metamorfosi, figura fondamentale per la corretta comprensione del dinamismo del reale in culture non occidentali, è una trasformazione in cui l’identico si coniuga con il diverso, generando qualcosa di logicamente aberrante per la mente occidentale dopo Parmenide. I nuovi nati, in definitiva, sono, in quanto morti risorti sotto qualunque specie, per virtù metamorfica, contestualmente identici e diversi. Ad eventi metamorfici vanno attribuiti anche gli ibridi, naturali e fantastici, diffusissimi nelle culture antiche e in quelle d’interesse etnologico, che l’ermeneutica favolistica di maniera ha sempre penosamente incompreso. E’ importante precisare che all’interno del realismo segnico e del suo modello di tempo, quello della ripetizione, ci si sottrae alla morte definitiva solo mediante la rinascita, mentre al di fuori di esso si può conseguire ciò solo trascendendo il tempo ed entrando nell’atemporalità. 

[21] G. FURLANI, Sul concetto dell’eroe in Babilonia, op.cit., p. 676.

[22] M. POHLENZ in L’uomo greco suggerisce come appropriato il termine “signore”, in riferimento alla condizione principesca degli eroi in vita (tr. it. di B. Proto, ed. La Nuova Italia, Milano, 1962, pp. 118-119).

[23] E’ notissimo il vertiginoso virtuosismo metamorfico operato dalla bellissima dea nel vano tentativo di sottrarsi all’amplesso di Peleo.

[24] PINDARO, Istimiche, VIII, 45-95 (cit. da PINDARO, L’opera superstite, IV, Le Istimiche e i frammenti, ed. SE, Milano, 1994, trad. e note di E. Mandruzzato).

[25] Cfr., in tal senso, Laura M. SLATKIN, The Power of Thetis. Allusion and Interpretation in the Iliad, University of California Press, Berkeley and Los Angeles, California, 1991.

[26] Iliade, I, 396-406.

[27] Inni omerici, Ad Afrodite, V, 218- 240

[28] Iliade, XVIII, 433-435.

[29] The Power of Thetis, op. cit., pp.101-103.

[30] «è afflitto e io non posso, anche andando, aiutarlo», Iliade, XVIII, 443.

[31] The Power of Thetis, op.cit., p. 45.

[32] Istimiche, VIII, 96-102, op.cit.

[33] Il modello ciclico del tempo, in cui gli eventi si ripetono per automatismo, portando a coincidenza la fine con il principio, è, in realtà, un’immagine mobile, del tutto astratta, del principio parmenideo d’identità. L’impiego senza cautela alcuna da parte di M. Eliade e di altri negli studi delle culture è stato gravemente sviante, perché l’esistenza di riti scrupolosi ed onerosi, a sostegno dei transiti cosmici, smentisce nei fatti la credenza in qualunque automatismo.

[34] The Power of Thetis, op. cit., pp. 42-43.

[35] Iliade, I, vv. 352-354.

[36] Odissea V, vv. 61-62.

[37] Ibid., V, vv. 211-218.

[38] Ibid., V, vv. 135-136.

[39] Ibid., X, v. 236.

[40] Ibid., V, vv. 311-312.

[41] SOFOCLE, Antigone, vv. 450-457.

[42] M. HEIDEGGER, Von Wesen der Wahrheith, ed. V. Klostermann, Frankfurt a. M., 1967, p. 8.

[43] Ibid., p. 10.

[44] Ibid., p. 16. ; M. HEIDEGGER, Einfuehrung in die Metaphysik, ed. M. Niemeyer, Tubinga, 1957, pp. 77 e ss..

[45] Von Wesen, p. 17.

[46] M. HEIDEGGER, Vortraege und Aufsaetze, Teil III, „Aletheia (Heraklit, Fragment 16)“, ed. G. Neske Pfullingen, Tubinga, 1967, pp. 54-55; pp. 60-61, pp. 72-74. Cfr., del resto, HERAKLEITOS, 123 DK ; 10 B.

[47] P. CHANTRAINE, Dictionnaire étymologique de la langue grecque. Histoire des mots, ed. Klincksieck, Parigi 1974 ; HJ. FRISK, Griechisches etymologisches Woerterbuch, ed. C. Winter, Heidelberg, 1991.

[48] H. G. LIDDELL and R. SCOTT, A Greek-English Lexikon, ed.Claredon Press, Oxford, 1968.

[49] G. PUGLIESE CARRATELLI, Les lamelles d’or orphiques. Instructions  pour le voyage d’outre-tombe des initiés grecs, ed. Les Belles Lettres, Parigi, 2003, pp. 17-20, p. 47.

[50] Non è da escludere che la misteriosa, potentissima, Thea che accoglie Parmenide dopo il suo celebre viaggio celeste sia proprio Mnemosyne (M. TORTORELLI GHIDINI, «Aletheia nel pensiero orfico. I. “Dire la verità” nel v. 7 della lamina di Farsalo», Filosofia e Teologia 4 (1990), p. 73, cit. da G. PUGLIESE CARRATELLI, op.cit., p. 69.

[51] M. DETIENNE, I maestri di verità nella Grecia arcaica (tr. it. di A. Fraschetti), ed. G. Laterza & Figli Spa, Bari, 1977, pp. 1-5.

[52] Ibid., pp. 9-11.

[53] Ibid., pp. 15-16.

[54] Ibid., pp. 36-38.

[55] La memoria indelebile è il naturale precipitato dell’eternità e non viceversa, almeno fino ad Euripide.

[56] ESIODO, Theogonia, vv. 27-28.

[57] M. DETIENNE, I maestri di verità…, cit., p. 81.

[58] Ibid., pp. 79 e ss..

[59] HERAKLEITOS, 93 DK; 11B.

[60] Cfr., ad es., il più tardo De defectu oraculorum (L’eclisse degli oracoli) di PLUTARCO.

[61] M. HEIDEGGER, Platons Lehre von der Wahrheit. Mit einem Brief ueber den „Humanismus“, ed. Francke, Berna, 1954, pp. 26-32.

[62] Ibid., pp. 27 e ss.

[63] Ibid., p. 41.

[64] Ibid., p. 42.

[65] Ibid., p. 51.

[66] Nella presentazione il segno indica un referente presente nel segno stesso, nella rappresentazione, invece, il segno indica un referente assente e presente di là dal segno.

[67] Cfr. R. MONDOLFO, La comprensione del soggetto umano nell’antichità classica, tr. it. di L. Bassi, ed. La Nuova Italia, Firenze, 1958.