Domenico Antonino Conci

SACRALITÀ NOMADICHE.
ANALISI  FENOMENOLOGICHE

 

 

Nel 1955 e nel 1957 vennero alla luce, per i tipi della casa editrice Einaudi, due importanti lavori scientifici di Raffaele Pettazzoni, L’onniscienza di Dio 1 e L’essere supremo nelle religioni primitive. In essi, dopo un documentatissimo excursus etnologico, Pettazzoni concludeva che l’onniscienza divina è un attributo specifico di quell’Essere Celeste quale appare nella civiltà nomadico-pastorale di cultura patriarcale. La credenza nell’onniscenza divina, cui è associata figurativamente una frequente polioftalmia, scaturisce, secondo il grande storico delle religioni, dalla luminosità propria di un essere potente, fruitore della luce perché celeste, ed essa «può bensì risalire alla civiltà della caccia ma solo come attributo del Signore degli animali, in quella forma più o meno uranizzata che verosimilmente appartiene ad una fase più “progredita” 2 della civiltà della caccia» 3 . Pertanto «dietro l’onniscienza del “Padre nostro che è nei Cieli”, sta storicamente l’onniscienza di Jahvé, e dietro Jahvé sta, storicamente, l’essere celeste delle civiltà pastorali, eredi a loro volta del signore degli animali dei cacciatori progrediti» 4 . Ora, come Signore degli animali e della foresta, della caccia e della raccolta, assunto in cielo, che invia piogge benefiche ed uragani devastatori con tuoni e folgori – quali “sanzioni meteoriche”, in questo caso, di un Dio infuriato verso un’umanità infedele o peccatrice – costui è un Dio padre e tale configurazione sacrale andrebbe distinta nettamente dalle credenze religiose e dai culti della Dea Madre, propri dei popoli agricoltori, cosiddetti matriarcali. Essa, infatti, secondo Pettazzoni, non potrebbe essere onnisciente perché non potrebbe fruire mai di quella luce celeste che suole rivelare ogni cosa 5 . La Dea Madre, sebbene figura creatrice potentissima, essendo d’indole ctonia, avrebbe potuto essere, semmai, secondo Pettazzoni, solo “magicamente profetica”, ma non onnisciente in un senso vero e proprio. Una distinzione, questa, a mio avviso, scientificamente oltremodo oscura.

Queste pubblicazioni furono poi, data l’importanza del loro autore, recensite in varie sedi anche da alcuni autorevoli addetti ai lavori e, tra gli altri, da Uberto Pestalozza, che era allora storico delle religioni e docente all’Università Statale di Milano. E in quella recensione, confluita, poi, nella forma di una vera e propria dissertazione, in un volume che avrebbe raccolto molti altri articoli e saggi dello stesso autore, sparsi in varie riviste, Pestalozza sollevava legittime perplessità su simili generalizzazioni, mostrando appunto, mediante numerose e, direi, anche conclusive esemplificazioni etnologiche, che l’attività meteorica, esercitata nel bene e nel male, e l’onniscienza, non erano facoltà e funzioni esclusive e specialistiche di figure potenti celesti patriarcali. Tra l’altro, le testimonianze paleolitiche ci attestano indubbiamente – indipendentemente dalle note tesi generali di Marija Gimbutas – che un patrimonio di immagini femminili del tutto preponderante, se confrontato con quello maschile, mostra quanto è difficile sostenere, per lo meno come ovvia e pacifica, la tesi della centralità sacrale di una figura maschile potente – il Signore degli animali, il Signore della foresta – presso le culture dei nomadi del Paleolitico Superiore, quelli che praticavano la caccia ai grandi animali, il cui celeberrimo animalismo figurativo 6 resterà, poi, come memoria indelebile nel patrimonio cognitivo e fabbrile mitico-rituale delle culture nomadiche dell’Europa Centrale e dell’Asia, influenzando, probabilmente, il Vicino Oriente Antico, la Grecia arcaica e l’intero Occidente, per approdare, infine, sempre con ruoli e funzioni oscuramente apotropaiche e non meramente ornamentali a vigilare, in veste addomesticata, gli ingressi, i frontoni, gli spigoli d’angolo, i capitelli e i doccioni delle chiese e delle cattedrali medioevali.

Ho voluto riprendere questo complesso tema, certamente relato al contenuto del nostro incontro, limitandomi, tuttavia, a suggerire una variante ermeneutica che potrebbe anche essere perseguita, proseguendola in altra sede, con più spazio e con più tempo a disposizione, supportandola, inoltre, con dei riferimenti precisi e circostanziati. Si tratta solo, beninteso, di un’ipotesi, una delle molte possibili, che, purtroppo, data la singolare ermeticità dei dati a disposizione, non potrà mai essere dimostrata o confutata fino in fondo. Da qualche tempo ho preso le distanze da alcune note classificazioni interpretative del misterioso simbolismo animalistico preistorico, che hanno suggerito come plausibili, ispirandosi a presupposti pansessualistici, molto cari al secolo scorso, dicotomie classificatorie di tale patrimonio figurativo mutuate dalla differenziazione tra il maschio e la femmina, animale e umana, e dalla cosiddetta “lotta eterna” tra i sessi. È nota, del resto, l’interpretazione che André Leroi-Gourhan ha inteso dare dell’arcano animalismo paleolitico, classificando simbolicamente l’intera fauna delle figurazioni nelle caverne preistoriche sulla scorta dell’opposizione “femminile/maschile” 7 , laddove io propenderei, piuttosto, per un’interpretazione basata sul simbolismo di un vissuto primario ed elementare che, distinguendo, in blocco, il positivo dal negativo dell’esistenza, contrappone i carnivori agli ungulati, o, meglio, tutti gli animali predatori e ampiamente nocivi, a quelli benefici che sono fonte di cibo e di sostegno per un’umanità che, forse, allora, era più preda che predatrice. Una concezione oltremodo realistica, questa, del bene e del male, di non più agevole comprensione, perché è priva del tutto di quell’indole etica e spiritualistica con cui la cultura occidentale intende e vive, da sempre, il problema del bene e del male sulla terra.

Analogamente, quando si pensa che nelle culture antiche del nostro pianeta i transiti astrali e le eclissi erano assimilati senz’altro ai fenomeni meteorici, vale a dire alla pioggia, alle nuvole, ai venti, ai tuoni e ai fulmini, l’usuale contrapposizione tra Cielo e Terra l’ho sempre ritenuta molto più sfumata di quanto certe interpretazioni modernizzanti dei miti cosmogonici tendono a suggerire. Gli accadimenti astrali, che non si ritenevano mai svolgersi ad enorme distanza dalla terra, andrebbero, piuttosto, assimilati strettamente ad essa, coinvolgendola, quindi, intimamente, come, soprattutto, sono da coniugare con il cielo i luoghi elevati delle vette delle montagne dove solevano discendere gli dei celesti delle culture uraniche. Analogamente, le acque azzurre che cadevano giù dal cielo andrebbero, in ogni modo, sempre associate interpretativamente al suolo stesso, quello calpestato dagli uomini e dagli animali. Nel mondo mitico di tradizione greca, ad esempio, Okeanòs era inteso come una grande fiumana che abbracciava, circuendola, la Terra Madre, la pervadeva e la penetrava, quindi, in una mixis primigenia e perenne, ove figlio e madre si riteneva si unissero secondo i canoni sacrali di una remota ascendenza culturale mitica di sicura  e diffusa matrice neolitica. 

Seguace, quale io sono, di una semiotica fenomenologica sincronica e diacronica delle strutture di senso vissute delle culture, funzionalisticamente intese, non ritengo, quindi, più fecondo, in sede d’analisi, l’impiego, come criterio ermeneutico, della semantica sessuologica, con le sue note distinzioni tra culture della Terra Madre e culture del Cielo Padre, tra culture ginecocentriche e culture androcentriche, tra culture matriarcali e culture patriarcali. Esse, qualora fossero pure sostenibili dai dati relativi, sarebbero in ogni modo, a mio avviso, delle contrapposizioni derivate e non primarie. Solo se prese in prestito dall’universo antropologico culturale, come quelle basate, ad esempio, sulla distinzione tra culture ad economia e a società d’indole stanziale e culture ad economia e a società di tipo non sedentario, potrebbero fornirci delle interpretazioni più appropriate e più comprensive 8 , assumendo, beninteso, in senso analitico e non in senso ontologico un simile privilegio, poiché ritengo che tutti gli elementi costitutivi di una cultura, pur incidendo in modalità differenti, secondo l’indole tendenziale dei sistemi culturali stessi, possono interagire, di fatto, gli uni con gli altri, a pieno titolo.

Ciò che qui propongo va pensato, naturalmente, in termini di modello, non di concrete specificità, e tale distinzione, per altro, non va intesa, inoltre, come rigida o come statica, perché è sempre possibile ed è rinvenibile, di fatto, il transito reciproco da una condizione economico-sociale all’altra. Molto significativo appare, del resto, questo motivo anche in vista di un’ermeneutica antropologica che indaghi intorno a certe faticose, perché ambigue e tortuose, mutazioni storico-antropologiche delle etnie, complicate dagli inevitabili ibridismi culturali 9 . Si pensi, in particolare, alle  trasformazioni socio-economiche subìte dagli Ebrei con l’Esodo e, soprattutto, con il loro drammatico insediamento tra gli agricoltori cananei, o ai complessi esiti del passaggio dalla situazione nomadica a quella stanziale degli Aztechi – un popolo nahua –, costruttori, poi, di un enorme impero, che rivelano significative alterazioni mitico-rituali, vere e proprie metamorfosi culturali, coinvolgenti, ovviamente, l’indole del rapporto sacrale tra l’uomo, la terra e il cielo. Un passaggio, questo, da una condizione stanziale ad una nomade o viceversa, che, data l’esemplarità di tali stati socio-economici, implicanti anche un’ancestrale, ambiguo, vissuto singolo e collettivo di solidarietà e di conflitto tra pastori e contadini, risalente notoriamente al neolitico 10 , non può, di certo, essere agevole, indolore e privo di costi, perché sembra comportare, di necessità, una modificazione culturale talmente radicale da generare nei vissuti e nei comportamenti delle comunità conflitti interni ed esterni non sottovalutabili sia per indole che per durata 11 .

È, ormai, noto che un nomadismo convulso ed integrale non sia mai esistito sul nostro pianeta e l’immagine convenzionale di bande di cacciatori paleolitici, oscillanti perennemente alla ricerca di cibo dall’Atlantico agli Urali, è una credenza che oggi sembra sia stata ragionevolmente ridimensionata. Alcuni decenni fa, l’archeologia preistorica sovietica, per esempio, aveva costatato l’esistenza in Ucraina, in Bielorussia e nella Russia – una vasta area bagnata da tre importanti sistemi fluviali (il Dnester, il Don e il Dneper) - di una decina di siti, i cui insediamenti abitativi di comunità di cacciatori e raccoglitori, risalenti alla fine del Paleolitico Superiore (15.000 anni fa, circa), erano stati allestiti, utilizzando come fondamenta e come mura di sostegno per le coperture, probabilmente di legno e di pelle, le imponenti ossa dei mammut. 12 Il suolo era ghiacciato in permanenza – ad eccezione di un sottile strato interessato dal disgelo estivo – e il permafrost, che cominciava alla profondità di un metro e mezzo, circa, consentiva la prolungata conservazione d’ogni scorta di cibo che veniva di norma stipato all’interno di buche di diversa grandezza, rinvenute negli spazi tra le abitazioni, permettendo, in tal modo, il rallentamento dei ritmi delle spedizioni di caccia che, in ogni modo, non sembra siano mai stati, in qualunque latitudine, così serrati come si è amato rappresentarli. 13 L’estensione di tali siti, alcuni dei quali coprono ben 10.000 metri quadrati di superficie, il numero degli abitanti (a Meziric, in Ucraina, almeno 50 individui), il volume della manodopera necessariamente impiegata per l’edificazione del sito, la distribuzione ineguale della dimensione delle buche e quindi la dissimile disponibilità delle eccedenze, i lunghi periodi di sedentarietà – almeno durante i nove mesi della stagione invernale – l’esistenza implicita di meccanismi predisposti a dirimere le dispute che non possono più risolversi “nomadicamente”, quando ci si stabilizza, con la tecnica della separazione, suggeriscono, già sul limitare della cultura neolitica, l’esistenza aurorale di gerarchie sociali con famiglie o clan emergenti, probabilmente nello stile della “chefferie” 14 , e di consuetudini comportamentali per la tutela della compattezza e della sicurezza di una comunità umana semistanziale.

Più interessante è certamente il nomadismo neolitico – soprattutto per la ricchezza delle testimonianze che possiamo acquisire, provenienti sia da comunità da tempo defunte, sia anche da quelle ancora oggi esistenti, sebbene in via d’estinzione – quello cioè delle grandi culture dei popoli allevatori transumanti che possono essere nomadi o seminomadi. E’ notissima la loro interazione di sempre, pacifica e, a volte, molto conflittuale 15 , con le culture agricole delle popolazioni sedentarie, divenute progressivamente, con la superiorità tecnica del loro crescente e irresistibile controllo territoriale, urbane e imperiali, perché, non essendo, a differenza delle culture contadine, economicamente del tutto indipendenti, soprattutto per quanto riguarda i cereali e i sempre più complessi e via via raffinati prodotti fabbrili, 16 i nomadi hanno bisogno di interagire necessariamente con queste, esercitando nelle relazioni commerciali principalmente il baratto. Così, se l’economia del pastore nomade è generalmente un’economia di simbiosi con le comunità agricole 17 , è, per altro, noto agli studiosi che i gravi periodi di crisi delle comunità sedentarie e delle loro istituzioni coincidono, significativamente, con i periodi d’espansione dei nomadi e viceversa. 18

Se, ora, ci concentriamo, sia pure fuggevolmente, sulla grande cintura scito-siberiana (euroasiatica) che comprende, in realtà, culture molteplici ed eterogenee 19 , interagenti nella vastità delle grandi steppe orientali, soprattutto a partire dal primo millennio a. C., cioè, pressapoco, dall’Età del Ferro, noi abbiamo un quadro di riferimento abbastanza significativo che ci offre il possibile percorso di un’ ermeneutica forse più ricca e più radicata nella realtà degli obbiettivi che intendiamo perseguire. Si tratta, anzitutto, dell’ habitat ambientale e culturale del deserto e della grande steppa, l’universo del cavallo 20 e del cammello, delle tende e dei kurgan, degli archi composti e delle cuspidi di frecce ad elevata potenza balistica, foggiate, anche, a tre o a quattro alette (a triedo o a tetraedro), dei carri e delle slitte, antropizzato più da campi stagionali che da villaggi veri e propri, allestiti da etnie a prevalente fondamento mitico-rituale sciamanico 21 e in possesso di  una lunga tradizione orale. Non credo che furono loro ad inventare la macchina bellica che suole striare il territorio, quale inevitabile supporto tecnico ad una vita destinata nel bene e nel male ad un intimo dinamismo socio-economico di tipo invasivo, come alcuni politologi ritengono (pensando, soprattutto, alla rutilante storia delle grandi invasioni degli Unni e dei Mongoli). Del resto, contro le tesi “spettacolari” cosiddette “migrazionistiche” per spiegare ogni tipo di diffusione o di trasmissione culturale tra le etnie della Terra, è bene non dimenticare che una migrazione è, in ogni modo, sempre un’ impresa azzardata e che, pertanto, una comunità emigra in massa solo se costretta da gravi e pressanti ragioni ambientali o sociali. 22 Ma a loro, indubbiamente, vanno attribuiti l’invenzione dell’irresistibile cavalleria pesante (I sec. d. C.), quella dei cavalli e dei cavalieri catafratti (con corazze a lamelle) brandeggianti il contus, una lancia lunga fino a quattro metri, e la tattica dell’estrema mobilità (raids) nell’agganciare all’improvviso il nemico e nello sganciarsi altrettanto rapidamente da lui 23 , onde l’oggettiva difficoltà di vincerli una volta per tutte all’interno di un territorio privo di quegli stabili e densi nuclei abitativi ove si concentra e si fissa, simbolicamente e materialmente, con i tesori e i sacra, l’identità esistenziale stessa dell’intera etnia. Una decisa superiorità bellica, insomma, che compensava, in una certa misura, la manifesta inferiorità di un’economia di allevatori, di mercenari e di briganti.

Soggiornavano in yurte che erano – com’è noto – delle tende smontabili, oppure direttamente sulle slitte e sui carri ricoperti di feltro e di pelle, e questi restavano deputati come i veri soli luoghi del soggiorno dei vivi e dei morti. Trascorso il tempo, che probabilmente si protrasse a lungo, in cui i cadaveri erano abbandonati, insepolti, nella steppa, preda delle intemperie e dei carnivori, seppellivano i loro capi, con i relativi corredi funebri, a volte ricchissimi, all’interno dei celebri Kurgan, sepolcri-tumuli individuali o collettivi, imitanti la yurta come casa del morto, mettendoli a riposare supini, spesso con le gambe contratte e il corpo cosparso di ocra rossa, in sarcofagi scavati, a volte, in tronchi d’albero e alloggiandoli in piccole camere funerarie oppure nei carri e nelle slitte stesse 24 , i mezzi di trasporto impiegati quando erano in vita. In ragione, poi, del rango, della ricchezza e dell’età del morto, si sacrificavano, oltre ai cavalli 25 , destinati a condurre il defunto nel viaggio e nella vita dell’Al di là 26 , anche degli esseri umani in qualità di servitori per aiutare e per accompagnare il signore nel mondo dei morti (ad es. nei celebri siti funerari di Majkop, Novosbodnaja). Si trattava, in definitiva, di costruzioni lignee, interrate, progettate e realizzate vicino alle valli dei fiumi, sulle alture e sui terreni pianeggianti da parte di culture che preferivano per caso e per necessità i vissuti spaziali dell’orizzontalità dell’Essere di un universo sconfinato – ritenuto popolato densamente da demoni, da spiriti malvagi, non sempre familiari e riconoscibili -  che, come un oceano senza sponde e senza fari, si sarebbe disteso con sgomento a perdita d’occhio se, a volte, non fosse apparso punteggiato in lontananza dai tumuli funerari e templari dei kurgan, veri punti d’orientamento e di raccolta per le etnie nomadi. Ma non mancavano le tombe a fossa, quelle senza tumulo, a cista (dolmen), costruite con lastre di pietra poggiate direttamente e di taglio sul suolo della campagna.

Era, insomma, la loro, un’economia malsicura basata, quindi, sull’allevamento di animali nomadi e seminomadi come lo sono, in quest’ultimo caso, gli ovini, le capre e le pecore, sulla razzia 27 e su un’endemica conflittualità dovuta fondamentalmente all’approvvigionamento dell’acqua, ritenuta d’origine celeste, non certo per il possesso di un territorio in cui non amavano insediarsi stabilmente per coltivarlo.  Sebbene avessero culti solari, erano governati dal corso della luna e preferivano, quindi, spostarsi di notte con gli armenti, allontanandosi dall’accampamento, anche senza preavviso alcuno 28 . Così la vita e la morte erano intese e vissute nella logica e nell’economia del viaggio necessitato, della dislocazione integrale dei singoli e delle etnie nei tempi decisi da scelte culturali e dall’alternanza delle stagioni, trascinati, quindi, da un dinamismo imposto dalle sempre mutevoli condizioni ambientali o sociali.

 Se le aree d’alta montagna, come luoghi elevati ed appartati, possono significare e svolgere, presso i popoli agricoltori e allevatori, funzioni mitico-rituali apparentemente similari come siti d’incontro tra l’uomo e gli dei della sfera celeste o ctonia e, quindi, come veri Axes Mundi, sono rilevabili, tuttavia, a tale proposito, delle differenze ideologiche e comportamentali che desidero evidenziare. Nella pianura di Fergana, ad es. nel Kirghisistan meridionale, le comunità agricole dell’Età del Bronzo (II millennio – I millennio) intendono il monte Sulajam-Too ad Os, situato al centro dei sedentari della cosiddetta cultura Cust, come il Monte del Mondo, simboleggiante il legame tra l’etnia e il Cosmo sacrale e, per secoli, rappresentò per loro il luogo rituale per eccellenza ove era possibile esercitare i culti ed incontrare le figure potenti. Presso i pastori kirghisi del settentrione, indoeuropei, invece, della medesima Età, la gola di Sajmaluu-Tas, presso il passo di montagna Kyrgart, sulle cui rocce sono state incise per millenni migliaia di immagini, non sembra costituisca un luogo nevralgico dove passa un Axis Mundi esclusivo e inamovibile 29 . Analogamente, solo in apparenza possono essere assimilati a degli Axes Mundi quegli Alberi della vita fiancheggiati da animali di pelo o di penna, presenti nelle figurazioni cosmologiche degli abitanti delle oasi e in quelle dei pastori kirghisi – in realtà di portata quasi ecumenica - o essere assunti come ideologicamente indistinguibili i comuni aspetti dei loro culti della terra e delle forze della natura e quelli propriamente astrali, del sole, del fuoco, del cavallo, del toro, dell’ariete, degli uccelli e, soprattutto, degli antenati 30 perché, data la generale indeterminatezza spaziale in cui la sua condizione umana è immersa, il nomade si orienta privilegiando decisamente l’ordinamento temporale degli accadimenti con l’invariante dei capostipiti delle genealogie e dei fondatori dei propri lignaggi. 31 Il Centro del Mondo dei nomadi, pertanto, l’Axis mundi, poteva essere, per loro, semplicemente il palo della tenda, anche se lo si rizzava, magari, una notte soltanto: nomade esso stesso, era, una volta piantato nel suolo, del tutto sufficiente perché essi intendessero, sentissero e vivessero i loro stanziamenti più o meno precari come se essi fossero sempre collocati intorno a quel centro ubiquo e non euclideo in cui essi ritenevano di poter incontrare gli Esseri celesti che solevano muoversi, nel bene o nel male, lungo tale asse cosmico, inteso come un vero canale di comunicazione privilegiata tra le figure potenti e gli esseri umani.

Sebbene i kurgan siano diventati, poi, dei veri e propri templi dedicati a culti solari (sacrificio del cavallo) 32 , non sembra, tuttavia, che sia mai esistita presso queste comunità nomadiche una vera e propria classe sacerdotale e tanto meno burocratizzata. Le credenze e le pratiche sciamaniche, alquanto diffuse, dovevano conservare ed alimentare, per altro, con i culti di possessione e con le esperienze estatiche connesse ai viaggi nell’Al di là dello sciamano per andare ad incontrare le soccorrevoli figure potenti in nome dei singoli e della comunità intera, la logica e l’economia di una religione che per essere praticata non richiedeva in alcun modo l’impiego di strutture sedentarie fisse, vere e proprie.  Oltre alle testimonianze di un culto degli antenati, dei re, ritenuti divinità solari 33 (in connessione con la dea Tabiti-Hestia 34 cui lo Scita onerosamente sacrificava), delle armi stesse (la corta spada scitica – akinakes- il cui culto è stato descritto puntualmente da Erodoto, era, ad esempio, considerata l’immagine aniconica del dio della guerra 35 ), s’impone il notissimo animalismo figurativo asiatico, reale o fantastico 36 di portata cosmopolitica, espresso mediante soluzioni stilistiche talmente ispirate alla deformazione e all’assemblaggio compositivo di elementi ritenuti distintivi degli animali di specie eterogenea e resi con enfasi violenta, da indurre gli studiosi ad interpretare precipitosamente tali composizioni, in cui figurano alci, cervi, montoni, stambecchi, caprioli, antilopi, cinghiali, lepri, aquile, cigni, oche, anatre, galli, felini, lupi, cavalli, capre, arieti, renne, conigli, ricci e grifoni, insieme con altri motivi iconografici (rosette, svastiche, ruote raggiate e motivi astrali) come “arte astratta o simbolica”. 37 Esso è sicuramente relato al ruolo e alla funzione dell’animale come potenza apotropaica, assistenziale e corroborante nella vita e nella morte degli umani 38 , e costituisce la rappresentazione più originaria e più elementare di una concezione mitica dell’esistente che anima l’universo organico e inorganico dell’intelligenza e della volontà di forze positive e negative che agiscono nel reale quotidianamente, collaborando o scontrandosi tra di loro. Agricoltori e allevatori, quali essi sono, vivono e operano notoriamente in un rapporto necessariamente simbiotico con gli animali con cui interagiscono, adeguandosi, di necessità – con l’aiuto dei cani – alle abitudini di vita e ai ritmi delle migrazioni di quelli selvatici oppure alla scansione dei tempi dèbiti del pascolo, dell’abbeverata, dell’allattamento e della mungitura di quelli domestici.

 Se ora, procedendo verso la conclusione, proviamo a sintetizzare i risultati di quest’analisi antropologica, purtroppo necessariamente lacunosa, che ha impiegato, per orientarsi nello studio di alcune comunità e raggiungere una visione d’insieme, la dicotomia culturale “sedentarietà-nomadismo”, ritenendola più adeguata rispetto a quelle di più diffuso e consolidato impiego, frequentemente di provenienza naturalistica, sarà possibile cogliere più proficuamente le strutture di senso mitico-rituali e le trasformazioni che esse subiscono tutte le volte in cui il rapporto primario dell’uomo con la terra su cui vive va incontro a mutazioni profonde d’indole economico-sociale. Persino il seminomadismo non sembra indurre la comunità ad interagire profondamente e stabilmente con la terra, né dal punto di vista pragmatico, né da quello ideologico, perché, com’è stato possibile costatare, l’esistenza del nomade dipende esclusivamente dall’orografia superficiale del territorio e, soprattutto, dall’avvicendarsi degli eventi meteorici, ampiamente intesi. Egli, di norma, non ha bisogno alcuno di radicamenti, fisici o psichici che siano, né per l’economia dei viventi, né per quella dei morti, quindi non tende a coltivare la terra 39 e non scava il suolo per innalzare costruzioni su inamovibili fondamenta, sognando un’eterna permanenza in vita e dopo la morte (si pensi solo alle ziggurat mesopotamiche, alle piramidi egizie e a quelle azteche). Del resto, simili imponenti interventi sul territorio implicano, necessariamente, non già l’esistenza di semplici superstrutture tribali, sia pure grandi, ma di vere e proprie organizzazioni statali d’elevata complessità amministrativa, anche perché comportano progettazioni di lunga data e notevoli impieghi di risorse e di energie volte alla tesaurizzazione e alla distribuzione delle eccedenze agricole destinate a finanziarie i lavori pubblici, senza le quali le grandi attività fabbrili per l’edificazione e la conservazione dei palazzi, dei templi e di quanto occorre per la tutela ambientale e sociale del territorio d’appartenenza comunitaria, destinate a sfidare le offese del tempo, non possono essere svolte. Nelle culture non sedentarie che impiegano, del resto, anche dei piccoli altari portatili, il Palo sacro degli Achilpa australiani, il palo della tenda dei nomadi asiatici, il cui telo di copertura è la volta del cielo, l’Arca dell’Alleanza di Jahweh e i betel dei Patriarchi sono, come Assi del Mondo, veri e propri santuari mobili od occasionali che, come la colonna di fuoco dell’Esodo biblico, cosmizzano e striano il territorio, orientando e guidando durante i transiti non sempre facili e pacifici l’etnia che li intende e li vive sempre, in funzione di sostegno salvifico, perché luoghi d’incontro con il Sacro.

Transitare, allora, da una condizione economico-sociale nomadica ad una sedentaria (e viceversa) potrebbe comportare persino una vera e propria rivoluzione culturale che coinvolge e sconvolge i singoli e le etnie, esistenzialmente e cognitivamente. Qual era, ad esempio, il Dio che parlò per la prima volta ad Abramo nella città di Ur, nella bassa Mesopotamia? Era, forse, una delle molte figure potenti della cultura contadina caldea come Anu, il Toro del Cielo, o Nanna-Sin, il poliade Dio Luna di Ur, o un’innominata epifania taurina (il Torello di cui parla Abramo), tutte figure, in ogni modo, strette da vincoli millenari, in qualità di figli e paredri, alla grande Dea Vicino Orientale e Mediterranea, oppure già quel Dio che trionferà, poi, entrando nella Terra Promessa, non senza formidabili e reiterate resistenze da parte del popolo eletto stesso, influenzato dalle divinità cananee, e che, con il ritorno degli ebrei al nomadismo del deserto, fa riudire la Sua voce di tuono ? Questa seconda ipotesi è difficilmente credibile. Entrando in una condizione nomade i capi sacerdotali trascinano ancora con sé come epiclesi i nomi antichissimi di figure potenti come il toro - il toro di Abramo, di Isacco e di Giacobbe – veri relitti culturali di una precedente tradizione stanziale, che nulla a che vedere con quella tesi che ha voluto intendere l’epiteto come “un insulto cananeo”, confutata anche da R. Pettazzoni. Del resto, cosa possono significare i celebri episodi biblici del ritorno del popolo nomade all’adorazione del Vitello d’oro, disorientato dalla lunga assenza di Mosè, o dell’erezione di un serpente di bronzo (notissima figura potente ctonia), ordinata nel pieno deserto da Mosè contro il morso degli scorpioni, se non il significato residuale di precipitati mitico-rituali di una condizione culturale e cultuale precedente che il popolo, col nomadismo nel deserto, sta faticosamente perdendo? L’affascinante profetismo delle origini, del resto, quello di Abramo e di Mosè, non quello più tardo, presente e attivo nelle vicissitudini della storia sedentaria del popolo d’Israele, dei suoi sacerdoti templari e dei suoi re, che, comprensibilmente, è da intendere “come un fenomeno di crisi del gruppo sociale e delle strutture etiche, cultuali e teologiche della religione ufficiale o istituzionalizzata” 40 (sacerdotale o laica), rivela, a mio avviso, come culto adorcistico di possessione dell’uomo da parte di Jahweh, l’inconfondibile sentore di una remota eredità che suole contrassegnare in maniera eminente la cultualità della comunità nomadica stretta intorno al suo sciamano che ricopre contestualmente il ruolo e la funzione del capo e del sacerdote. Lo stesso duro conflitto ideologico, mai definitivamente vinto dagli jahvisti, che oppone la rivelazione di Jahweh ai miti e ai riti cananei, è la testimonianza del fatto che, quando un popolo di cultura nomade si stanzia, poi, definitivamente, su un territorio, i vissuti cognitivi ed esistenziali della sedentarietà s’impongono irresistibilmente e tendono a relegare nello sfondo, lo si voglia o no, quelle figure potenti celesti che sembrano attingere ruoli e funzioni egemoni dai vissuti collettivi della cultura nomade.

Nell’area culturale egea, ove, secondo Esiodo, Zeus si sarebbe impossessato del tuono, del fulmine fiammeggiante e del baleno «che prima la mostruosa Gaia teneva nascosti» 41 è forse ricostruibile, sia pure con notevole fatica, il grande mito pre-ellenico del Sole, Helios, Toro o Ariete, e della sua numerosa discendenza, tutte figure celesti-ctonie sottoposte alla Grande Madre Terra, poi sfigurate nelle loro originarie fattezze e rese quasi irriconoscibili nelle loro primordiali funzioni sacrali dalla successiva ed estranea lezione mitico-rituale apollinea di matrice patriarcale. Vigilava, probabilmente, le sortite orientali dell’astro, il figlio Aiete, “il feroce” re d’Aiaia, un’isola sacra alla foce del fiume Phasis, nel Ponto. Era, costui, il padre della “sinistra maga” Medea che, per amore, facilitò all’irriconoscente e fedifrago Giasone la conquista del celebre Vello d’oro – le spoglie, appese ad un albero, di Helios-Ariete temporaneamente defunto e in via di rianimazione – una dea potente che amava viaggiare su di un cocchio tirato significativamente da serpenti alati 42 , le cui famose “malefiche gesta”, ritenute esercitate, come infanticida, persino nei confronti dei figli avuti dal marito, erano, in realtà, antichissime tecniche sapienti di rinascita di cui solo lei era a conoscenza “per dovere d’ufficio”. Sembra, infatti, che da sempre Medea, dopo averlo scuoiato, spezzava e bolliva nel calderone rituale 43 le carni dell’Ariete-Helios tramontato, suo nonno, per farlo risorgere a nuova vita ogni mattina nell’aspetto d’agnello. Così la sventurata e incompresa dea avrebbe ringiovanito l’anziano padre di Giasone e persino Giasone stesso. Doppione d’Aiaia, all’estremo Occidente, cioè lungo le coste del Tirreno Meridionale, là dove per gli antichi Egei, cretesi e micenei, gremita di figure inaffidabili e mostruose, si distendevano gli estremi confini del cosmo e, quindi, si snodava la via verso le regioni infernali, stava, in veste di stazione dell’occaso solare, l’isola di Circe. Quest’altra bellissima “maga” era un’altra dea oltremodo potente, figlia anch’essa di Helios, sorella di Aiete, quindi, e di quella stessa  Pasifae, celebre moglie di Minosse, “l’oscena” regina di Creta, travolta “da un’indegna passione” per il bellissimo Toro di Poseidone, da cui avrebbe generato il mostruoso Minotauro. Circe (“colei che volteggia”, “che aggira”) 44 , esperta “in farmaci tristi”, vigilava, probabilmente, con puro amore filiale, la soglia estrema del cammino del padre Helios, avviato al tramonto che rientrava sul far della sera nel grembo ctonio (il calderone) della Grande Madre Mediterranea, utero e tomba ad un tempo, signora della metamorfosi di cui la rinascita era per l’uomo e per il mondo preellenico l’agognato, salvifico, naturale epifenomeno.

L’area centroamericana testimonia con i suoi imponenti resti archeologici, unitamente a quella dell’Antico Egitto, la più complessa civiltà neolitica del nostro pianeta, sebbene le etnie mesoamericane, a differenza delle comunità che per tremila anni hanno abitato le sponde del Nilo, non siano mai approdate all’Età dei metalli. Con l’abbandono della condizione nomadica e lo stanziamento del futuro popolo azteco nel territorio lacustre dove, secondo la leggenda mitica di fondazione di Tenochtitlan – oggi Mexico City - fu vista un’aquila, posata su di un nopal, artigliare un serpente, è probabile che l’inconfondibile profonda propensione per l’atmosferico e per l’astrale nella cosmogonia azteca sia il portato residuale di un’eredità nomadica, per altro non molto remota rispetto allo stanziamento. La generale subalternità degli astri nel contesto cultuale agrario è palese, ad esempio, nella singolare concezione secondo la quale la Via Lattea, il cammino che attraversa il firmamento, era sentito come il corpo della Grande Madre dal cui tenebroso ombelico sarebbero sorti il Sole (Tonatiuh, d’origine chichimeca), la luna e tutte le stelle. 45 Analogamente, il celebre gioco della pelota (tlachco), risalente al 300 a.C. e diffusosi, poi, nell’intera area mesoamericana, significava e allestiva, ripetendolo ritualmente, a fini sacrificali, lo sforzo stesso del sole costretto ad ingaggiare, onde evitare di essere catturato e spegnersi definitivamente, un’aspra lotta quotidiana, dall’esito mai garantito, nel firmamento di un mondo notturno concepito e impaginato dai miti, duplicandolo, in tal modo, singolarmente, anche di sotto la superficie della terra. Così i noti ed enigmatici anelli di pietra  infissi nelle pareti fiancheggianti l’area del gioco della pelota che, in definitiva, si concepiva come un vero e proprio sanguinoso tempio sacrificale, erano, in realtà, secondo un’interpretazione, i buchi attraverso i quali il sole entrava, quando il giorno calava, ed emergeva, poi, dagli stessi ogni mattino, vincendo la sua battaglia per l’esistenza 46 . Un mondo notturno, celeste e sotterraneo ad un tempo, era, dunque, lo scenario gigantesco della battaglia cosmica dell’astro diurno, ove Tonatiuh (Huitzilopochtli per gli Aztechi) si scontrava necessariamente, dopo il tramonto, con i Quattrocento del Sud e i Quattrocento del Nord, cioè con le stelle, acerrimi nemici, sovente intesi come riducibili all’unica potenza malefica della stella del Mattino e della Sera (il pianeta Venere), tutti demoni astrali, in ogni modo, di diversa terrifica potenza, secondo quanto rivelato da precisi dettati mitici.

Al fondo dell’anima azteca, cui erano singolarmente familiari – come una profetica maledizione - i vissuti esistenziali della notte e della morte incombenti, giaceva l’angoscia inestinguibile e sempre ricorrente che il sole, piombando al crepuscolo nelle viscere della terra con la celerità del volo dell’aquila sulla preda, secondo una splendida immagine mitica, poteva pure perdersi, smarrendosi nel buio del mondo stellato celeste-ctonio, per non riemergere mai più. E tale triste sentire aveva costretto i contadini mesoamericani ad allestire imponenti rituali salvifici come quelli ”del fuoco nuovo” e, soprattutto, quei drammatici sacrifici di sangue che sconvolsero la coscienza stessa dei loro spietati colonizzatori, e che, tuttavia, gli indigeni ritenevano disperatamente necessari perché, se tale alimento non fosse andato a rivivificarlo costantemente, il potere del cosmo sarebbe inevitabilmente svanito e la sua esistenza si sarebbe conclusa per sempre. Un’incombenza, questa, di remota eredità tolteca, generatasi dalla convinzione mitica che la vita può nascere solo emergendo da una morte sacrificale.

Queste testimonianze, sia pure limitate di numero, sembrano attestare, in ogni modo, che la generale subalternità mitico-rituale di alcune figure potenti nei confronti di altre si può evincere da specifiche configurazioni mitiche che impongono a delle divinità e ai loro accoliti, come unica condizione per l’esistenza e per la conservazione del mondo e dell’uomo, la sottomissione a prove onerose ove si mette in gioco e a repentaglio la vita stessa di quanti, umani e non umani, sono costretti ad intervenire direttamente in simili accadimenti necessitati da imperscrutabili rivelazioni mitiche. Si generano, così, possibili inversioni di gerarchie e di ruoli nell’universo mitico-rituale, rinvenibili in comunità umane transitanti dallo stato nomade a quello sedentario e viceversa, dovute, inevitabilmente, ai mutamenti di status economico-sociale indotti sia da alterazioni dell’ecosistema che da semplici scelte culturali collettive.



1 R. PETTAZZONI, L’onniscienza di Dio, ed. G. Einaudi, Torino 1955.

2 Virgolette mie.

3 R. PETTAZZONI, L’Essere supremo nelle religioni primitive, ed. G. Einaudi, Novara 1957, p. 190.

4 Ibid., p. 191.

5 È opportuno precisare, in ogni modo, che le figure potenti, in generale, fruiscono di luce propria, teofanicamente, e non l’attingono da fonti esterne, come accade ai corpi cosiddetti naturali che, costituiti come sono, secondo salde convinzioni elleniche ed occidentali, di un nocciolo materico, oscuro e impenetrabile, sogliono “adombrarsi” necessariamente quando ricevono, riflettendola, la luce dall’esterno.

6 K. JETTMAR , «Body-painting and the Roots of the Scytho-Siberian Animal Style», in The Archaeology of the Steppe. Methods and strategies, edited by B. Genito, Istituto Universitario Orientale – Dipartimento di studi asiatici – Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente, Napoli 1994, p. 3 (d’ora in avanti Archaeology).

7 A. LEROI-GOURHAN, Le religioni della Preistoria. Paleolitico, tr. it. di E. Klersy Imberciadori, ed. Adelphi, Milano 1993, pp. 110 e ss.; cfr., anche, dello stesso Autore “Una foresta di simboli”, in Miti e riti della Preistoria. Un secolo di studi sull’origine del senso del Sacro. Fonti scelte,  a cura di F. Facchini e P. Magnani, ed. Jaca  Book, Milano 2000, p. 225.

8 L’ermeneutica storico-antropologica che impiega concetti mutuati dalla cultura è di gran lunga preferibile a quella che usa concetti presi a prestito dalla fisiologia degli esseri viventi, date l’estraneità di queste categorie rispetto ai dati e la nota, crescente, preponderanza della cultura rispetto alla natura nella storia di homo.

9 I nomadi, del resto, si sono spesso sovrapposti come aristocrazia dirigente alle popolazioni sedentarie da loro invase.

10 Il pastoralismo procede, direttamente, dal neolitico contadino e non già, indirettamente, dalla cultura paleolitica e mesolitica dei cacciatori ; cfr. JANOS HARMATTA, «Nomadic and Sedentary Life in the Great Steppe-Belt of Eurasia», in Archaeology, p. 565. Del resto, nelle aride steppe l’agricoltura era necessariamente possibile solo se confinata nelle valli dei fiumi, ove l’irrigazione dei campi coltivati dissetava la terra. Tutto il restante territorio era nettamente destinato all’allevamento nomadico estensivo e, quindi, all’inevitabile dispersione delle comunità sul territorio. Solo nelle steppe umide e ricche di foreste della fascia euroasiatica era possibile coltivare i campi ed allevare le mandrie, contestualmente, nella medesima area (ibid., 565-566).

11 Per i sedentari mesopotamici i nomadi sono, ad es., “il nulla che viene dal deserto”.

12 MIKHAIL I. GLADKIH, NINELJ L. KORNIETZ  E  OLGA SOFFER, «Abitazioni di ossa di mammut nella pianura russa», Le Scienze, n. 197, gennaio 1985, pp. 82 e ss.

13 Cfr., in tal senso, M. SAHLINS, L’economia dell’Età della Pietra. Scarsità e abbondanza nelle società primitive, tr. it. di L. Trevisan, ed. V. Bompiani, Milano 1980.

14 Tale termine antropologico allude al tipo di reggimento di una comunità non divisa per classi sociali e priva di istituzioni centralizzate, ma funzionante secondo un sistema gerarchico fondato sulla parentela, così che i membri più prossimi al capo occupano le posizioni più elevate ; cfr. PAVEL M. DOLUKHANOV, «The North-Pontic Steppic Corridor in Late Prehistory: Ecology, Economy and Cultural Interaction», in Archaeology, pp. 545-546; ZHANG ZENGQI, «Again on the Influence and Diffusion of the Scythian Culture in the Yunnan Bronze Age», in  Archaeology, p. 667.

15 Una lezione, questa, che qualche studioso tenderebbe a ridimensionare (cfr. M. CATTANI, «Il Kirghisistan e le culture dell’età del Bronzo nell’Asia Centrale», in Pastori erranti dell’Asia. Popoli, archeologia e storia delle steppe dei Kirghisi, a cura di B. Genito, ed. Electa Napoli srl, 2002, pp. 78-80. Anche GIOVANNI B. LANFRANCHI nel suo documentato e argomentato I Cimmeri. Emergenza delle élites militari iraniche nel Vicino Oriente (VIII- VII sec. a.C.), ed. Sargon srl, Padova 1990, contesta l’immagine tradizionale dei Cimmeri come un’etnia nomadica e aggressiva dedotta aprioristicamente dalla sue presunte povertà e mobilità (pp. 3 e ss. p. 5). Tuttavia, se la lezione dei Cimmeri come popolo invasore e devastatore (pp. 129 e ss., p. 195) è, in una certa misura, smentita dalla realtà storica della cooperazione delle loro élites con funzioni militari e, probabilmente, economiche presso gli Assiri, gli Urartei e i Frigi, è ben vero che tali inglobamenti non c’illuminano sulle condizioni economiche e sociali delle comunità di provenienza, certamente viventi, ostilmente o pacificamente, alle periferie ( pp. 7-8) degli imperi e dei regni asiatici, che, come si evince dalla relativa documentazione, sembrano soggiornare in villaggi retti da capi (probabili chefferies), propri di una condizione per lo meno seminomade (p. 200, p. 203).

16 BORIS  F. ZELEZCIKOV, «Sarmatians as Nomads», in Archaeology, pp. 255-256.

17 THOMAS S. NOONAN, «What can Archaeology tell us about the Economy of Khazaria», in Archaeology, pp. 336-337.

18 BURCHARD BRENTIES, «Climatic Changes and Nomadization in Central Asian Ecology of the Steppes and Economy», in Archaeology, p. 489;  MARINA G. MOSKOVA, «On the Nature of the Similarity and Difference in the Nomadic Cultures of the Eurasian Steppes of the 1st Millennium BC», in Archaeology, p. 237.

19 VLADIMIR A. BASHILOV, «“Scytho-Siberian Cultural-Historical Unity” in the context of the “Cultural Horizon” Archaeological Phenomenon», in Archaeology, p. 248.

20 SANDOR BOKONYI, «The Role of the Horse in the Exploitation of  Steppes», in Archaeology, p. 17, pp. 24-26. L’autore attribuisce la conquista della steppa erbosa al cavallo montato e non al carro che ritiene connesso, piuttosto, a comunità sedentarie, a città e, quindi, a regni veri e propri.

21 Significativa, ad es., l’associazione, di potente valore cosmico, tra lo sciamano e l’uccello acquatico che unifica in sé, contestualmente, la terra, l’aria e l’acqua. Cfr. MIKLOS ERDY, «An Overview of the Xiongnu Type Cauldron Finds of Eurasia in three Media, with Historical Observations», in Archaeology, p. 391.

22 COLIN RENFREW, L’énigme indo-européenne. Archeologie et Langage, tr. francese di M. Miech- Chatenay, ed. Flammarion, Manchecourt 1990, p. 162; BURCHARD BRENTIES, op. cit., 489-493.

23 MARIO A. LEVI, «The Scythians of Herodotus and the Archaeological Evidence», in Archaeology, p. 634.

24 ISTVAN  ECSEDY, «Camps for Eternal Rest – Some Aspects of the Burials by the Earliest Nomads of the Steppe», in Archaeology, pp. 169-171.

25 CHIARA SILVI ANTONINI, «On Nomadism in Central Asia between the Saka and the Xiongnu: the Archaeological Evidence», in Archaeology, p. 291.

26 Si può considerare, certo, maggioritaria, ma non esclusiva, la teoria di M. Gimbutas, avanzata nel 1970, che la cultura dei Kurgan, unitamente a quella della ceramica a corda e a quella dell’anfora globulare (II millennio a. C.) sia stata il probabile foyer dei popoli indoeuropei a partire dal V millennio, cioè tra il Neolitico finale e il Calcolitico (cfr. I. LEBEDYNSKY, op. cit., p. 63, p. 65).

27 MARINA G. MOSKOVA, op.cit., p. 232.

28 G. Leopardi, com’è noto, ha saputo rievocare magistralmente nel suo celebre Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, composto a Recanati nel 1830, il costume del pastore della steppa asiatica, di cui possedeva evidentemente precise nozioni, di intonare canti spontanei alla luna.

29 DZUMALY M. MOMUNKULOV, DZUMALY DZ  DZJUNUSALEV, “Introduzione”, in Pastori erranti dell’Asia, op. cit., p. 15.

30 BAKYT E. AMANBAEVA, BATMA A. ABASKANOVA, «La cultura sedentaria del Kirghisistan meridionale», ibid., p. 32, p. 38. Cfr. anche CHIARA SILVI ANTONINI, op. cit., p. 293, pp. 297-298.

31 LEONID  T. JABLONSKIJ, «The Early Cattle-Breeders of the South-Aral Area: Culture, Craniology, Language», in Archaeology, pp. 365-366.

32 Ibid., p. 364.

33 VLADIMIRA G. PETRENKO, «On the Interpretation of Early Scythian Sites in Central Ciscaucasia», in Archaeology, p. 350.

34 Ibid., p. 350.

35   NATAL’JA  L. CLENOVA, “On the Degree of Similarity between Material Culture Components within the “Scythian World”, in Archaeology, p. 518.

36 ANATOLIJ  MARTYNOV, «The “Scytho-Siberian” World of Eurasia as a Steppe Cattle-Breeding Civilization of  7th -6th Centuries BC», in Archaeology, pp. 646-647.

37 G. LOMBARDO, «Influssi vicino-orientali sull’arte del Kuban», in Vicino Oriente e Caucaso, supplemento al catalogo I tesori dei kurgani del Caucaso settentrionale, Leonardo-De Luca Editori, Roma 1990, p. 36.

38 Se ciò è vero, è evidente che non sarà possibile intendere come arte e tanto meno, poi, qualificare questa come“ astratta o simbolica”, un simile  patrimonio fabbrile. Esso appare privo, del resto, anche di una funzione meramente ornamentale.

39 «I miei giovani non dovranno mai lavorare. Gli uomini che lavorano non possono sognare; e la saggezza viene a noi dai sogni.
Mi chiedete (voi bianchi) di arare il suolo. Devo prendere un coltello e lacerare il petto di mia madre? Se faccio questo, quando morirò non mi riceverà nel suo seno per farmi riposare.
Mi chiedete di scavare per trovare pietre. Devo scavare sotto la sua pelle per cercare le sue ossa? Se faccio questo, quando morirò non potrò entrare nel suo corpo per nascere di nuovo.
Mi chiedete di tagliare l’erba e farne fieno per venderlo e diventare ricco come l’uomo bianco. Ma come posso io osare di tagliare i capelli a mia madre ?»
Tali considerazioni che ci giungono dagli Aborigeni canadesi riflettono esemplarmente le ragioni più comuni della cosmovisione nomadica (T. C. McLUHAN, Touch the Earth. A self-portrait of Indian Existence, ed. Simon & Schuster, New York, London, Toronto, Sidney, Tokyo, Singapore 1971, p. 56, cit. da R. MELILLO, Tutuch (Uccello tuono). A colloquio con gli Aborigeni del Canada, ed. Mephite srl., Atripalda 2004, pp. 89-90.

40 Cfr. la voce “Profeti e profetismo” in Enciclopedia delle religioni, vol. IV, ed. Vallecchi, Firenze 1972, col. 1853.

41 Theogonia, vv. 504-505.

42 Si noti l’indole celeste con subalternità ctonia di simili draghi, non diversamente dalle Sirene, demoni alati ctoni, divenute incomprensibili e, quindi, fatalmente sinistre, che cantano, in realtà, al limitare dell’Ade, sull’estremo Occidente, non per sedurre ed uccidere i viandanti, come la tradizione omerica, fraintendendole,  vuole, ma per accompagnare pietosamente con il loro canto i defunti nell’Al di là, in qualità di figure psicopompe.

43 Oltremodo diffusi lungo la cintura euroasiatica, con una duplice funzione rituale e profana, tali calderoni sono, a mio avviso, di remota origine asiatica.

44 K. KERENYI, Figlie del Sole, ed. G. Einaudi, Torino 1949, p. 70.

45 Cfr. BURR CARTWRIGHT BRUNDAGE, El Quinto Sol. Dioses y mundo azteca, ed. Diana, Mexico, p. 21.

46 Ibid., p. 24.