Domenico Antonino Conci

LE SOGLIE DEL CIELO

Per un’ermeneutica fenomenologica

 

          “Alzo gli occhi verso i monti: da dove mi verrà l’aiuto ?”1 Questi strani versetti, appartenenti ad un Canto delle ascensioni, intonato probabilmente dai pellegrini in cammino verso Gerusalemme, e raccolto insieme agli altri salmi nel salterio, cioè nel libro dei canti del Tempio e delle sinagoghe, sogliono intendersi come formule devozionali dal simbolismo stereotipato, ricorrenti, insieme con altre similari, più o meno frequentemente, nella cosiddetta lirica religiosa ebraica esilica e postesilica. Del resto, la riduzione ermeneutica alla figura della metafora e del simbolo delle più ardue stravaganze etniche in cui ci s’imbatte, che vengono in tal modo sbrigativamente devolute all’innocuo ed evasivo universo della poetica e della retorica è, com’è noto, un espediente ampiamente praticato in Occidente da una scienza demo-etno-antropologica tesa a placare, prima possibile, il puntuale, irresistibile e malcelato disagio indotto sempre dall’alterità etnica, in particolare, poi, da quella sacrale, sempre più enigmatica a causa della secolarizzazione, piuttosto che a scovare con fatica e con coraggio, nuotando nella stravaganza, “le vere ragioni degli altri”. Ma, se è indubbio che un’interpretazione letterale e propria del luogo in questione non consente di comprendere come una montagna in quanto tale, cioè come mera entità geologica, possa essere invocata a fini salvifici, è tuttavia altrettanto ovvio che l’opposta lezione del “come se”, che dissolve tutto nel retorico e nell’estetico, non è, tuttavia, in grado di spiegare come un tropo possa soccorrere cose e persone, sottraendole, di fatto, alle distruzioni e alle tribolazioni in cui versano. Nelle culture a fondamento sacrale, queste abbisognano non già di “metafore felici”, ma della presenza reale ed efficace, quindi letterale e propria, di figure potenti salvifiche che, invocate cerimonialmente nei riti piccoli e grandi perché intervengano appena possibile, devono, di fatto, irrompere, per così dire, “in carne ed ossa”, se decidono di farlo, proprio negli spazi e nei tempi abitati quotidianamente dagli uomini. Non sembra, allora, possibile alcun apprezzabile progresso interpretativo con un’ermeneutica tradizionale, articolata nella lettera o nel tropo, mentre è frattanto emersa, qui, di norma ignorata e inattesa2, un’incompatibilità singolare tra il dominio dell’estetico e quello del Sacro, che, in ogni modo, dovrebbe essere investigata, prima o poi, fino in fondo, impiegando metodiche adeguate al caso in questione. Queste, a mio avviso, dovrebbero appellarsi alla tecnica analitica di un’antropologia fenomenologica d’indole contrastiva.3

          In verità, tale particolarità metodologica vale in generale per qualunque analitica di stile postmoderno, sensibile al principio critico radicale secondo cui, di fronte ad un’interpretazione qualsivoglia, piuttosto che procedere direttamente alla valutazione dei dati, occorre prendere coscienza e valutare piuttosto e anzitutto la prospettiva metodologica, storica, ideologica dell’analista o dell’interprete. Nelle cosiddette scienze umane, poi, e, in particolare, nelle scienze demo-etno-antropologiche, dove si ricerca il senso delle ragioni degli altri, tale prescrizione metodologica dovrebbe essere spinta a livelli di massima profondità e, soprattutto, in direzione autoreferenziale, onde evitare che l’antropologo culturale valuti il senso degli altri proiettando su di loro – lo voglia o no - il senso di casa propria, seguendo, in ogni modo, un comportamento del tutto fisiologico da parte di ogni indigeno messo di fronte a qualunque cultura che gli è aliena. Così, per aggirare l’ostacolo rappresentato dall’impossibilità di evadere dalla propria cultura, è consigliabile ed auspicabile che l’interprete sospenda ogni credenza, per altro divenuta poco sostenibile, nell’assolutezza e nell’esclusività dei principi e delle categorie fondanti la cultura d’appartenenza e, in tal modo, senza più proiettarli su quelli degli altri, come suole farsi quando li si ritiene ovvi, li accosti semplicemente ad essi per poterli così saggiare, soppesandoli insieme, poi, senza presupporre identità o analogie di sorta, valutando in prima istanza per contrasto le ragioni degli altri alla luce di quelle nostre e viceversa.

          Gli aspetti e le funzioni dei rilievi montuosi nei deserti e nelle steppe dell’Oriente vicino e lontano sono troppo noti e diffusi, anche presso i non specialisti, perché ci si debba soffermare a giustificare la debole eco di remotissimi culti montani che, dopo aver traversato i millenni, ancora risuona nel nostro salterio, permanendo nei cuori e nelle menti di un popolo devoto divenuto da tempo estraneo a tutto ciò, perché ormai da tempo sradicato, sedentario e cittadino. L’archeologo, l’epigrafista, il filologo e lo storico della Terra Santa sono tutti ragionevolmente indaffarati a perseguire, di là dalla pesante ideologia biblica4 , la plausibilità oggettiva o meno di importanti eventi biblici come, ad esempio, quello delle supposte origini meridionali di Yahweh lungo il filo delle antichissime tradizioni eneolitiche di tribù nomadi o seminomadi transumanti, accampati ai piedi dei loro santuari montani in quel territorio “rarefatto”tra l’umida terra d’Egitto e la Palestina ove “scorrono latte e miele”, a ridosso di quell’epocale crisi di transito dal Tardo Bronzo all’Età del Ferro che, in un’area tanto vasta da comprendere l’intero Mediterraneo Antico Orientale – segnalata come la più culturalmente ibridata in assoluto del pianeta – avrebbe, poi, assistito alla nascita del cosiddetto monoteismo e, poco distante, sarebbe maturato quel tipo inaudito di cultura qualificata come “occidentale”, cioè “non più orientale”. Più convincente, in ogni modo, appare agli scienziati, almeno nelle attuali condizioni delle ricerche scientifiche, la tesi dell’indole tardiva e “mitica” del racconto delle origini pastorali d’Israele, proiettato per ragioni ideologiche in un remoto passato e immaginato a rianimare e a risignificare, sia pure con qualche referente reale, il tempo d’oro di tribù nomadiche e seminomadiche che vivevano ancora nelle tende, faticosamente fedeli ad un Dio celeste lento nell’ira e rapido nel perdono, aniconicamente presente in quel celebre Tabernacolo mobile che soleva precedere le tribù in marcia per guidarle e per proteggerle durante i loro lunghi e di solito pericolosi spostamenti.

          Un mito, dunque, nient’altro che un mito, allora, sarebbe la grandiosa narrazione dell’Esodo, e, di certo, non solo questa. L’intera Bibbia, in tal caso, alla luce implacabile di una pur legittima e doverosa operazione archeologica e storiografica, in linea con un collaudato razionalismo scientifico che non escluderebbe, comunque, la presenza nelle narrazioni di alcuni nuclei di realtà ”naturale” e “storica”, si risolverebbe inevitabilmente in un centone di racconti mitici, in gran parte inventati in epoca esilica e postesilica e proiettati, quindi, in un remoto e nebuloso passato per fondare, legittimare e celebrare l’etnogenesi miracolosa di un piccolo popolo circondato da imperi invero troppo potenti, che, del resto, per ingenuità o per dolo, li avrebbe vissuti e intesi, in ogni modo, come il racconto autentico delle proprie origini. Certo, la Bibbia è notoriamente un libro sacro, importante al punto da costituire addirittura la pietra angolare delle tre grandi religioni abramitiche, quelle monoteistiche. Ma la sua suprema sacralità, beninteso, non risiede in alcun modo nell’indole più o meno mirabolante dei contenuti testuali ivi espressi, che, ad onor del vero, difficilmente potrebbero essere distinti dai comuni soggetti delle favole e delle saghe di cui è pieno l’universo delle culture di tutti i tempi, ma dalla natura particolarissima del contesto che ha vissuto, inteso e tramandato la Bibbia come opera rivelata da Dio e non come frutto della libera invenzione dell’ingegno umano. È, questo, un tema che, essendo dato per scontato e, quindi, per ovvio, non è, ormai, più pensato fino in fondo, specialmente in rapporto con l’universo non rivelativo, egemone in Occidente,costituito dalle manifestazioni fenomeniche, diventando, in tal modo, un argomento desueto e, persino, trascurato, mentre, come si vedrà, costituisce per la fenomenologia un motivo di tale rilevanza epistemologica da imporre, una volta ripreso in tutta serietà e sottoposto ad un’adeguata analisi, la revisione non solo dell’universo delle manifestazioni in generale, ma anche di alcuni aspetti del metodo fenomenologico medesimo.

          L’ibridismo culturale tra l’ellenismo e il semitismo, in altre parole tra un logos privo di avalli rivelativi di sorta che ha elaborato principi e categorie funzionali all’ordinamento e alla descrizione dei dati fenomenici, onde surrogare, in tal modo, l’iniziale crisi della cultura mitico-rituale antica, occorsa durante l’Età del Ferro nel Mediterraneo Orientale, ed un pensiero basato, invece, sulle Sacre Scritture e sulla Tradizione e quindi su dati indiscutibilmente rivelativi, ha indotto l’Occidente cristiano ad escogitare la nota distinzione tra la conoscenza della ragione umana (cosiddetta “naturale”) e quella peculiare della fede5, generando, in tal modo, di necessità, scissioni, disarmonie e conflitti che, nonostante gli sforzi reiterati, ormai millenari, da parte della Chiesa, non si sono mai placati nell’armonia fondamentale, nella desiderata reductio ad unum della conoscenza filosofica e scientifica con quella della fede.6 Esiste, tuttavia, un noto tema verso il quale la “sapienza dei Gentili” e quella semitica, la ragione cosiddetta naturale della filosofia e della scienza e quella della fede nella Rivelazione e della Chiesa convergono risolutamente. Alludo alla mitofobia che, come si vedrà, li accomuna intimamente, sebbene tale ideologia ormai ultramillenaria si sia generata e si sia consolidata in Occidente alimentandosi da fattori culturali alquanto eterogenei. Un Dio geloso e talmente esclusivo da presentarsi come unico e come veramente vivente gestisce un piccolo popolo costretto a sopravvivere in un’area politeistica segnata per secoli dai più imponenti ibridismi etnici e cultuali del nostro pianeta, a ridosso dei primi imperi del mondo allora conosciuto, e un inaudito protoilluminismo razionale, critico e creativo, nato nelle poleis delle colonie e della Madrepatria elleniche come logos surrogatorio del sistema mitico-rituale entrato in una crisi di senso non voluta, hanno mistificato del tutto le rivelazioni degli altri, quelli del Vecchio Mondo e dei Nuovi, sfigurandole nel mero mondo di racconti inverosimili, in un’accozzaglia di favole in libertà, “che possiamo immaginare come mera invenzione poetica o come una verità deformata di un sistema filosofico o teologico sgangherato”7, bollandoli con un termine semanticamente tanto malsicuro quanto immarcescibile, cioè come “mythoi”, e qualificando, poi, i riti corrispondenti che, come dròmena, riattivavano i miti, quali comportamenti “superstiziosi” e “magici”degni solo dell’ignorante credulità popolare. Resta, ovviamente, un mistero antropologico come sia stata possibile la sopravvivenza fisica e psichica, per decine di migliaia di anni, di comunità umane in balìa di storielle inventate di sana pianta e tuttavia ritenute scioccamente cogenti e non gratuite, ridicolmente vissute nei rituali come efficaci e non del tutto vane.

          Solo un’analisi fenomenologica radicale che, tematizzando l’universo generale delle manifestazioni, scopre, anzitutto, l’importante differenza fenomenologica tra il fenomeno e la rivelazione, invisibile di norma alle analitiche extrafenomenologiche, può portare alla luce la loro inaudita alterità reciproca, relativa ai dati e alle strutture di senso (spazio, tempo, logica)8 di cui essi sono costituiti, sollevando, in tal modo, seri dubbi sulla plausibilità di alcune convinzioni fondamentali, divenute da tempo veri e propri luoghi comuni, che operano nascostamente alle radici della problematica in esame. È smentita, anzitutto, la nota sinonimia occidentale tra rivelazione e rivelazione sacrale, ove il termine “rivelazione” che, usualmente appare vergato con l’iniziale maiuscola, intende essenzialmente le Sacre Scritture e nient’altro.9 Per la fenomenologia, infatti, il dato rivelativo – a differenza del dato fenomenico che implica sempre il vissuto di una coscienza egocentrata, relativamente libera di pensare e di agire - è rinvenibile allo stato originario solo nei vissuti di una coscienza impersonale, cioè priva dell’io, che, stando in postura rivelativa, vive e pensa se stessa e il mondo nella disponibilità a priori di poter ricevere senso ed esistenza solo ed unicamente da qualcosa collocata di là da se medesima. Nulla di sacrale, quindi, trovasi implicito nella manifestazione rivelativa in quanto tale che si schiude all’analisi fenomenologica come un generalissimo modo teorico-pratico di stare al mondo da parte dell’uomo, implicante il vissuto elementare dell’impotenza di homo, protrattosi in maniera esclusiva per decine di millenni, almeno fino alla crisi iniziale di tale postura nell’area del Mediterraneo Antico Orientale, durante l’avvio della prima Età del Ferro. L’avvento della manifestazione fenomenica10 in tale transito culturale segnerà subito e definitivamente quelle origini dell’Occidente che inaugureranno e demarcheranno per l’uomo un modo di stare al mondo e di intenderlo d’indole incommensurabile rispetto a qualunque altro e precedente statuto antropologico.

           Sebbene, ora, lo stato rivelativo non sia per la fenomenologia la condizione sufficiente perché il Sacro si manifesti, esso costituisce, tuttavia, la condizione necessaria di ogni possibile manifestazione potente, cioè sacrale, perché l’appello generale al Sacro sorge necessariamente da quel particolare stato d’impotenza proprio del vissuto di una coscienza impersonale, una condizione del tutto assente nei vissuti egocentrati delle manifestazioni fenomeniche. La condizione essenzialmente insatura del dato fenomenico, infatti, è destinata ad alterare e a snaturare profondamente il rapporto originario tra l’uomo e la datità sacrale, che resta ambiguamente assunto e pericolosamente coinvolto – lo si voglia o no - in problematiche affini a quelle di norma rinvenibili nella gnoseologia e nell’epistemologia del pensiero profano d’Occidente. La comparsa di una coscienza egocentrata, infatti, innesta inevitabilmente un attivismo cognitivo ed esistenziale d’obbiettivazione a partire dal soggetto, che è profondamente estraneo alla coscienza che vive e pensa in postura rivelativa. La polarità dell’io nel vissuto oggettivante, con cui l’Occidente ha dovuto allestire un’area di libertà e d’autonomia all’interno dell’universo immanente della coscienza intenzionale per poter svolgere le necessarie e complesse operazioni volte alla saturazione generale del carente universo fenomenico, confligge intimamente con il nocciolo cratofanico di qualunque ierofania perché è proprio l’intrinseca potenza assoluta ed imperialistica caratterizzante il Sacro a ritrovarsi in tal modo inevitabilmente ridimensionata, marginalizzata, quindi depotenziata, se si rapporta con la coscienza personale dell’Occidente che non è funzionalmente votata alla postura rivelativa. Come già notato, la manifestazione rivelativa per potersi dare in modalità integralmente sature e occupare, senza resti, la totalità di una coscienza con datità ontologicamente iperreali11, cioè prive di rinvii di sorta verso orizzonti “trascendenti”, proiettati al di là e/o di là dal campo manifestativo, esige una coscienza in postura rivelativa priva della polarizzazione soggetto-oggetto.12

          È, allora, evidente che mentre per una coscienza in postura fenomenica la presenza di fattori specifici rende necessaria e addirittura urgente l’emergere di un’ideologia della libertà, per quella in postura rivelativa una tale ideologia sarebbe immotivata, gratuita e, in definitiva, del tutto incomprensibile. In entrambe le posture, comunque, la fenomenologia scopre l’esistenza di stati intenzionali costrittivi fondamentali, anche là dove la cultura occidentale ha supposto la possibilità trascendentale di scelte libere e consapevoli. Ma, se tale dinamismo generale dovrebbe essenzialmente riscontrarsi solo a carico di un soggetto di fronte ad un plesso di manifestazioni fenomeniche da saturare necessariamente, non ha per la fenomenologia alcun motivo essenziale, ma solo fattuale, dovuto, cioè, ad ibridismi culturali noti, l’idea che in un contesto palesemente rivelativo d’indole sacrale, fonte di verità e verità esso stesso, l’uomo dovrebbe donare con la fede il suo assenso o negarlo con il suo dissenso alle testimonianze divine.13 Ma se è vero che “se si toglie l’assenso, si toglie la fede, perché senza l’assenso non si crede affatto”14, come riteneva S. Agostino, è lecito domandarsi come sia possibile che in universi culturali a fondamento sacrale ove lo statuto di senso e d’esistenza dipendono totalmente dalla presenza salvifica quotidiana del Sacro nel mondo profano, e la coscienza vive e pensa stando “abbandonata” in postura rivelativa, ci siano le condizioni elementari per una scelta libera e consapevole da parte di singoli di dare o negare l’assenso (fede) ai contenuti della rivelazione sacrale. Nei sistemi mitico-rituali i cui vissuti sono coscienze intenzionali in postura rivelativa, privi di ego, per le quali i pensieri, i sentimenti e le volizioni sono intese e vissute non come atti di un io, ma solo e sempre come imposti o elargiti da entità estranee alla coscienza, non sussiste spazio esistenziale alcuno in cui la pistis, che è inequivocabilmente soggettiva e resta relata al mondo delle sensazioni, secondo il noto schema platonico, possa ritagliarsi un ruolo autonomo e svolgere attività indipendente nei confronti dei dati rivelativi sacrali che, come si vedrà, sfuggono per la fenomenologia alla polarità aisthetòn-noetòn. Essa, in definitiva, è sempre una qualità dell’uomo, cioè delle sue parole e delle sue azioni, e non è mai qualcosa che si riferisce ad un attributo di Dio.15 Pertanto, solo la condizione satura di principio del dato rivelativo e, quindi, la sua iperrealità, presenta quelle condizioni di affidabilità cognitive ed esistenziali di base affinché il Sacro, possa, se vuole, manifestarsi a pieno titolo come esibizione potente, elargendo, quale cratofania, all’uomo e al mondo ciò di cui essi, in quanto profani, cioè, impotenti, sono privi, vale a dire l’esistenza e il senso. È, conclusivamente, evidente, allora, che temi soggettivi quali la teoria dell’assenso e della fede, insieme alla dottrina dell’intellectus fidei16, tutti esiti di noti ibridismi culturali, nel clima tipicamente occidentale della riduzione fenomenistica della manifestazione, nel senso fenomenologico già chiarito, sono tutti fatalmente destinati a ridurre e ad indebolire il peso semantico della dimensione rivelativa al punto da smarrire progressivamente la differenza fondamentale che pure esiste tra questa e l’universo fenomenico, tra la rivelazione profana17 e quella sacrale e l’indole necessaria sebbene non sufficiente della manifestazione rivelativa per qualunque ierofania come manifestazione potente.18

          Abbandonando, ora, i rilievi fenomenologici di base, esposti, di necessità, molto sinteticamente, è possibile procedere ora verso analisi specifiche sul tema in questione, tirando tutte le possibili conseguenze da quanto fenomenologicamente è frattanto via via emerso. Tutte le rivelazioni potenti (nel senso fenomenologico chiarito), quindi quelle sacre e non profane, con qualsivoglia supporto materiale esse siano veicolate – narrate, cantate, danzate, figurate, scritte etc. che siano  possono essere denominate “mythoi”, nonostante la grave equivocità semantica del pur insostituibile termine greco, precisando, intanto, che tutte le religioni si sono basate e si baseranno sempre e necessariamente su rivelazioni assunte come potenti, cioè come sacrali, e non su divagazioni letterarie. Tuttavia l’inverso non è fenomenologicamente vero: non tutti i mythoi sono, malgrado contrarie apparenze, rivelazioni potenti, perché sono individuabili come miti autentici solo quelli che trattano di ierofanie e di eventi ierofanici che sogliono riattivarsi – ora come allora – in riti (dròmena) corrispondenti, celebrati in spazi e in tempi dèbiti seguendo rigorosi cerimoniali, rivelati essi stessi e non liberamente inventati. Diversamente si tratta di mera letteratura, ad es. filosofica, poetica, favolistica, cronachistica etc. da valutare, tuttavia, solo con le dovute cautele, come tale.19 In ogni modo, ciò che occorre e basta ai singoli e alle collettività per sopravvivere in qualunque universo culturale basato sul Sacro è l’allestimento urgente di un sistema mitico-rituale perfettamente funzionale ai bisogni fisici e psichici di una comunità umana e, seguendo tale direzione interpretativa, i miti sono da intendere come paradigmi cognitivi ed esistenziali, in altre parole come modelli percettivi, affettivi, valutativi, operativi, elargiti e garantiti da figure potenti, ricevuti e conservati poi gelosamente, così come sono stati rivelati, sotto la protezione di divieti e di tabu ne varietur, onde trasmetterli integri ai nuovi nati mediante l’inculturazione. Poiché senza di questa un primate, sebbene nato da donna, non potrebbe sopravvivere, è evidente che là dove una comunità umana dipende totalmente da un sistema mitico-rituale riconosciuto dalla tradizione, è assurdo ritenere che tale sistema possa essere il frutto di una libera e spontanea attività creatrice e inventiva da parte dell’uomo e venga geneticamente consaputo come tale non solo dall’antropologo dei nostri giorni, ma anche dagli stessi indigeni. Se ciò fosse vero e non fosse invece solo l’esito ermeneutico dell’umanesimo nichilista della postmodernità, come ritengo, è lecito domandarsi quale affidabilità potrebbe mai scaturire da contenuti e da valori geneticamente così precari e gratuiti, che tanto più salda dovrebbe essere se si pensa che essi pretenderebbero di svolgere il compito gravoso di fondare, di legittimare, di identificare e di assistere, soprattutto nelle traversie più gravi dell’esistenza, un popolo intero? Umano, troppo umano tutto questo.

          La più grandiosa narrazione biblica è, certamente, quella dell’Esodo e in essa giganteggia, riecheggiando potentemente ancora oggi, l’episodio enigmatico della Montagna di Dio. Ma ciò che si presenta come l’evento fondamentale dell’etnogenesi di un popolo, cioè d’Israele, appare allo sguardo dell’archeologo, dello storico, del filologo del Vicino e del Medio Oriente Antichi molto poco “affidabile”. Anzitutto non sembra plausibile l’esegesi che fissa l’epoca dell’Esodo nel XIII e XIV secolo a. C., malgrado la sicura esistenza di un remoto culto degli antenati proprio della condizione nomadica e seminomadica in generale, da rendere ammissibile20 quell’età remota dei cosiddetti Patriarchi extraurbani, ricettori delle Rivelazioni come Abramo, Isacco e Giacobbe, scandita da significative transumanze non sempre pacifiche dai campi estivi, sugli altipiani centrali, a quelli invernali, nel Negev, e viceversa, tutti siti segnati ancora da simboli inequivocabili di culti pastorali. È, insomma, difficile sostenere “l’ipotesi che i racconti dei Patriarchi rappresentano un quadro autentico delle migrazioni degli antenati degli Ebrei, avvenute ad un dato momento nel Bronzo Medio e che l’occupazione della Palestina da parte degli Ebrei sia avvenuta verso la fine del Bronzo Tardo, per la quale i successivi resoconti delle imprese di Giosuè costituiscono una fonte autentica”.21 Molto incerta, inoltre, è l’individuazione della reale rotta percorsa dagli esuli nel tormentato perimetro dei transiti millenari dall’Africa all’Asia, dal Delta del Nilo alla Palestina, con il portentoso passaggio del Mar Rosso o del Mar delle Canne (Yam Suf), e della concreta sequenza delle tappe fino all’accampamento fatale ai piedi del Sinai, di quella misteriosa Montagna di Dio che, a causa di un tabu, sarebbe stata scalata, secondo la tradizione, solo dal profeta Elia, dopo Mosè, e di cui si sarebbe “stranamente smarrita”, da parte delle successive generazioni, la certezza della sua ubicazione. Una mancanza imperdonabile, questa, perché sarebbe di una gravità inaudita, data l’assoluta autorevolezza del sito, se si fosse trattato – il che non è – semplicemente di una colpevole trascuratezza. Intanto, “Mosè non è mai citato (a parte un passo di Michea 6:4 che è però di assai dubbia autenticità) prima dell’età postesilica; e anche il Sinai è citato solo un paio di volte (Giud. 5:5; Sal. 68) ma senza collegamento al patto tra Dio e popolo”.22

          Har Karkom (Monte dello Zafferano), una montagna a forma d’altopiano, che domina il deserto Paran a m. 847 s.l.m., posta nel Sinai nord ai confini di Amalek e Madian, è stato oggetto dal 1980, insieme con importanti siti viciniori, di intense ricerche archeologiche per opera di una missione del Centro Camuno di Studi Preistorici, i cui risultati, coniugati con analisi geografico-storiche ed esegetiche, avrebbero indotto il Direttore Emmanuel Anati a proporre l’ipotesi della identificazione di Har Karkom con il biblico Monte Sinai di Mosè.23 A differenza della celebre cima cui fu dato il nome di Jebel Musa o Montagna di Mosè, nel sud del Sinai, ai cui piedi l’imperatore Giustiniano fece costruire nel VI sec. d.C. il celebre Monastero di Santa Caterina, Har Karkom testimonia con abbondanti testimonianze archeologiche (ben trecento siti assai particolari), già a partire dal Paleolitico Superiore, una frequentazione devozionale significativa di un sito indubbiamente importante perché dominava un tempo ampi territori di caccia, per l’esistenza di acque sorgive, di vita vegetale, di giacimenti di ottima selce con presenza in situ di ateliers di taglio. Un luogo ideale, insomma, per i pastori nomadi o seminomadi che amavano muoversi lungo la periferia della fertile Mezzaluna, dalla Mesopotamia all’Egitto, per accamparsi e far svernare le greggi sotto la protezione del Monte, come testimoniano, del resto, a partire dal Calcolitico (Antica Età del Bronzo, cioè nel III millennio), resti di strutture abitative di una popolazione cospicua ai piedi dell’altopiano e luoghi di culto, persino antichissimi, in cima ad esso. Cippi, menhir, dodici ortostati, come le stele erette da Mosè (massebot), insieme ad un altare, in nome delle dodici tribù voventi d’Israele24, quaranta grandi noduli di selce, approssimativamente antropomorfi e zoomorfi per bizzarrie della natura, di cui alcuni ritoccati da preistoriche mani umane per suggerire occhi e narici e una grotticella in cima che induce ad evocare irresistibilmente gli episodi dell’incontro con Dio di Mosè25 e di Elia sull’Horeb. Costui restaurerà, poi, l’altare diruto del Signore e vi lascerà come Mosè le tradizionali dodici pietre quali voti tribali.26

          È indubbio che Har Karkom ha rivelato numerosi particolari che sembrano corrispondere, in prima istanza, alla descrizione biblica del Monte Sinai. Tuttavia, come lo stesso Anati riconosce, pur senza abbandonare la propria tesi, “Har Karkom è completamente fuori da tutte le rotte che sono finora state proposte per l’itinerario dell’esodo” e “i reperti che datano l’accampamento ai piedi della montagna e i luoghi di culto su di essa risalgono ad almeno 500 anni prima delle date che l’esegesi biblica ha finora proposto per l’età dell’Esodo”. 27 Inoltre, la natura dell’avvento d’Israele nella Terra di Canaan, fissata dalla tradizione biblica come conquista bellica e conseguente insediamento intrusivo, è stata sottoposta a faticose revisioni, tra le quali desidero ricordare quella di Finkelstein 28 per il quale gli Israeliti sarebbero una popolazione di pastori d’origine locale, lentamente diffusasi nella regione collinare interna durante il Bronzo Tardo, rifiutando in tal modo ogni idea spettacolare di diffusione e di migrazione, e quella di Stager 29 che ritiene la crisi del sistema economico e delle reti di scambio dell’Età del Bronzo e, quindi, delle città-stato nella Terra di Canaan, con il coevo declino dell’impero egiziano, responsabili del cambiamento delle strategie di sussistenza da parte degli allevatori – costituenti una parte della popolazione dei villaggi nella regione collinare interna – che integrarono l’allevamento con l’agricoltura nel 1200 a.C.. A queste restano affiancate altre tesi, più in linea con la tradizione, anche se si dibatte sempre se questi primi Israeliti che penetravano con le armi in pugno provenivano dall’Oriente o dall’Occidente, lasciando i centri urbani alla ricerca di nuovi pascoli. 30

           Non essendo uno specialista, non intendo, ora, in alcun modo, “appoggiare il nuovo scetticismo circa la possibilità di confermare o refutare le tradizioni bibliche sulla base dei testi vicino-orientali extrabiblici” – mi riferisco, in particolare, ai tentativi falliti di G. Pettinato di cogliere dei legami tra i testi trovati ad Ebla (città-stato della metà del III millennio) e i racconti e i personaggi biblici, fondando, in tal modo, la storicità dei racconti dei Patriarchi – “ovvero dell’archeologia da campo” 31 , e nemmeno sono in grado di prendere posizione con cognizione di causa nel conflitto delle interpretazioni. Intendo, piuttosto, applicando le tecniche dell’analisi fenomenologica contrastiva, isolare i contenuti e le strutture dei vissuti di un’alterità etnica, compresa come tale in contrasto con la nostra cultura, costituenti il fondamento di senso di un complesso impianto culturale che sarebbe sorto in Palestina durante la cosiddetta “cesura” del VI secolo a. C., rimasta quasi invisibile, a differenza di quella precedente molto più nota, prodottasi all’epoca del transito nell’Età del Ferro. Valutata d’indole puramente ideologica, tale costruzione integralmente utopico-retrospettiva avrebbe messo a punto, con una radicale “rivisitazione storiografica”, il monoteismo etico, il monotemplarismo, la monarchia unita carismatica, la Legge, i Profeti e, in definitiva, un’etnogenesi e una storia di popolo fondamentalmente inventate, sebbene lo storico deve pur sempre accertarsi fino in fondo quanto di rielaborato e quanto d’antico sia poi confluito nella Bibbia. 32 Così il rutilante mondo biblico, straordinario, anormale, anacronistico e, soprattutto, “unico”, sarebbe l’esito di una complessa elaborazione ideologica d’origine esilica e postesilica (età persiana) dal punto di vista di una ricostituzione a popolo, nell’unità utopica retrospettiva della casa di David, stretto dal patto con Yahweh – che ribadisce quello di Abramo e di Mosè – di etnie disperse e disorientate dopo l’esodo da Babilonia con la fine della loro devastante cattività. Sarebbero state, insomma, inalberate con l’utopia monarchica e, successivamente, con quella sacerdotale proiettata nel futuro, mediante l’invenzione del tempio di Salomone 33 , la formula della comprensione mitica della caduta e quella della riscossa nazionale che avrebbero significato e garantito, nello spirito del regno di Yahweh sul mondo, “prosperità contro fedeltà” 34 , secondo lo schema portante del patto con il Dio di Mosè, articolato in “infedeltà-punizione-pentimento-perdono”. “I concetti fondamentali dell’ideologia deuteronomistica sono i seguenti: 1) Yahweh è un dio unico. 2) Il rapporto speciale tra Yahweh e il suo “popolo eletto” è basato sul patto, il cui nucleo sono “le tavole della Legge” di Mosè, custodite nell’arca di Yahweh depositata nel tempio sin da Salomone. 3) Yahweh ha portato fuori dell’Egitto Israele e gli ha dato la terra di Canaan. 4) Canaan dovrà essere conquistato secondo le procedure della “guerra santa” e dell’herem. 35 5) Al popolo incombe l’obbligo d’essere fedele a Yahweh e alla sua Legge, e dunque di resistere ad ogni tentativo d’apostasia e d’idolatria. 6) Il tempio di Yahweh deve essere uno solo, quello di Gerusalemme, “dimora del nome di Yahweh” 36 e alieno da manifestazioni cultuali troppo materiali (iconismo compreso) avvertite come estranee e pericolose.” 37 Di certo, un’impresa apologetica imponente, questa, religiosa e storiografica insieme, difficile e persino ritualmente molto contrastata 38 , com’è noto, da non pochi sovrani posteriori, con cui un re di Giuda, Giosia, nei decenni tra il collasso dell’Assiria e l’affermarsi di Babilonia, tentò di raccogliere in una nazione unitaria (Giuda-Israele), cosciente e fiduciosa di sé, “gli esuli giudei non ancora assimilati al mondo imperiale”. 39 Così l’adozione di Yahweh come dio delle tribù israelite e la sua elevazione a culto nazionale, traslando dal Sinai a Gerusalemme, risalirebbe al periodo compreso tra il 900 e 850 a. C., per il regno di Giuda, e al cinquantennio tra 850 e 800 a. C., per il regno d’Israele 40 e, per quanto riguarda i comandamenti del Decalogo, dalla singolare formulazione apodittica, mentre alcuni di essi, come onora il padre e la madre, potrebbero pure godere di una datazione alta, il primo comandamento, data l’indole particolare, non potrebbe essere anteriore a Giosia. 41

          Se, ora, proviamo ad isolare i vissuti tribali di comunità pastorali e contadine, sedimentati nell’universo dei segni della cultura simbolica e materiale rimastoci, e li sottoponiamo all’analisi fenomenologica per cogliere contrastivamente, cioè senza proiettare su di essi, manipolandoli, i principi e le categorie della nostra cultura, ci si accorge che certe conclusioni ermeneutiche, formulate in base ai risultati delle indagini scientifiche multidisciplinari, appaiono antropologicamente sfigurate, perché ci restituiscono di quei segni un set di significati che loro non appartiene perché esso, in realtà, è quanto di senso noi abbiamo proiettato, senza cautela alcuna, su di essi. È come se ci guardassimo allo specchio. Tali interpretazioni si appellano, infatti, come se fossero ovvie, “naturali”, alle ragioni secolarizzate di un’ideologia nazionalistica che, elaborata da classi dirigenti laiche e sacerdotali, ha partorito una teologia inaudita – che copre, in realtà, un’operazione di puro potere –, un’etnogenesi tanto esaltante quanto assurda e, infine, una storiografia – se pure è lecito ritenerla tale – retrospettivamente mistificante, per la quale ciò che conta non è la ricostruzione oggettiva del passato, ma solo la fondazione e la legittimazione, rendendo, in tal modo, assolute, esclusive e, addirittura, ineludibili, le supreme ragioni di riscatto di un popolo che va convinto di essere tra i popoli l’eletto di Yahweh, di aver perduto ogni cosa per propria colpa e di poter attingere significativamente tali ragioni solo rivolgendosi ad una suprema figura potente la cui voce imperiosa giunge sempre da un remoto e nebuloso passato, secondo la logica e l’economia delle tradizioni culturali. Ma, in realtà, tali complesse elaborazioni sono per la fenomenologia contrastiva non già operazioni puramente ideologiche, escogitate liberamente da un immaginario umano per fini qualsivoglia, sebbene lievitate spesso intorno a nuclei naturali e storici di verità oggettive, ma qualcosa di totalmente altro, in altre parole costituzioni mitologiche di senso – dove la semantica del termine mito è stata già in parte presentata e rivista fenomenologicamente – che non fanno capo ad alcuna improbabile ragione “mitopoietica” appartenente ad un io creatore, secondo un equivoco luogo comune inventato dalla cultura occidentale, ma ad una coscienza che vive e pensa in postura rivelativa attingendo forme e contenuti all’enciclopedia della tribù, conservata gelosamente perché rivelata e trasmessa, quindi, integra per via orale e scritta a fini inculturativi.

          È impossibile, intanto, ignorare l’indole particolarmente nevralgica del territorio, teatro degli eventi biblici, che ne fanno una zona collocata, nel bene e nel male, nell’area etnicamente più ibridata in assoluto dell’intero pianeta e che, molto prima delle invasioni protostoriche e storiche e dei transiti delle grandi carovaniere africane ed asiatiche a dorso d’asino (Età del Bronzo) e, poi, del cammello (Età del Ferro), assistette all’esodo prototipico della storia umana, l’uscita dall’Africa dell’homo sapiens. Poche pianure alluvionali, destinabili solo ad un’agricoltura non irrigua, quindi pluviale, poi steppe predesertiche, colline e montagne boscose, adatte alla pastorizia transumante di bestiame minuto (ovini e caprini), sembrano allestire uno scenario da “non luogo”, segnato dall’oscillazione “nomadismo-sedentarizzazione” e destinato, quindi, alla precarietà identitaria e all’imprevedibilità esistenziale. Sebbene la denunzia di una simbiosi tra habiru (ebrei) e nomadi per costituire bande di fuori-legge che spesso, per esempio durante l’Età del Bronzo, davano filo da torcere agli Egiziani e ai re cananei, è evidente che la Palestina poteva sentirsi libera solo in certe drammatiche vacanze di potere, quando i grandi imperi entravano in crisi o addirittura crollavano, come accade, ad es., alla fine del Bronzo con la caduta degli Ittiti, delle città cananee e l’indebolimento dell’Egitto sotto l’urto dei cosiddetti Popoli del Mare. Pastori e contadini avrebbero certamente frequentato insieme i luoghi sacri deputati a pratiche devozionali, di norma tombe di antenati, querce secolari, cime di monti e di colline, con altari all’aperto per i riti sacrificali, invocando divinità maggiori e minori, sempre molteplici, che nelle culture neolitiche non solo mediterranee, ma anche nordeuropee ed asiatiche, potevano concentrarsi intorno alla nota triade “divinità del Cielo, della Terra e della Vegetazione, figlio o figlia” 42 , mentre l’enfasi devozionale era portata tendenzialmente, a seconda dell’economia sedentaria (contadina) o nomadica (pastorale), rispettivamente sulla divinità della Terra o su quella del Cielo. Questa figura potente, eminentemente, ma non esclusivamente, maschile e patriarcale, onniveggente ed onnisciente, che dall’alto dei monti adunava le nubi per dispensare piogge benefiche o per scatenare tempeste devastatrici (Wettergott), quali gratifiche o sanzioni meteoriche 43 , era affiancato, stando ad attestazioni epigrafiche fin dai testi mesopotamici del II millennio, da Dee in veste di paredre o di consorti. E in veste di paredra di un Signore della montagna (Ursag, significante anche steppa e terra aperta) 44 sarebbe da annoverare anche la dea Ashera 45 che, a partire dai secoli tra il IX e VIII a. C., avrebbe avuto un culto nel tempio accanto a Yahweh, sicuramente fino alla riforma di Giosia che avrebbe imposto con la concezione deuteronomistica e con l’affermazione dell’unicità del Signore e del Suo Tempio la distruzione delle ashere e dei pali sacri dentro e fuori il Tempio, oltre agli altari, alle stele, agli idoli che si solevano allestire da sempre sugli alti monti, sui colli e sotto ogni albero verde 46 , in funzione anche apotropaica contro i demoni che, stando ad antiche rappresentazioni mesopotamiche, pur risiedendo sui monti, nelle steppe, nelle paludi e nei deserti, amavano scatenarsi come venti rovinosi e tempeste alluvionali nelle valli, colpendo i campi coltivati, i villaggi e le città. 47 Malgrado una radicata tradizione cultuale, ben testimoniata dalle formidabili resistenze da parte degli accoliti tradizionalisti che spesso convinsero molti re successivi a ripristinare le ashere, è probabile che dal secolo V a. C. in poi da indigena, quale essa era, Ashera divenne paradossalmente una delle tante dee delle popolazioni straniere cananee, quindi, di fatto, etnicamente estraniata 48 e il suo culto, insieme a quello reso a Baal e alle cosiddette Milizie del Cielo, furono addirittura accusati dalla teologia palaziale e templare di essere responsabili del tradimento del Patto con Yahweh e quindi delle inesorabili punizioni del Signore rappresentate dalle disastrose sconfitte d’Israele e di Giuda.

          È indubbio che il sorgere della cosiddetta scuola deuteronomista rappresenta una tale novità culturale da scandire e segnare, come ritiene giustamente M. Liverani, una seconda epocale cesura, sia pure d’indole puramente ideologica, nella storia d’Israele e del Vicino Oriente, dopo quella, per così dire, “globale” occorsa con l’avvento dell’Età del Ferro nel Mediterraneo Antico. Ma ciò che suscita perplessità è un’interpretazione tendenzialmente radicale che presenta tale accadimento culturale come il frutto di un’operazione palaziale e templare di vertice, cioè progettata e imposta da élites cittadine, basata su astratte formulazioni dottrinarie di principio che sancirebbero perentoriamente il monoteismo, l’eticismo del comportamento e la trascendenza di Yahweh, presentandoli, inoltre, artatamente, come principi rivelati da Dio stesso fin dall’epoca patriarcale e andati, poi, smarriti scelleratamente, suscitando con la collera divina delle punizioni estreme come il passato del popolo eletto, storiograficamente ricostruito ad hoc, testimonierebbe ampiamente. Si può pure ragionevolmente ritenere che la lunga cattività in terra straniera, con lo sradicamento d’Israele dal suolo patrio, abbia provocato nel popolo la perdita della propria “enciclopedia tribale”, che non è facile immaginare, tuttavia, come uno smarrimento integrale o coinvolgente, in blocco, i fondamenti identitari etnici stessi, se non altro per le accanite e reiterate resistenze, persino a livello regale, tramandateci copiosamente dalla Bibbia. In tal caso apparirebbe tutt’altro che agevole, al ritorno degli esuli nella Terra Promessa, cioè in aree, per altro, etnicamente altamente ibridate come lo sono, del resto, tutte quelle del Vicino Oriente, qualunque impresa “rivoluzionaria” da parte dell’intellighenzia del tempo di proporre ad essi di votarsi ad una visione radicalmente “ricostruttiva” della vita e del pensiero dei singoli e della collettività in funzione identificante e securizzante prescindendo dallo spirito della tradizione avita. Ma non intendo né posso, in mancanza di competenze specialistiche, procedere ancora su tali argomenti, addentrandomi doverosamente nella disamina approfondita e nella valutazione diretta dei dati a disposizione. Intendo volgermi, piuttosto, aderendo alle istanze metodologiche di un’antropologia analitica fenomenologica, come ho già segnalato, al rilevamento, alla comprensione e al giudizio dei principi e delle categorie appartenenti alla prospettiva metodologica dell’analista o dell’interprete, seguendo la convinzione epistemologica che, sebbene i dati delle teorie non siano mere costruzioni elaborate dagli scienziati stessi, tuttavia sono tali che il volume dell’informazione da essi elargito è di gran lunga inferiore al loro apparato costruttivo. Così, nel caso in questione, se proviamo ad isolare i principi e le categorie che hanno guidato e guidano normalmente l’approccio scientifico, storico, epigrafico, archeologico e filologico degli eventi biblici prima di Cristo, siano o non siano i loro esponenti sensibili alle ragioni delle Sacre Scritture e condizionati da esse, e procediamo, poi, a confrontare questi criteri metodologici isolati, di matrice culturale occidentale, con quelli forniti dall’antropologia fenomenologica, applicati entrambi nell’analisi dei medesimi sistemi culturali mitico-rituali, è facile accorgersi che essi divergono tecnicamente in maniera piuttosto imponente a livello dei protocolli stessi di cui dispongono, e i risultati medesimi conseguibili con l’uno e con l’altro approccio sono, conseguenzialmente, tra di loro non compatibili. È affidato, quindi, al paziente lettore la valutazione dei metodi qui divergenti.

          Va, anzitutto, osservato che l’interpretazione generale, già enunciata, che assume come operazione ideologica di stampo nazionalistico, fatta a tavolino, la riscrittura della storia d’Israele, l’etnogenesi patriarcale, il progetto del monoteismo e del monotemplarismo yahwista, l’invenzione della legge mosaica e della monarchia unitaria davidica, interpretando tutto come una retroiezione intenzionalmente escogitata da importanti esponenti del popolo in epoca postesilica, è per la fenomenologia, invece, l’esito inevitabile dell’applicazione ai dati di un sistema culturale radicato nel mito e nel rito dell’usuale lezione occidentale, espressione del remoto razionalismo critico elitario greco che ha smarrito fin dalle origini il contenuto e il senso specifici del vissuto rivelativo, senza il quale non è possibile intendere in alcun modo il set d’ordine e di associazione di qualunque sistema mitico-rituale. La difficoltà per l’analista di sorprendere in actu questo vero e proprio corto-circuito semantico, ermeneuticamente cruciale, è dovuta all’assunzione in chiave assoluta ed esclusiva, per altro fisiologica in ogni indigeno culturalmente sano, dei principi e delle categorie esistenziali e cognitive della cultura d’appartenenza con la conseguenza inevitabile di proiettarli dappertutto senza cautela alcuna, invece di accostarli senza sovrapporli a quelli degli altri, onde soppesarli insieme contrastivamente – come l’antropologia fenomenologica suggerisce – sospendendone in tal modo la metaculturalità, per altro ingiustificata, del loro essere e del loro valore. L’indole rivelativa dei contenuti e delle strutture di senso dei vissuti delle manifestazioni mitiche significa per l’analisi fenomenologica l’esistenza vincolante di alcune caratteristiche d’essenza che appaiono totalmente altre rispetto a quelle visibili se si analizzano i vissuti delle manifestazioni fenomeniche. La postura rivelativa tipica del vissuto esistenziale e di credenza secondo il quale i pensieri, i sentimenti, le volizioni e le azioni non sono intesi come atti dipendenti da un soggetto relativamente autonomo, ma come elargizioni all’uomo da parte di coscienze non umane, implica una coscienza impersonale ed eteronoma, rispecchiante contenuti rivelativi iperreali e coincidente (per definizione) con essi senza resti.

           È talmente esemplare, per la fenomenologia, l’alterità della manifestazione fenomenica in cui il suo stato, essenzialmente insaturo, dipende dalla non coincidenza a priori di apparire ed essere, rispetto a quella rivelativa, da comportare strutture di senso, cioè modelli di spazio, di tempo, di logiche altrettanto incommensurabili. Così, mentre nei vissuti rivelativi, sempre saturi o saturabili a priori, si rilevano spazi dell’ubiquità, tempi della ripetizione (reversibili) e logiche non parmenidee 49 , nei vissuti fenomenici egocentrati, costituenti intenzionalmente oggetti, essenzialmente insaturi e non saturabili, compaiono contrastivamente spazi prospettici, tempi storici (irreversibili) e logiche di tipo parmenideo che la cultura occidentale, nata con essi, considera ovvii ed, equivocamente, “naturali”. Ne segue che nessun mito degno di questo nome può mai essere colto nel vissuto indigeno in statu nascendi come un’opera qualsiasi dell’ingegno umano che crea abitando il tempo irreversibile della storia, perché la sua origine e la sua legittimazione dipendono sempre da qualcosa che in luoghi e in tempi “incerti” è già accaduto per la prima volta, quando non da sempre, secondo l’analisi del vissuto rivelativo, ove in una coscienza in postura rivelativa ciò che si manifesta ha i connotati realissimi propri di ciò che si dà perché è sempre già prima e a prescindere dal darsi, a differenza di quanto accade in una coscienza egocentrata che, dovendo costituire il proprio oggetto, lo assume di necessità come reale solo nella precaria attualità del suo darsi all’io in spazi, in tempi e in logiche misurabili e controllabili oggettivamente. All’interno del paradigma mitico, tutti gli accadimenti profani ricevono senso ed esistenza di cui sono privi solo in quanto ubiquamente e ripetutamente si coniugano, senza confusione, con gli eventi prototipici loro corrispondenti. Si chiarisce, allora, la ragione dell’intima difficoltà di datare e di localizzare eventi mitici, che non risiede nell’evasività  di ogni gratuita invenzione partorita da un soggetto mitopoietico che, a fini molteplici, plasma in piena libertà mondi fantasmatici ed alieni, esistenti, malgrado qualche inevitabile riferimento reale, solo nella sua robusta fantasia, ma nell’indole iperrealista del dato rivelativo, ingannevole come un miraggio solo perché è inafferrabile dalle strutture di senso oggettivanti. 50 C’è, insomma, qualcosa d’altro ed esso, in veste di realtà rivelata e non fenomenica, è irriducibile all’oggettività fisica e storica o a qualunque fantasticare soggettivo e si sottrae del tutto, come si vedrà, alla stessa dicotomia “spirito-materia”. Comunque, sebbene rivelazioni e fenomeni rientrino nel vastissimo universo delle manifestazioni, non devono essere confusi in alcun modo – malgrado ogni ibridismo culturale – i naturali esiti mitico-rituali dei vissuti rivelativi con quelli della filosofia, dell’arte, della fede, della scienza e della tecnica che muovono tutti da vissuti fenomenici di base, la cui intima condizione insatura impone un necessario, intenso e continuo dinamismo intenzionale, rinviante ad un ego che svolge funzioni cognitive ed esistenziali integratrici proprie di una coscienza relativamente autonoma cui una crisi epocale ha sottratto la postura rivelativa.

          La trascendenza, l’eternità, la spiritualità, la personalità, la solitudine (monoteismo) di Yahweh 51 sono tutte ritenute connotazioni rivelate da Dio stesso e sono state sancite, pertanto, come ortodosse dalle istituzioni ufficiali delle Chiese. Tuttavia esse non appaiono, in una certa misura, in linea con i risultati di analisi fenomenologiche applicate ai contenuti e alle strutture di senso di noti vissuti sacrali, sedimentatisi nei segni di alcuni celebri luoghi dell’Antico Testamento, considerati testimonianze dirette di quelle connotazioni. L’incompatibilità di queste con i protocolli dei sistemi mitico-rituali, formulati da un’antropologia fenomenologica in base alle analisi contrastive con i protocolli dei sistemi culturali che tali non sono, appare un esito inevitabile, indotto, di certo, dall’ibridismo culturale, dell’impiego occidentale di principi, di concezioni e di categorie fondamentali d’origine greca nell’interpretazione di vissuti sacrali semitici, generando l’inevitabile paradosso ermeneutico di impiegare, per la comprensione dei vissuti rivelativi, strutture di senso (modelli spazio-temporali e logici) d’origine greca, che sono notoriamente destinati, come più volte segnalato, ad ordinare e a relazionare i fenomeni. Tale modo ermeneutico di procedere, senza possibili alternative culturali, asseconda e accentua ulteriormente la tendenza, tipicamente occidentale, della riduzione fenomenica d’ogni dato rivelativo, cioè quella tendenza epocale i cui germi sono stati segnalati in atto dall’analisi fenomenologica in alcuni vissuti dell’area egea già alla fine del cosiddetto Medioevo Ellenico, dopo l’avvento dell’Età del Ferro.

          Tuttavia, come più volte segnalato, l’indole insatura e deficitaria della manifestazione fenomenica, che s’individua ormai chiaramente presso i protofilosofi dell’Ellade come l’ambito degli aisthetà, esige l’intervento di complesse operazioni per integrare e per eliminare lacune e ambiguità manifestative sempre presenti nel fenomeno, strumenti ausiliari, questi, che, evidentemente, non possono essere mutuati dal mondo manifestativo stesso, ma da qualcosa di assolutamente altro, cioè dall’universo inedito dei noetà, generato da un logos disincarnato. Tale caratteristica inaudita che fa del pensiero occidentale un’efficace struttura relazionale operante “a vuoto”, cioè del tutto indipendentemente dai contenuti di volta in volta incorsi da trattare, si è istituzionalizzata in Occidente a partire dal filosofo Parmenide che, prendendone le opportune distanze, si è sottratto in volo, per comprenderlo e per sfuggirlo, dal mondo terrifico e assurdo del divenire, quello abitato dai comuni mortali. E il negativo cognitivo ed esistenziale del mondo “di quaggiù”, che gli universi mitico-rituali attribuiscono di norma all’azione punitiva, pur non sempre umanamente perspicua, di figure potenti in veste vendicativa o correttiva, fu attribuito dalla filosofia greca e, poi, con notevoli varianti del tema, dall’Occidente stesso, alla presenza al fondo dell’esistente di qualcosa d’oscuro, impenetrabile, informe, atono, inanimato e, presso certi pensatori, di intimamente maligno, che fu chiamato hyle, in altre parole materia, la negazione sintetica del noeton e dello pneuma. Avendo, ora, la fenomenologia individuato le precedenti connotazioni di Yahweh come l’esito dell’impiego di noetà per la comprensione di dati d’origine rivelativa come se questi fossero fenomenici, cioè dei meri aisthetà, è evidente che la singolare scoperta dell’indole essenzialmente noetica dei vissuti di trascendenza, d’eternità, di spiritualità, di personalità, d’unicità di Dio, fenomenologicamente disincarnati, cioè privi di hyle, e, tuttavia, intesi come esistenze “metafisiche” sottratte alle contaminazioni della materia, confligge intimamente, secondo i protocolli generali della fenomenologia, con la base rivelativa dei vissuti mitico-rituali che, come più volte precisato, elargendo in un unico blocco e in modalità sature la realtà e il senso, implicano un pensiero inauditamente iperrealistico e, quindi, necessariamente incarnato e dotato di proprie particolari strutture di senso analogamente incarnate. Una realtà e un senso del tutto alieni, questi, isolabili fenomenologicamente solo nei vissuti impersonali costituenti il necessario fondamento dei sistemi culturali mitico-rituali, per la cui corretta comprensione occorre rimuovere radicalmente consolidate polarità greche ed occidentali quali “noeton (astratto)- aistheton” (con nocciolo materico)”,“spirito-materia”, “pneuma-soma”. Sarà, ora, possibile, praticando uno scavo di “archeologia fenomenologica”, riportare alla luce alcuni vissuti mitico-rituali occultatisi a causa del vestito di idee estranee sedimentatosi loro addosso durante millenni di interpretazioni condizionate da imponenti ibridismi etnici? Una relazione fenomenologica di un breve “saggio di scavo”, praticato nell’area culturale dei vissuti dei culti delle vette, sia pure limitato al Vicino e al Medio Oriente Antico, parrebbe essere particolarmente promettente.

          Come già anticipato, è una credenza piuttosto diffusa nel Mediterraneo Orientale Antico, e non solo in area semitica, che una figura sacra maschile tribale, onniveggente e onnipotente, destinata ad accompagnare le schiere devote in battaglia, cavalchi sulle nubi e le aduni intorno alle cime dei monti, scatenando tempeste con tuoni e fulmini come sanzioni meteoriche o sparga piogge fecondanti e dissetanti per i campi inariditi, per le bestie e per gli uomini, quali azioni benedicenti, attestandosi genericamente come un dio uranico. E ciò prima di acquisire il ruolo, evidentemente tardivo, di Dio nazionale, quando l’identificazione proposta tra dio e stato etnico diviene concretamente operativa sul piano politico e militare, in linea, del resto, con remote e consolidate tradizioni medio orientali. Ad esempio, tra gli Ittiti c’è noto il culto reso “al Signore del paese di Hatti” (Dio della Tempesta) che poi era il loro potente dio nazionale, sebbene gli pullulassero accanto una moltitudine di dei particolari della tempesta in quanto dei di questa o di quella città o identificabili per qualche loro caratteristica speciale. 52 Tali divinità, prevalentemente uraniche, certamente relate a remoti vissuti neolitici nomadico-pastorali come “divinità del padre” (il Dio del sacerdote Ietro, il suocero di Mosè?) non sempre facilmente distinguibili, comunque, con un colpo netto dai vissuti sedentari dei contadini, dati i loro intensi rapporti collaborativi o antagonistici, sebbene possano manifestarsi in vari luoghi, come monti, fonti, alberi, boschi, etc., che vengono, in tal caso, segnati da manufatti come altari di pietre “non toccate dal ferro” e stele, questi non sembrano essere intesi necessariamente come delle vere e proprie sedi abitative del Dio 53 . Infatti, nello stile proprio di quel vissuto nomadico per cui la terra viene semplicemente intesa come mera superficie da striare senza radicamento alcuno in profondità o con soste definitive 54 , i luoghi ierofanici sono tutti possibili siti di soggiorno divino più o meno temporaneo – come lo sono, del resto, le statue cultuali (Kultbilder) stesse – e possono essere addirittura abbandonati per l’indegnità umana 55 , soprattutto da parte di quelle divinità come Yahweh  dalle indiscutibili connotazioni uraniche, perché esse, in effetti, con un’espressione tanto vaga quanto semanticamente molto stimolante, sono ritenute “abitare in Cielo”.

          Il vissuto di tale espressione intende significare nel duro iperrealismo proprio della semantica mitica l’epiteto di “Altissimo” dato a Yahweh, perché Egli, quando si rivela agli esseri umani nella veglia o durante il sonno o tramite le sorti (Urim) 56 , suole apparire sempre elusivamente “sulla porta del Cielo” 57 , ad esempio solo “ di spalle”, 58 esalando subito, volatile e aereo, verso l’alto, sottraendosi, in tal modo, alla vista dei possibili testimoni, anche per la mortale pericolosità dello splendore accecante che suole emanare dalle teofanie o dai trasfigurati da Dio (Mosè, Gesù), secondo un’antichissima e diffusa credenza mitica, probabilmente ecumenica. 59   Tra Sé e gli uomini compaiono in veste di ausiliari o di intercessori apparizioni in molteplici guise di anomali eventi naturali o di figure potenti o di devoti da Lui privilegiati (Elohim, Angeli, Patriarchi, Profeti), come presso le Querce di Mamre 60 , sul Monte Moria 61 , al guado dello Iabbock 62 , sull’Oreb nella fiamma di un roveto inestinguibile 63 , nello sterminio pasquale dei primogeniti in Egitto 64 , nella peste in Israele 65 , nel viaggio di Tobia 66 , nella colonna diurna di fumo e notturna di fuoco a guida e a difesa degli Israeliti all’uscita dall’Egitto 67 , nei tuoni, nei lampi e nelle fiamme della teofania sinaitica, tempestosa e vulcanica 68 , nei calabroni per mettere in rotta i nemici 69 , all’assedio di Gerico 70 , nello sterminio degli Assiri di Sennacherib 71 , nelle vittorie belliche dei nemici del popolo eletto per punire l’infedeltà d’Israele 72 , contro il sacrilego Eliodoro 73 , in soccorso di Daniele 74 , etc.. È indubbio che Yahweh non si mostra mai visibilmente in maniera diretta, identificandosi, ad esempio, nella figura di un uomo, di un animale o di un astro 75 . Ama rivelarsi preferibilmente mediante una voce che, dettando dall’alto le Sue volontà, risuona spesso dolcemente o crudelmente dietro una cortina di nuvole o di fuoco che ne occulta il viso 76 , persino quando Yahweh prende possesso del Tabernacolo del Tempio, dimorando nella Città Santa di Gerusalemme. 77 Ma anche il semplice colloquio dell’uomo con un Dio invisibile non è esente da un pericolo mortale 78 . Egli è, allora, una figura potente atmosferica che può possedere o infestare nel bene o nel male uomini e cose 79 , ed è vissuto ed è inteso essenzialmente alla luce di uno dei Suoi più eminenti attributi, se non ne è addirittura un mero duplicato, come ruah, soffio,voce, vento, quello che spirava sulle Acque del Caos prima della Creazione 80 , e che può esalare con la fiamma dell’altare, quando nei sacrifici questa s’innalza verso il Cielo 81 , o irrompere e poi svanire in una visione notturna reale come hypar non come onar (sogno) – non come puro psichismo onirico – o annunciarsi con il mormorio del vento leggero 82 o con lo stormire delle cime degli alberi sfiorati dai Suoi invisibili e rapidi piedi. 83 Ma ruah è, soprattutto, un alito potentissimo donatore di vita, come appare nella grande visione di Ezechiele della resurrezione dei morti dalle ossa inaridite dei cadaveri che al soffio divino si rivestono mirabilmente di nuova carne. 84 Così la semantica dell’Altissimo sembra ruotare intorno ai vissuti alquanto indeterminati dell’alto e del lontano di una realtà necessariamente volatile ed aerea, che impongono conseguenzialmente, in sede rivelativa, modalità manifestative particolari affidate ad uno dei sensi della lontananza come l’udito e quindi fenomenologicamente ad una hyle sonora o sostenute da espedienti visivi di mediazione che – in ogni modo vengano interpretati – possono comunicare quanto occorre senza annullare le distanze. Anche i vissuti cultuali nomadici, concernenti le vette dei monti, sembrano testimoniare che esse svolgono molteplici e importanti funzioni mitico-rituali: quella della separatezza esemplare di una sacralità isolata da tutto il resto, quella mediatrice tra l’Altissimo Dio e gli esseri umani, quella selezionatrice della folla pressante dei devoti, come testimonia nitidamente la stessa rivelazione sinaitica, 85 quella di indicare il cammino dei morti come porta verso gli Antenati, secondo quanto attestano la sepoltura di Aronne sul monte Or e quella di Mosè sul monte Nebo, nel paese di Moab, 86 ordinate da Dio.

          Questa particolare modalità manifestativa per cui la figura potente non si darebbe mai identificandosi con i segni della propria rivelazione – di norma piuttosto prodigiosi 87   è stata compresa ed interpretata, impiegando note e consolidate polarità di matrice ellenica, come consentanea alla condizione trascendente di Dio, rispetto al mondo immanente da Lui creato, introducendo nella cultura mitico-rituale semitica oltre all’estranea distinzione tra naturale e soprannaturale, il principio divenuto nel pensiero successivo dell’Occidente del tutto inamovibile secondo il quale il Dio d’Israele s’interesserebbe solo delle vicende umane, entrando, quindi, nella storia – un genere letterario che gli Ebrei avrebbero scoperto per primi – e non degli accadimenti naturali. Tuttavia, per la fenomenologia, la condizione trascendente sarebbe quel particolare stato di un essere che eccede decisamente l’intera portata della sfera dei sensi e si rivela, pertanto, inaccessibile da essi. Tale singolare qualità può essere ovviamente goduta soltanto da un essere del tutto disincarnato, in altre parole privato di qualunque nocciolo materico – come già chiarito – che, per quanto assunto come esistente ontologicamente da un pensiero metafisico inteso ad attribuirgli il ruolo e la funzione di costituire un mondo eterno assolutamente altro per riscattare in tal modo cognitivamente ed esistenzialmente il mondo dell’uomo dall’assurdità del divenire e dal terrore della morte, esso è, per la fenomenologia, un ente di pensiero puro, cioè un noetòn che, per quanto ritenuto accessibile solo da “un occhio della mente”, cioè mediante un’intuizione intellettuale, esso tende fatalmente a slittare verso quello stato di mera forma mentis che lo riduce ad un ens rationis esistente solo mentalmente. Ma, a parte l’assenza nella cultura semitica, prima dell’avvento dell’ellenizzazione, di dicotomie filosofiche quali naturale-soprannaturale, psyché/soma, natura/storia, spirito/materia, etc. che sogliono essere applicate in sede ermeneutica dappertutto nell’erronea convinzione che esse siano universali e necessarie, nulla è fenomenologicamente riscontrabile nei vissuti manifestativi di Yahweh da giustificare – a meno di manipolazioni ad hoc – l’assunzione puramente noetica e, quindi, trascendente dell’Altissimo. Tali polarità sono sorte per opera di remoti fattori culturali già attivi alle origini dell’Occidente, individuabili nell’urgente necessità di far fronte cognitivamente ed esistenzialmente, con la crisi della credenza mitico-rituale, alla gratuità disorientante e terrifica di un divenire senza senso, inventando l’idea di materia come origine di ogni male fisico e morale e opponendo a questa l’assolutamente altro del noeton e dello pneuma disincarnati, intesi e vissuti nella duplice funzione illuminante e riscattante l’uomo e il mondo. In effetti, ad un’attenta lettura dei luoghi biblici non emerge in alcun modo sia l’idea di una distinzione semitica tra natura e storia 88 e sia quella, alquanto diffusa, onde legittimare con l’invenzione dell’autonomia della natura il superamento dell’errore pagano e l’avvento della libera ricerca scientifica, che dopo la creazione dell’universo Yahweh si sia distaccato da esso per intervenire, piuttosto, solo nel mondo degli eventi umani, irrompendo, così, nel tempo irreversibile della storia. 89 È anzitutto difficile immaginare che un mondo creato a fatica da una figura potente, sconfiggendo, probabilmente, in furibonde battaglie entità avverse, ma non sopprimendole, com’è accaduto anche a Yahweh, possa poi mantenersi integro e continuare ad esistere fino all’Apocalisse senza una continua assistenza divina 90 , che nella logica e nell’economia mitico-rituale significa e comporta la presenza reale benefica o malefica del Signore nel mondo delle cose e degli uomini. Alla noetizzazione stessa dei vissuti semitici del Dio si deve, inoltre, la nota attribuzione a Yahweh di una vita eterna. Dal punto di vista fenomenologico, il vissuto dell’eternità non è un vissuto rinvenibile all’interno di un modello di tempo mitico-rituale, perché l’eternità è un’invenzione filosofica greca per significare precisamente la modalità di durata di un’esistenza collocata di là dallo spazio e del tempo, che potrebbe essere goduta ragionevolmente solamente da noetà puri, da morphai prive di materia, vissuti e intesi metafisicamente come enti esistenti di là dallo spazio e del tempo. Diversamente da un ostinato luogo comune ermeneutico, il modello di tempo in cui si ordina la successione dei vissuti mitico-rituali non è ciclico e nemmeno eterno, ma reversibile, cioè pluridromo, nel senso che il corso degli eventi in tale modello non è unidirezionale (monodromo), ma può svolgersi in avanti o indietro, secondo le varie necessità mitico-rituali ; e a tale modello di tempo si coniuga coerentemente un modello di spazio in cui i vissuti della simultaneità non si ordinano prospetticamente ma ubiquamente, come se una cosa, invece di essere presente ad un osservatore per lati e per profili avvicendantisi nel tempo storico uno dopo l’altro e uno diverso dall’altro, quindi irreversibilmente, divenisse simultaneamente visibile da tutti i suoi lati. 91 Analogamente, la nota lezione personalistica del Dio semitico è anch’essa il prodotto di un ibridismo culturale di Yahweh con la coscienza (noesi) tipicamente egocentrata dei vissuti greco-romani e ampiamente occidentali, che, indipendentemente da qualunque giudizio di validità, fenomenologicamente sempre del tutto fuori luogo, ha generato un silente e insolubile conflitto con la coscienza dei vissuti in postura rivelativa, ove l’io, secondo l’analisi fenomenologica, è, per ragioni d’essenza, assente nel vissuto umano e Dio è inteso e vissuto semplicemente come coscienza potente. Pertanto, l’imporsi progressivo nella cultura occidentale di un modo umano e divino di essere coscienza come sinonimo di essere un io e un io personale, in altre parole di una coscienza che pensa, sente e agisce autonomamente, ha favorito la lenta cancellazione di quella postura rivelativa, propria di una coscienza tipicamente eteronoma, che la fenomenologia ha indicato come la condizione necessaria, sebbene non sufficiente, per qualsivoglia manifestazione sacrale. È allora evidente quale può essere il contributo generale di un’analisi fenomenologica contrastiva sullo stato dei vissuti rinvenibili nelle varie culture, vale a dire quelli mitico-rituali, quelli filosofico-scientifici e quelli della fede, alla comprensione dell’evento della secolarizzazione occidentale e, soprattutto, a quello dell’attuale riduzione soggettivista del rapporto tra l’uomo e il Sacro, intesa come conseguenza inevitabile di una religione poggiante sulla fede degli esseri umani.

          Tutte queste consolidate categorizzazioni per ibridazioni, in definitiva, rendono impossibile e incomprensibile la scoperta fenomenologica di uno Yahweh costituito da una hyle di consistenza atmosferica, quindi aerea e volatile, come vento, soffio e voce, figurativamente non rappresentabile senza “tradirne” l’intima indole, sebbene irriducibile alla camicia di forza “o spirito o materia”. Ma è, soprattutto, il senso vissuto di quell’assoluto iperrealismo mitico-rituale, su cui ho più volte richiamato l’attenzione, che esige per coglierne il senso, altrettanto iperreale, strutture spaziali, temporali e logiche ad esso conformi, del tutto inaudite, e che suole essere interpretato, com’è noto, nel suo contrario, come fola, metafora, licenza poetica ed espediente retorico a fini persuasivi, preferendo, probabilmente per pigrizia o a causa dell’amore dell’uomo per il meraviglioso, come scriveva D. Hume, di gran lunga l’arcano al palese non ovvio. Che per la ricostruzione culturale d’etnie disperse dopo l’esodo di Babilonia, necessaria a fini identitari e di securizzazione, e per le ragioni supreme di un riscatto nazionale, delle élites laiche e sacerdotali ebraiche abbiano narrato delle gesta dei Patriarchi, dei successi della monarchia unitaria centrata nella casa di David, l’unto da Dio, della grandezza sacerdotale connessa a Yahweh (monoteismo), alla Sua Alleanza e all’erezione del Tempio di Salomone (monotemplarismo), attingendo sicuramente alle enciclopedie tribali della tradizione remota e recente, in altre parole ad un patrimonio più o meno integro di credenze e di comportamenti, di detti memorabili e di eventi epocali, è un comportamento che va inteso e valutato solo a certe precise condizioni ermeneutiche. Occorre, anzitutto, ribadire che nelle culture a fondamento mitico-rituale ogni pensiero, ogni sentimento, ogni azione dei singoli e delle comunità sono possibili e comprensibili all’unica condizione di essere fondati e legittimati da un mito piccolo o grande mediante la coniugazione reale e non simbolica con i pensieri, i sentimenti, le azioni potenti rivelate dal mito stesso e riattivate in carne ed ossa e ora come allora, ovunque e sempre, ritualmente o spontaneamente. Emerge da tali analisi il radicale capovolgimento di una consolidata gerarchia di valori, perché se ne deduce che nelle culture a base mitico-rituale non sono le ragioni del potere ad inventare ideologicamente i miti, onde perseguire i propri fini “mondani”, ma sono piuttosto i miti a fondare ed a legittimare il potere stesso perché, se essi sono vissuti e intesi come rivelazioni sacrali, cioè autenticamente potenti, sono eo ipso titolari e donatori esclusivi agli uomini del potere stesso. Va precisato, ancora, che i miti, sebbene funzionino come dei paradigmi veri e propri, cioè come dei modelli percettivi, affettivi, valutativi e operativi che elargiscono ai singoli e alle comunità quel necessario set di significati fondamentali garantiti, senza il quale si ritiene che non sarebbe possibile vivere in misura umana, essi non vanno intesi come forme vuote destinate ad ordinare e a connettere contenuti qualsivoglia, analogamente agli astratti modelli relazionali mutuati dall’universo della matematica, impiegati per descrivere e per prevedere nelle teorie scientifiche gli svariati comportamenti della materia. Per il principio del realismo segnico che regge, secondo la fenomenologia, la semantica delle culture a fondamento mitico-rituale, le rivelazioni mitiche – su qualunque supporto – non possono essere scisse in forma e materia – tranne che in sede d’analisi - senza stravolgerle irreparabilmente, perché sono costituite e operano iperrealisticamente nel senso fenomenologico già enunciato 92 che allude all’indole presentativa e non rappresentativa di tutti i segni mitici, cioè alla singolare coincidenza – senza resti – del segno con i suoi significati e i suoi referenti. È, così, comprensibile che l’impiego della potente espressione mitica per elargire senso ed esistenza all’impotente mondo profano comporta sempre una coniugazione reale  - spontanea o ritualmente sollecitata – senza confondere il Sacro con il profano, annullando, così, la differenza, dell’azione compiuta dalla figura potente e rivelata nel mito con l’analoga azione che nel mondo profano si desidera compiere, e la cui efficacia dipende dalla riattivazione, ora come allora, dell’atto mitico che, aderendo realisticamente mediante la ripetizione all’atto profano, lo porta necessariamente – a Dio piacendo – a buon fine, come avvenne appunto la prima volta con l’atto prototipico similare. 93 Gli accadimenti mitici, pertanto, sono degli invarianti iperreali che, in quanto non simbolici, orientano e soccorrono cognitivamente ed esistenzialmente le comunità umane ripresentandosi ora come allora (tempo della ripetizione) e là dove occorrono (spazio dell’ubiquità), dandosi ritualmente “in carne ed ossa”, cioè mediante la concreta coniugazione dell’evento mitico, prototipico, con l’evento profano analogo da assistere. Il granitico presupposto occidentale, assunto come ovvio, di un’astratta razionalità teorica e pratica generata unicamente dal dinamismo intellettuale ed operativo di un’autonoma coscienza egocentrata che ha di fronte a sé un mondo naturale, retto da leggi del tutto indifferenti, fraintende in blocco, quando si cimenta ad investigarle, concezioni e prassi mitiche diffusissime, puntualizzate qui fenomenologicamente, e occulta, soprattutto, l’indole necessitata e cogente di esse all’interno di culture che non possiedono alcuna alternativa per attingere e conservare senso ed esistenza – di cui si sentono prive – oltre a quella di appellarsi all’intelligenza e alla volontà di figure potenti non umane. Sarà, allora, evidente che l’indagine antropologica di un sistema culturale a fondamento mitico-rituale, finalizzata a cogliere le ragioni degli altri dal punto di vista indigeno contrastivamente – vale a dire senza obbiettivarli e senza coincidere con esse partecipativamente, come già chiarito – potrà rilevare il senso genetico e strutturale di una credenza o di un’azione qualsivoglia, sacra o profana, solo mediante la ricognizione degli eventi mitici etnicamente archetipici, donatori primari di senso a tutte le concezioni dell’universo profano, e le cui concrete riattivazioni rituali, che si effettuano ripetutamente nel tempo e ubiquamente nello spazio, finalizzano, guidano e rendono efficace l’intero plesso delle attività umane individuali o collettive, che sono da intendere esse stesse, persino quelle minute e quotidiane, sempre come vere e proprie azioni rituali, dipendenti da precise liturgie e da rigorosi cerimoniali, piccoli o grandi. 94

          La guerra santa e l’herem d’Israele, ad es., che suscitano orrore e riprovazione nei seguaci delle dottrine pacifiste, analogamente a qualunque attività bellica vissuta e intesa sempre ritualmente nelle culture a fondamento sacrale, possiedono un riposto statuto di senso – escludendo qualunque valutazione – che può essere individuato solo risalendo al set delle associazioni semantiche di un archetipo etnico, tra le quali non è difficile scorgere la fondazione teorica e la legittimazione operativa dell’attività bellica. 95 Alludo a certi grandiosi miti cosmogonici del Mediterraneo Antico Orientale, anche se non tutte le guerre mitiche sono cosmogoniche, come non lo sono, ad esempio, la lotta tra Baal, il dio della tempesta, e il dio del Mare Yam o quella settennale tra Baal e il dio della Morte Mot, stando ai resoconti mitologici delle tavolette di Ugarit, o la lotta tra il grande dio nazionale ittita della tempesta e il serpente Illuyankas, o lo scontro furibondo occorso tra gli Olimpici e i Titani e quello di Zeus e il mostruoso Tifeo, narrati da Esiodo nella Teogonia e, ovviamente, tutte le battaglie apocalittiche. Sebbene privo dell’imponente e rutilante spettacolarità dell’Enuma elish babilonese e assiro, che racconta la selvaggia e inizialmente incerta battaglia tra il dio nazionale Marduk e Tiamat, la mostruosa dea delle acque salse, infeconde e mortifere, affiancata da potenti accoliti, dal cui immane corpo ucciso e squartato Marduk plasmerà, poi, l’universo, un evento cosmogonico rinnovatesi annualmente il 4 del mese di Nisanu nel grande rituale dell’Akitu, la festa del Capodanno a Babele, tuttavia anche il mito cosmogonico biblico rivela appena, tra i versi iniziali, ma anche come dispersa e sempre allusiva altrove, in molteplici luoghi delle Sacre Scritture, una sorda ostilità prototipica, guerreggiata probabilmente fin dall’inizio tra Dio e il Caos tenebroso e omogeneo delle grandi Acque, senza la cui violenta separazione in alto come firmamento, in basso come terra e mare e senza l’irrompere della luce il mondo non sarebbe mai potuto nascere. Sebbene la nozione metafisica della creazione ex nihilo è rinvenibile solo più tardi, nel noto passo di 2 Mac 7, 28, e sebbene sia probabile un’eco della cultura mesopotamica per la quale la canalizzazione delle acque dolci nell’alluvio del Tigri e dell’Eufrate e il controllo del mare, allora esteso molto verso l’interno più di quanto suggerisca oggi la linea di costa del Golfo Persico, erano comprensibilmente motivi di una costante occupazione mitico-rituale, estranea all’ambiente israelita, l’idea che Dio non fosse solo prima della creazione del mondo e avesse accanto e contro una presenza ierofanica, sia pure indeterminata e indeterminabile, certamente avversa a qualunque impresa creatrice che l’avrebbe destinata all’estinzione, anche se, come sembra, non totale, è in contrasto, evidentemente, con il principio monoteistico. Appare, in ogni modo, visibile sullo sfondo oscuro e ambiguo degli inizi e restare poi integra, rigurgitando ossessivamente nei successivi eventi conflittuali dell’esistenza umana e cosmica di ogni tipo, una configurazione mitica fondamentale che separa il positivo dal negativo cosmico e li oppone l’uno all’altro. Da una parte, in alto, domina lo Spirito di Dio aleggiante sulle Acque 96 – un presumibile attributo, questo, inteso, di norma, come esistente in sè 97 dall’iperrealismo mitico o come un duplicato di Dio stesso, analogamente a tutte le ulteriori epifanie celesti, aeree, chiamate Angeli, discendenti e ascendenti – e che si rivelerà nelle azioni compiute come buono o come cattivo 98 , dall’altra, in basso, giacciono le Acque, l’Abisso e le Tenebre del Caos con le loro molteplici manifestazioni mostruose, come il Leviatano ( il Drago, il Serpente tortuoso, guizzante), Raab, Behemot, il Coccodrillo,Tannin 99 , anch’esse da intendere quali probabili attributi ipostatizzati come autonome esistenze o duplicati del Caos originario stesso, ma come resti o come sottoprodotti, ancora malignamente attivi, di un lavoro creativo enigmaticamente non portato a termine fino in fondo. 100 Questa cupa ostilità archetipica tra il Cielo e gli Inferi, tra l’aerea volatilità e la  grevità terrestre di tutto il resto che in vita striscia e giunto alla fine sprofonda nello Sheol, quindi tra i vissuti salvifici dell’alto e quelli distruttivi del basso, va collocata alla radice vissuta dei culti delle vette come soglie di siti d’incontro con un Dio che suole scendere dal Cielo, quando vuole parlare con gli uomini e soccorrerli 101 , e come vestiboli del cammino dei grandi morti alla sede degli Antenati. 

          Viene a configurarsi, in tal modo, l’area di una tematica imponente, vissuta e assunta come un invariante mitico-rituale etnico, altamente complesso e articolato perché multifunzionale, destinato ad interpretare l’uomo e il mondo insieme ai loro non facili rapporti con il Sacro, fornendo rivelativamente alla comunità e ai singoli non solo tutto ciò che occorre e basta per conoscere veritativamente, ma anche i criteri e le norme per agire correttamente, fondando, legittimando e identificando, in definitiva, le forme e i contenuti dell’enciclopedia tribale o etnica di una comunità umana. Così è, in effetti, una riattivazione rituale del riposo del Signore dopo la fatica cosmologica l’astensione assoluta dal lavoro e la santa convocazione in onore di Dio nel settimo giorno della settimana, quelle sancite anche per il primo giorno di quel settimo mese, ove ricadranno poi i grandi rituali del giorno delle espiazioni, il dieci del mese,  e della festa delle capanne, della durata di sette giorni, il quindici, sempre, di questo settimo mese, l’anno sabbatico di riposo assoluto per la terra e per l’uomo, dopo sei anni lavorativi, e, infine, l’anno del giubileo, contati per sette volte sette anni. 102 Tuttavia, come già anticipato, l’impiego ermeneutico e ritualmente operativo di qualunque modello mitico alla comprensione e alla gestione dell’uomo e del mondo profani non va inteso secondo la lezione epistemologica egemone nell’Occidente moderno che il conoscere e l’agire umani si realizzano coniugando forme astratte e vuote con informi e inerti plena materiali. Data l’indole iperrealistica dell’universo dei segni rivelativi che, per ragioni d’essenza, donano con un’unica manifestazione e indistinguibilmente realtà e senso, rendendo possibili le manifestazioni mitiche, la comprensione e l’azione nell’universo profano alla luce dei dati e delle strutture costituenti i modelli e i paradigmi mitico-rituali esigono l’unione reale e non puramente simbolica o metaforica nella teoria e nella prassi (rito) degli eventi significativi svoltisi negli spazi e nei tempi forti del mito (illo tempore) con quelli auspicati o temuti negli spazi e nei tempi significativamente deboli e quasi inesistenti dell’universo profano. Una congiunzione culminante, di norma, nei noti fenomeni intrusivi di qualsivoglia esistente da parte del Sacro benigno o maligno, denominati possessioni e infestazioni, senza che ciò comporti mai l’annullamento della differenza tra il Sacro e il profano, sebbene gli eventi mitici, per ovvie ragioni d’efficacia, devono ripetersi ora come allora e ubiquamente, cioè dappertutto, quando e dove le supreme ragioni umane di senso e d’esistenza rendono necessario l’irrompere salvifico del Sacro nel mondo. Inoltre, gli eventi mitici, proprio perché paradigmi di senso e d’esistenza non formali, non possono scomparire mai per mera dimenticanza, come suole accadere agli eventi profani che dipendono dalla labile memoria dei singoli e delle collettività, ma solo quando, svanita la cogenza con lo sbiadire della legittimazione sacrale, essi implodono inevitabilmente su se stessi e, caduti in rottami, sono abbandonati dai devoti e scompaiono, scivolando nelle fratture del tempo.

          L’apparente irrazionalità – intesa, poi, di volta in volta, in chiave mistica, estetologica, psicoanalitica, psichiatrica, etc. – delle credenze mitiche e dei comportamenti rituali non emana, per l’antropologia fenomenologica, dall’indole stravagante dei dati, delle loro qualità e delle loro relazioni, ma dagli stravolgimenti procurati inavvertitamente ad essi da tecniche analitiche che presuppongono principi e criteri metodologici il cui reale raggio d’azione non è stato indagato fino in fondo e che impiegano strumenti inadeguati alla specifica ricognizione delle culture a base mitico-rituale.  Il principio del realismo segnico o dell’iperrealismo, ad esempio, scoperto dalla fenomenologia, il cui ruolo fondamentale nei miti e nei riti è quello di renderli possibili e comprensibili, significa e opera solo all’interno di vissuti impersonali, generando spazi dell’ubiquità, tempi della ripetizione e logiche dell’identità non parmenidea, tutte strutture di senso iperreali puntualmente stravolte e annichilite da interpretazioni che, dando per scontati principi del tutto alieni rispetto a quelli del realismo segnico, quale, ad es., la norma della divaricazione occidentale tra segno, senso e referente e, quindi, l’inevitabile erranza semantica dei segni, leggono i miti e i riti attraverso le lenti colorate e deformanti del simbolico e del metaforico, riducendoli in tal modo a gratuite e ininfluenti stravaganze letterarie e comportamentali o a calcolati espedienti per perseguire interessi ideologici o economici.

          Assunto, allora, con tutte le sue interne articolazioni semantiche, il mito cosmogonico biblico come modello interpretativo e come paradigma comportamentale, garantito da una rivelazione potente, su tutto ciò che di negativo v’è nella vita del mondo e dell’uomo cala una variegata maschera del male che esibisce, come senso e come referente reali, le fattezze originarie delle Acque, dell’Abisso e dei loro molteplici accoliti mostruosi, figure potenti composte di residui caotici di una creazione non rifinita, sconfitte, ma non uccise, e respinte nelle bassure del cosmo. Esse, tuttavia, amano rigurgitare pericolosamente tra gli interstizi e le crepe degli spazi e dei tempi del cosmo e, trascinando via ogni cosa d’esistente, reinstallerebbero, dilagando nel Creato, la prototipica condizione originaria della Notte caotica di prima degli enti, se dall’alto dei Cieli non irrompessero a difesa, secondo il dettato biblico, nei moduli sanciti, una volta per tutte, da un prototipico conflitto cosmogonico che si deve rinnovare ora come allora e ubiquamente, il Signore e le alate schiere dei Suoi Angeli. È impossibile comprendere l’apparente assurdità di qualunque interpretazione mitica dell’esistente e della sua operatività rituale, fondate su di una coniugazione semantica e pragmatica reale tra eventi mitici ed eventi profani, ritenuta come condizione necessaria e sufficiente per la correttezza del conoscere e per l’efficacia dell’agire degli uomini, senza cogliere fenomenologicamente il principio logico dell’identità non parmenidea, cioè iletica e non noetica, secondo cui, diversamente dalla logica occidentale standard, è sufficiente l’analogia, l’omologia e la mera contiguità spazio-temporale tra gli enti o tra gli stati di enti per far scattare una singolare identità di essi. 103 Ogni lotta dell’esistenza, piccola o grande, individuale o collettiva, ad esempio, è miticamente e ritualmente vissuta e intesa come ripetizione del conflitto cosmogonico, ove gli eventi mitici si ripresentano coniugandosi realmente con gli eventi profani, attuando nel rito l’operazione salvifica che, se accadrà, andrà in porto necessariamente come accadde all’atto creativo stesso, compiuto dall’alto da Dio, identificandosi, in tal modo, ileticamente con essi e dandosi come identici e diversi contestualmente, senza che i vissuti sacri divengano per ciò stesso profani e viceversa, e, quindi, sottraendosi del tutto al principio di contraddizione, strettamente relato all’identità noetica.

          Sovralimentati e sovradimensionati dalla rivelazione cosmogonica, l’acqua biblica e i mostri che vi abitano  sono sottoposti a metamorfosi semantiche molteplici e variegate per calzare, restando, sempre, se stessi, le maschere del male radicale, dei nemici di Dio e degli uomini, delle passioni che rovinano l’esistenza, delle malattie e della morte senza riscatto. 104 Così la punizione esemplare per la violenza dell’uomo sulla terra  non può che essere il Diluvio Universale, attuato da Dio riaprendo le fonti dell’Abisso e le cateratte del cielo che aveva sigillate agli inizi e ripristinando in gran parte nel mondo, con la rottura delle dighe di contenimento, il dominio acqueo della condizione caotica. 105 Venivano, in tal modo, spiegate e giustificate come sanzioni meteoriche divine, impiegando per articolazione un potente archetipo mitico, le ricorrenti alluvioni medio-orientali improvvise ed imponenti 106 , dalle quali, vissute come onde della distruzione e della morte, solo Dio che, come farà Gesù, suole incedere sulle onde del mare 107 , aleggiando altissimo prima del verbo cosmogonico, può salvare, discendendo a volo radente, senza prendere terra, per indicare, per mettere in guardia, per arbitrare, per giudicare, per guidare il popolo, proteggendolo dai nemici e  spingendolo alla santità. Potenti gesta divine da intendere tutte come azioni volte  alla conservazione di quanto creato che, secondo la logica e l’economia del modello mitico, può essere conseguita solo mediante la ripetizione puntuale, ogni volta che occorre, delle azioni prototipiche cosmogoniche. Così il Signore che cavalca nei cieli eterni, assiso sulla tempesta, scatenerà sempre con forza il tuono giù negli abissi 108 per atterrirli e sull’immensità delle acque 109 per arginarle, quando esse staranno per inghiottire o per sommergere i Suoi devoti 110 e, in tal senso, è noto che accogliendo l’invocazione di David, circondato dai flutti della morte e avviluppato nelle funi degli inferi, Dio si sia librato sulle ali del vento, cavalcando un cherubino, e “dall’alto stese la mano e mi prese; mi fece uscire dalle grandi acque”. 111 Le nazioni straniere false e menzognere 112 , che sogliono saccheggiare e depredare una piccola comunità umana come Israele, sono sovente popoli immensi, vissuti e intesi miticamente come lo scroscio fragoroso di molte acque che scorrono veementi, trascinando via ogni cosa, o come i mostri  – Raab 113 , il Leviatano, Tannin, il grande Coccodrillo 114 , etc. – che le abitano, ma simili nazioni, per quanto potenti e superbe, finiranno tutte con l’essere disperse sui monti dal Signore degli eserciti “come pula dal vento” 115 . Tutte le guerre, pertanto, sono vissute ed intese miticamente come guerre sante combattute contro il Male alla presenza e sotto la guida del Signore degli eserciti ed esse vanno ritualmente intese ed eseguite come la reiterazione cerimoniale dello scontro prototipico rivelato dal mito cosmogonico conclusosi con la vittoria della potenza creatrice e la sconfitta della potenza caotica e distruttiva. Ma se le vittorie sono, ovviamente, vittorie del Signore e l’herem, di fatto, dona ritualmente a Lui quello che è dovuto, le sconfitte degli eserciti e la rovinosa caduta d’Israele sono vissute e intese miticamente come punizioni divine 116 da attribuire o al semplice abbandono di Dio 117 o, addirittura, al suo diretto intervento devastante a fianco dei popoli aggressori che, in questo caso, diventano addirittura “la spada di Yahweh”, vendicatrice dell’infedeltà di un  popolo che ha tradito il Patto stipulato da Mosè con il Dio degli eserciti, e che spesso verranno anche impiegati per distruggere i popoli che opprimono Israele. 118

          Il vissuto dell’ostilità mitica con l’elemento acqueo si ripresenta integro in altri significativi accadimenti e, anzitutto, all’interno del grande racconto dell’Esodo e della conquista di Canaan, che è ritenuto da M. Liverani “una formula” in cui il clima generato dalle deportazioni assire e da quelle babilonesi, saldatosi “con le storie patriarcali di transumanza pastorale tra il Sinai e il Delta del Nilo, con storie di lavoro coatto di gruppi di habiru nelle imprese edilizie dei Ramessidi”, si fissava miticamente tra il VII e il V secolo prefigurandolo, per così dire, nell’evento prototipico dell’uscita improvvisa di Abramo da Ur dei Caldei per comandamento di un dio ignoto. 119 Certamente “l’immagine del deserto, nel complesso Esodo-Numeri non è di tipo pastorale, dove le tribù vivono a loro agio”, e l’evidente stato di profonda sofferenza per gli stenti e per i pericoli della vita nomade, testimoniato ampiamente nel racconto, poteva nascere e alimentarsi solo nella mente e nel cuore di comunità d’ambientazione cittadina. 120 Tuttavia, l’essenza di questa grande configurazione mitica, indubbiamente postesilica, non si alimenta, a mio avviso, attingendo semplicemente ai vissuti nomadici o seminomadici del deserto e della steppa alla perenne ricerca di “pascoli verdi”, che, di certo, stanno nello sfondo dell’Esodo come indispensabile scenario drammatico di un inaudito cimento, ma, soprattutto, ai vissuti del grande archetipo umano di un possibile riscatto radicale, che nella formula mitica risalente all’epoca di Giosia, colpa-punizione- pentimento-perdono-salvezza, dopo il disastro del 587 a.C., sembra imposto all’uomo imperscrutabilmente dall’alto con la voce di un imperativo misterioso, quando l’esistenza, divenuta servile, corrotta e miserabile, appare intollerabilmente indegna di essere vissuta. Esso ordina “l’Esodo”, cioè, anzitutto, una violenta lacerazione che svelle definitivamente l’uomo colpevole e inerte dalla infelice condizione in cui trascina i suoi giorni per sottoporlo ad un lungo travaglio di prove fisiche e psichiche estenuanti, prima di toccare, se superate, la Terra Promessa, raggiungendo in tal modo la salvezza. Il celebre passaggio del Mar Rosso o del Mar dei Giunchi, ove Dio apre una strada asciutta elevando ai fianchi di un popolo in fuga due muraglie d’acqua che poi si rovesceranno caoticamente sugli inseguitori, trascinandoli negli abissi della morte 121 , o l’arresto dalla parte superiore delle acque del Giordano, che fluivano gonfie fin sopra tutte le sponde, all’entrata dell’Arca nell’acqua durante l’attraversamento del popolo guidato da Giosuè 122 , o le brecce aperte dal Signore tra le schiere nemiche, intese come brecce aperte dalle acque 123 , o ancora il transito del Giordano da parte di Elia che si aprì un cammino sull’asciutto separando le acque sotto i colpi del suo mantello arrotolato 124 , o persino il sentiero asciutto che tra una marea e l’altra guida i pellegrini a Mont-Saint-Michel in Normandia, sono indubbiamente azioni umane rese comprensibili e possibili solo perché coniugate con le letterali riattivazioni del mito della separazione delle Acque, da cui ha avuto origine la vita stessa. Per quando alto sia il fragore delle grandi acque “più potente dei flutti del mare, potente nell’alto è il Signore”. 125

          È, quindi, emerso che Yahweh, di remota origine nomadica tribale ed etnica o di tarda matrice cittadina esclusivamente postesilica, assunto come Signore degli eserciti che impone e guida il riscatto nazionale di una comunità di reduci, già privati della propria patria ed oppressi in terra straniera, gode dell’epiteto d’Altissimo non perché abiti o soggiorni transitoriamente sulle vette dei monti, ove preferisce rivelarsi, ma per l’intimo motivo mitico che Egli prima che il mondo venisse alla luce si librava da sempre al di sopra di qualunque bassura abissale e acquea. Se, da una parte, l’altezza della vetta può pure essere una condizione sufficiente perché sia frequentata da un Dio uranico che aduni le nubi e rappresentare un sito, per così dire, strategico per l’incontro tra l’uomo che sale e il Sacro che discende, dall’altra essa non rappresenta in alcun modo una condizione necessaria. Si narra certamente che Salomone si sia recato a Gàbaon per offrirvi sacrifici e bruciare incenso perché ivi sorgeva la più grande altura e, dopo l’offerta di mille olocausti, il Signore gli apparve puntualmente in sogno durante la notte, concedendogli saggezza, ricchezza e gloria. 126 Tuttavia, qualsivoglia luogo, se ivi si rivela Yahweh o le Sue molteplici epifanie, diventa, per ciò stesso e sempre, per intrinseche ragioni mitiche, una montagna altissima e cosmica, in altre parole un Axis Mundi, com’è testimoniato nel celebre sogno durante la santa incubazione dell’ignaro Giacobbe, addormentatosi a Betel su una pietra presa a caso come guanciale, ove la visione della scala tra cielo e terra, discesa e salita dagli angeli di Dio, divenne per lui l’indubbia prova che quel terribile sito, non specificamente montano, era “la casa di Dio e la porta del Cielo”. 127 Non solo, quindi, la pietra innalzata e unta cultualmente da Giacobbe come betel è un luogo “altissimo”perché Dio trovasi in ogni modo presente e va incontro ai fedeli, ma lo è, anche, qualunque tempio o santuario come valenza cosmica e come vero e proprio Axis Mundi, inteso come un canale di comunicazione tra il profano impotente e il Sacro potente. 128 La formula del voto di Giacobbe, presa come un esempio tra mille altri, mi consente, ora, di chiudere la presente analisi con la ripresa fenomenologica di un’incongruenza ermeneutica, invisibilmente operante nella cultura occidentale, che, sebbene l’abbia introdotta fin dall’inizio, va riproposta conclusivamente all’attenzione perché il senso dell’intero discorso qui svolto presuppone il disoccultamento di essa e delle sue svianti conseguenze semantiche, nell’area dell’ermeneutica del Sacro dove esse si trovano, auspicandone la rimozione.

          È noto che noi sogliamo parlare comunemente di luoghi, di persone, di oggetti, qualificandoli come sacri; ma cosa intendiamo esattamente quando affermiamo la sacralità di un albero, di una pietra, di un monte, di un’icona, di una statua, della tomba di un martire ? Per sopprimere “un certo disagio”, cui alludeva Mircea Eliade, cioè il malcelato timore “di cadere nel paganesimo”, se si venerano pietre, alberi o pezzi di legno in se stessi, lo storico delle religioni rumeno pensò di proporre una definizione della ierofania che, a mio avviso, può essere assunta come canonica per la cultura occidentale : “la manifestazione di qualcosa di completamente diverso, di una realtà che non appartiene al nostro mondo, in oggetti che fanno parte integrante del nostro mondo ‘naturale’, ‘profano’”. 129 Che una simile definizione, invero alquanto contorta, vada confinata all’interno del perimetro della cultura occidentale, lo si deve al rilievo fenomenologico, già anticipato, che i principi e i concetti presupposti e operanti in questa formulazione e in altre consimili sono, di norma, assenti nelle culture a fondamento sacrale, tra le quali va annoverata anche quella di matrice ampiamente semitica. La decostruzione fenomenologica dei vissuti dell’idea di natura e delle leggi naturali mostra una specifica costituzione di senso ove è possibile individuare, come elementi essenziali, l’indole fenomenica e quindi intimamente insatura dei suoi dati manifestativi, l’esistenza nel cuore di questi di un nocciolo materico informe, oscuro, inanimato, estraneo di principio all’altra componente, quella noetica, destinata come morphè a svolgere in maniera esclusiva l’eminente e indispensabile attività di saturazione cognitiva ed esistenziale dell’universo fenomenico, elargendo, in qualità di logos, alla materia informe e disorganica in sé, un ordine e una connessione significanti. L’idea, ora, del soprannaturale come una sfera d’esistenza che trascendendo del tutto gli spazi e i tempi della natura – qualificata in Occidente senz’altro come “profana” – pensa un dio ganz Andere, identifica, per la fenomenologia, un mero noetòn, perché attinge dalla noesis del razionalismo ellenico tutti i suoi più eminenti connotati, tra i quali quello dell’immaterialità come puro spirito, che sottraendolo necessariamente alle deficienze fisiche e morali di quel nocciolo materico, presente in ogni esistenza sensibile, responsabile di tutti i mali fisici e psichici del mondo naturale, lo significa, appunto, come l’assolutamente Altro. Ma l’analisi dei vissuti sacrali ha mostrato che Yahweh, nei Suoi rapporti positivi o negativi con gli esseri umani, non è in alcun modo riducibile ad un noetòn trascendente che ama sottrarsi a loro per evitare la contaminazione con una materia silente nel grembo di una natura abbandonata a se stessa dopo l’atto creativo. Un’idea di natura, questa, che, insieme, a mio avviso, a quella di storia, sono semiticamente inesistenti e, a mio avviso, fenomenologicamente impossibili.

           Yahweh, in realtà, non è inaccessibile all’intero plesso dei sensi, ma preferisce, di gran lunga, manifestarsi attraverso la voce e l’udito piuttosto che l’immagine e la vista, impiegando come veicolo una realtà sonora, e, dato il notorio Suo ruolo di consulente e di salvatore, deve essere presente, senza soggiornare necessariamente in maniera definitiva, con o senza epifanie angeliche, stando a diffusissime testimonianze bibliche, in luoghi o in enti animati e inanimati reali qualsivoglia. L’aniconismo ebraico, pertanto, non avrebbe nulla a che vedere con il vissuto della trascendenza di Yahweh, ma con quello mitico della Sua “santità” anticananea, che gli impone d’essere presente dovunque e quando lo voglia, senza mai coincidere iconicamente, per così dire, con le forme delle realtà in cui trovasi e da cui, rivolgendosi ai devoti, parla,  cercando di sottrarre, in tal modo, l’uomo alle tentazioni di praticare quel culto idolatrico che, beninteso, è aborrito non perché la statua è fatta di materia in senso ellenico, ma perché rappresenta un dio che, a differenza di Yahweh – che è il solo che è – è ingannatore e corruttore perché non esiste. Anche l’identificazione di pagano con naturale, quindi con mondano, e l’idea conseguenziale di una religione pagana come religione naturale, rigorosamente distinta da una religione rivelata, sono per la fenomenologia concezioni tipiche di culture che, come quelle occidentali od occidentalizzate, avendo smarrito il ruolo e la funzione generali e ultramillenari della postura rivelativa nella storia dell’uomo e, confondendo rivelazione e rivelazione sacrale, fenomeno e rivelazione, ignorano il principio d’essenza che tutte le religioni devono possedere necessariamente una base rivelativa e non fenomenica perché un dio possa manifestarsi, rivelandosi all’uomo in qualsivoglia modo.

          È, insomma, fenomenologicamente emerso, che la componente propriamente reale – cioè, usando l’antico termine greco, la hyle – dei vissuti rivelativi  non è in alcun modo identificabile con la componente reale presente nei vissuti fenomenici, intesa, a partire dai Greci, come materia, cioè come un nocciolo oscuro, impenetrabile, informe, insensato, atono, etc. giacente nel fondo di ogni esistenza, del tutto scisso da una noesis, pensata e vissuta come la componente intelligente e volitiva in maniera esclusiva dei vissuti fenomenici ed opposta alla materia come negazione di essa. La hyle rivelativa, invece, sebbene analogamente alla hyle fenomenica, cioè alla materia, eserciti anch’essa il ruolo e la funzione di componente non intenzionale del vissuto, è, anzitutto, del tutto priva dei predicati sopra elencati che significano la hyle fenomenica, identificandola come materia, ed è inscindibile dalla noesis intenzionale donatrice di senso. Secondo la fenomenologia, essa esercita in maniera esclusiva la funzione fondamentale di portare a manifestazione l’esistente in generale 130 . Pertanto, se la realtà esibita dai vissuti rivelativi è altra rispetto a quella rinvenibile nei vissuti fenomenici, diventa, allora, del tutto superfluo il quesito se Dio sia realmente presente nella vetta di un monte, in una roccia, in un albero, in un oggetto fabbrile, oppure no, se possa assumere le forme degli enti durante il Suo temporaneo soggiorno sulla terra ed essere così raffigurabile o meno, dopo che l’analisi fenomenologica ha mostrato che i vissuti delle culture a fondamento mitico-rituale ignorano le concezioni naturalistiche od oggettivistiche del reale e non possono essere intesi impiegando simili aliene strutture di senso. Solo, allora, a mio avviso, sarà possibile rimuovere, estirpandolo – si spera - alla radice, quel “disagio”, cui alludeva Eliade, che, per quanto privo di consistenza reale, ha sempre alimentato e alimenta secolari pregiudizi valutativi, persino anche presso certi addetti ai lavori, nei confronti delle credenze e dei comportamenti “magici” e “superstiziosi” delle popolazioni “pagane” della Terra.      



1 Sal. 121, 1.


2 L’invisibilità, cui alludo, è dovuta, eminentemente, all’irresistibile strapotere dell’immagine e, in generale, al riduzionismo estetologico nell’odierna cultura cosiddetta postmoderna.


3 Mi permetto di rinviare a due miei testi “I selvaggi e noi. Una relazione conoscitiva inedita”, in La diversità in età moderna e contemporanea, a cura di L. Cavazzoli, Name, Genova 2001, pp. 105-117 e Per un trattato fenomenologico di antropologia culturale, (http://www.hieros.it/conci/index.htm).


4 Un’utile e brillante silloge degli studiosi che hanno assunto i dati biblici come fonti per la storia d’Israele si trova nel testo di G. GARBINI, Storia e ideologia nell’Israele Antico, Paideia, Brescia 1986, pp. 15-41.

 

5 Lettera Enciclica di S.S. Papa Giovanni Paolo II, Fides et ratio, nn. 8-9.

 

6 Ibid., n. 42. La fenomenologia coglie qui una vera e propria incompatibilità d’essenza.

 

7   F.W.J. SCHELLING , Il Monoteismo, a cura di L. Lotito, Mursia, Milano 2002, p.19.

 

8 Mi permetto di rinviare al mio saggio “Tra apparire ed essere, Fenomenologia della natura come segno culturale occidentale”, a cura di M. Sanchez Sorondo, Physica, Cosmologia, Naturphilosophie: nuovi approcci, Herder - Pontificia Università Lateranense, Roma 1993. La manifestazione fenomenica, impostasi in Occidente fin dall’alba della grecità, ove per principio l’apparire e l’essere non coincidono, è insatura e la necessaria saturazione, sempre relativa, la si raggiunge di norma con strutture di senso particolari, cioè operando con modelli  spaziali prospettici, con modelli temporali irreversibili, cioè “storici”, con logiche basate sul principio noetico d’identità (A=A), di natura autoreferenziale, di remota origine parmenidea. Tale complesso lavorìo esercitato sull’intero campo fenomenico da parte di un logos pensato ad hoc, approda alla polarità generale soggetto-oggetto. La manifestazione rivelativa, viceversa, è satura a priori perché in essa apparire ed essere coincidono necessariamente e ciò implica che i segni rivelativi sono, per il principio del realismo segnico che sancisce l’indistinzione tra segni, significati e referenti, realissimi per eccellenza, cioè iperreali. Il termine iperreale allude all’indole presentativa del segno, propria del realismo segnico, a differenza dell’indole rappresentativa dei segni nell’opposta semantica della divaricazione tra segno, senso e referente, ove per realismo s’intende l’effetto mimetico riuscito del segno. Tali dati si rivelano sempre ordinati in modelli spaziali non prospettici, ubiqui, e in modelli temporali non storici, reversibili (tempi della ripetizione). Il principio identitario della logica rivelativa è, inoltre, d’indole iletica nel senso che sono vissuti ed intesi come identici enti o stati di cose che per una logica dall’identità noetica sarebbero solo analoghi (similarità di contenuto), omologhi (similarità di forma) o contigui nello spazio o nel tempo. Nei vissuti rivelativi, per altro, non sono rinvenibili mai, per ragioni d’essenza, polarizzazioni come quella “soggetto-oggetto”, fatti salvi stati d’ibridismo culturale (come in Occidente). Fenomeno e rivelazione sono, quindi, per la fenomenologia modalità manifestative che non devono essere confuse in alcun modo, anche perché sono reciprocamente incommensurabili nei loro dati e nelle loro strutture di senso.

 

9 È, pertanto, opportuno impiegare l’iniziale maiuscola solo quando si parla di una rivelazione sacrale.

 

10 In definitiva la manifestazione fenomenica non è altro che una manifestazione rivelativa collassata perché ha smarrito l’identificazione di apparire ed essere (la physis ama nascondersi) e quindi il fondamento di quel realismo inaudito che, appellandomi al principio del realismo segnico, ho chiamato   “iperrealismo”.

 

11 Ripeto che impiego sovente i termini “iperreale”, “iperrealismo” in quel preciso significato fenomenologico che intende l’indole identificativa  e presentativa del rapporto tra il segno, il senso e l’ente di riferimento e non quella meramente rappresentativa cui alludono in Occidente termini, apparentemente simili, quali “realismo”, “reale”, riferibili all’adeguatezza dell’imitazione.

 

12 Onde evitare possibili equivoci, va precisato che anche il dato rivelativo, analogamente a quello fenomenico, può presentare lacune, sovrapposizioni e contrasti nel campo manifestativo. Ma mentre il dato rivelativo va integrato, corretto, corroborato e interpretato appellandosi sempre ad ulteriori rivelazioni, il dato fenomenico, la cui modalità di apparizione lo mostra come una rivelazione collassata – non a caso compare agli inizi della storia dell’Occidente all’indomani della crisi del sistema mitico-rituale in generale e, quindi, coevo all’implosione della postura rivelativa medesima - può essere trattato solo appellandosi ad un logos inaudito privo di base rivelativa che impiega modelli d’ordine e di connessione dei dati fenomenici operando dall’esterno di questi e trasmesso da una coscienza egocentrata.

 

13 Fides et ratio, op.cit., n. 13.

 

14 Ibid., p.79.

 

15 Cfr. C.H. DODD, The Bible and the Greeks, Hodder & Stoughton, Londra 1964, pp. 198 e ss.

 

16 Fides et ratio, op. cit., n. 35, n. 97.

 

17 Sono rivelazioni profane tutte quelle che, annunziando l’intero plesso degli aspetti negativi dell’esistenza, manifestano l’impotenza totale dell’uomo e del mondo se sono abbandonati inermi a sé stessi.

 

18 È doveroso precisare che lo stato di cose qui denunziato non è dovuto ad errori ermeneutici, ma è stato indotto da potenti e inevitabili condizionamenti culturali.

 

19 L’attività distruttiva del tempo può divertirsi a cancellare un mito salvando il rito e viceversa. E questo complica non poco l’ermeneutica generale del mito e del rito. Distrutto il rito, il mito corrispondente può essere facilmente frainteso come racconto fiabesco, discorso metafisico-teologico, etc., mentre, con la scomparsa del mito, il rito si tenderà a ridurlo alla sfera dei comportamenti magici e “superstiziosi”.

 

20 Mi riferisco a certe testimonianze offerte da alcune tavolette di Mari (inizio II millennio).

 

21 P.R.S. MOOREY, Un secolo di Archeologia Biblica, Electa, Milano 1998, p. 62.

 

22 M. LIVERANI, Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele, G. Laterza & Figli, Bari 2003, p. 309.

 

23 E. ANATI, Har Karkom. Montagna sacra nel deserto dell’Esodo, Jaca Book, Milano 1984.

 

24 Es 24,4. La scelta del numero dodici per le tribù d’Israele è connessa con i mesi dell’anno e si fonda su esigenze liturgiche templari (cfr. G. GARBINI, op.cit., pp. 169-174).

 

25 Es 33, 18-23.

 

26 1 Re 19, 9-18.

 

27 E. ANATI, op.cit., p. 121.

 

28 P.R.S. MOOREY, op. cit., p.128.

 

29 Ibid., p. 129.

 

30 Cfr. la voce “agriculture” in Archaeological Encyclopedia of the Holy Land, ed. By Avraham Negev and Shimon Gibson, Continuum, New York London  2001.

 

31 Lo scavo archeologico ha, del resto, accertato, per esempio, che Gerico era deserta di abitanti nel XVII e nel XVI sec. e, dopo il XIV secolo, quando, secondo il racconto della mirabolante caduta, Giosuè l’avrebbe conquistata con il crollo delle mura al suono delle trombe (Tarda Età del Bronzo II) in quell’area, ridotta ad un cumulo di rovine, non sarebbe esistito alcun insediamento abitativo vero e proprio, ad eccezione di qualche capanna isolata (cfr. la voce “Jericho” in Archaeological Encyclopedia, op.cit. e P. R. S. MOOREY, op. cit., p. 56).

 

32 M. LIVERANI, op.cit., pp. 404 e ss..

 

33 Il tempio e il palazzo di Salomone sono ritenuti progetti d’età persiana, proiettati retrospettivamente. L’archeologia esclude costruzioni di tali imponenti dimensioni, perché esse superano di molto lo spazio disponibile nella Gerusalemme del X secolo (Ibid., p. 112).

 

34 Ibid., p. 358.

 

35 Con tale termine, da tradurre “anatema”, s’intende la distruzione rituale del nemico, essendo tutto votato a Yahweh che è sempre l’artefice unico d’ogni vittoria.

 

36 Va ricordato, per altro, che, verso la fine del V secolo a. C., prese forma a Sichem, sul monte Gerizim, un tempio dedicato a Yahweh, le cui credenziali non erano, certo, meno valide di quello di Gerusalemme.

 

37 M. LIVERANI, op.cit., pp. 194-195.

 

38 È nota la presenza di culti non yahwistici nel tempio stesso di Salomone, rivolti a Baal, Asherah, al Sole, alla Luna e ad altre divinità astrali.

 

39 Ibid., p. IX.

 

40 Ibid., p. 87.

 

41 Ibid., pp. 74-76.

 

42 V. HAAS, Hethitische Berggoetter und hurritische Steindaemonen. Riten, Kulte und Mythen, Philipp von Zabern, Mainz am Rhein 1982, p. 12.

 

43 Cfr. R. PETTAZZONI, L’onniscienza di Dio, Einaudi, Torino 1955, pp. 23 e ss.. Cfr. Lv, 26, Dt, 28.

 

44 P. MERLO, La dea Ashera. Un contributo alla storia della religione semitica del Nord, Pontificia Università Lateranense Mursia, Azzate (Varese) 1998, p. 23, p. 27.

 

45 Ibid., p.133, pp. 213 e ss..

 

46 Dt. 2,3; 16,21.

 

47 V. HAAS, op.cit., p. 105.

 

48 P. MERLO, op.cit., p.134, p. 224.

 

49 Intendo con tale espressione una logica, d’origine occidentale, basata sulla legge d’identità autoreferenziale – fenomenologicamente qualificabile come “noetica” – per cui un ente è identico solo a se stesso. Qualificherò, in seguito, come “iletica” un tipo di logica altra – rinvenibile nei sistemi a fondamento mitico-rituale – che si fonda su una legge d’identità non autoreferenziale, per cui enti o stati di cose possono essere ritenuti senz’altro identici, se sono analoghi (per contenuto), omologhi (per forma) o semplicemente contigui nello spazio o nel tempo.

 

50 Sebbene le varie culture vedono probabilmente le stesse cose, ma le interpretano in maniera diversa, tuttavia, come già anticipato, essendo di gran lunga più imponente e determinante, nei rapporti tra l’uomo e il mondo, la componente interpretativo-costruttiva, rispetto a quella informativa, ciò suscita il convincimento irresistibile che esse vedono cose differenti.

 

51 Il pluralismo religioso è difficilmente estirpabile, specialmente nella cultura cosiddetta popolare, e il culto di Yahweh, per sopravvivere, sarà sceso probabilmente a compromessi con i potenti culti di Ba’al e di Astarte, sia pure con alterne vicende, come, del resto, testimonia ampiamente la Bibbia. Mi riferisco ai culti agrari palestinesi della fertilità con bamot (santuari sulle alture), stele di pietra (massebot) e aserot/aserim (tronchi decorati?)(cfr. M. LIVERANI, op. cit., p. 135, p. 155).

 

52 G. FURLANI, La religione degli Ittiti, N. Zanichelli, Bologna 1936, pp. 36 e ss..

 

53 Ad Ugarit, per es., la montagna era considerata sacra per se stessa.

 

54 Mi permetto di rinviare al mio articolo “I rapporti mitico-rituali tra cielo e terra fino alla prima Età del Ferro” in I riti dell’acqua e della terra nel folklore religioso, nel lavoro e nella tradizione orale, a cura di A. Achilli e L. Galli, Edup Roma, Roma 2006, pp. 295-316.

 

55 2 Mac 5, 15-20; Ez 10, 18-22; 11, 22-25.

 

56   1 Sam 28, 6.

 

57 Gen 28, 17. Michea afferma di aver visto il Signore seduto in trono circondato da tutto l’esercito del Cielo (1Re, 22, 19).

 

58 Es 33, 23.

 

59 Es 33, 18-23. Non meno pericoloso è, comunque, ascoltare la voce di Yahweh (Dt  4 , 33).

 

60 Gen 18.

 

61 Gen 22.

 

62 Gen 32, 23-33.

 

63 Es 3.

 

64 Es 12, 29-34.

 

65 1Cr 21, 14-17.

 

66 Tb 12, 15-22.

 

67 Es 13, 21-22; Nm 9, 15-23.

 

68 Es 19, 16; 20, 18.

 

69 Es 23, 28.

 

70 Gs 5, 13-15.

 

71 2 Re 19, 35; 2 Cr 32, 20-23.

 

72 Is 10, 5-7; Ger 51,20; 50,23.

 

73 2 Mac 3, 24-34; 10, 29-30; 11, 6-11; 12, 22.

 

74 Dn 3, 48-50; 6, 22-23.

 

75 Dt 4 10-31.

 

76 Es 19, 16-18.

 

77 2Cr 5, 11-14.

 

78 Dt 5, 24-26.

 

79 1 Sam 16, 14; 18, 10.

 

80 Gen 1,1.

 

81 Gdc 13, 17-25.

 

82 1 Re 19, 11-13.

 

83 1 Cr 14, 15; 2 Sam 5, 24.

 

84 Ez 37, 1-14.

 

85 Es 19, 20-25.

 

86 Dt 32, 48-52.

 

87 Così, la terra sussulta, i monti fumano e il fuoco brucia d’intorno tutti i nemici d’Israele non perché vi abita Yahweh, ma perché Egli l’ha solo guardata, perché ha appena toccato le vette e perché avanza contro i nemici stando dietro al fuoco (Sal 104, 32; Sal 97, 3).

 

88 Cfr., ad es., Is 13; Is 41.

 

89 Cfr. Gb 38, 39, 40, 41.

 

90 Cfr. Sal 104. “O forse i cieli mandan rovesci da sé ?” (Ger 10, 12-13; Ger 14, 22; Ger 51, 16). “Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non vuoi ? O conservarsi se tu non l’avessi chiamata all’esistenza ?” (Sap 11,25; Gl 2, 21-27).

 

91 Questa singolare modalità figurativa, denominata in sintesi “ubiquità”, è la norma nelle culture non occidentali e ricompare, in una certa misura, in Occidente con la crisi della concezione prospettica e l’avvento del Cubismo. Costituisce, in realtà, una delle prove fenomenologiche più evidenti dell’assenza di quel testimonio oculare, cui alludeva E.H. Gombrich, che va inteso fenomenologicamente come coscienza priva della polarità egologica su cui costruire la prospettiva. Mi permetto di rinviare, inoltre, al mio articolo “Tempi sacri e tempi profani nelle culture a fondamento rivelativo. Analisi fenomenologiche”, Annuario filosofico, vol. XVII, Mursia , Milano 2001, pp. 135-189.

 

92 Vedi nota 8.

 

93 Per costruire, ad es., una nuova piroga secondo teoriche e pratiche mitico-rituali e perché possa riuscire bene non è sufficiente, oltre ai materiali necessari e agli strumenti idonei, la perizia tecnica, elargita sempre alla comunità da un Eroe Civilizzatore tribale rivelativamente, ma occorre sempre invocarlo concretamente perché intervenga, cantando, magari, ritualmente il mito ergogonico che narra l’evento dell’invenzione della piroga. L’artigiano non lavora mai da solo, ma opera insieme all’Eroe culturale che penetra, se vuole, nel mondo impotente profano, possedendo, addirittura, l’uomo, pur senza annullarsi in lui. Così la nuova piroga è intesa, secondo un principio identitario non parmenideo, come contestualmente identica e diversa, rispetto a quella prototipica del mito. Cfr. per il termine “parmenideo” la nota 49.

 

94 I pensieri, i sentimenti e le azioni umane possiedono, in tal caso, una portata cosmica più o meno imponente che l’uomo delle culture secolarizzate può difficilmente comprendere in modi letterali e propri.

 

95 Mi permetto di rinviare al mio saggio “La guerra degli Angeli. Contributo ad una fenomenologia dei vissuti bellici”, Annuario filosofico, XV, Mursia, Milano 1999, pp.43-81.

 

96 Gen 1, 2.

 

97 L’ipostatizzazione dell’aggettivo è una concezione, a mio avviso, generalizzabile a tutti gli universi culturali a fondamento mitico-rituale. Nell’Oriente Antico era, comunque, comune.

 

98 1 Sam 16, 14-15.

 

99 Gb 3, 8; 26, 13; 40, 25; 41; Is 27, 1; 51, 9; Am 9, 3; Sal 74, 13-14; 89, 11; 104, 26; Gb 9, 13.

 

100 Mi permetto di rinviare al mio testo “Il Drago di San Michele. Fenomenologia dei vissuti originari del male”, in Bene, Male, Libertà, Seconda Navigazione. Annuario di filosofia 1999, a cura di V. Possenti, Mondadori, Milano 1999, pp. 261-290.

 

101 Gen 28, 17.

 

102 Lv 23, 3; 23-36. Lv 25, A-B.

 

103 Cfr. la nota 49.

 

104 Come il futuro Sargon di Akkad, esposto alle onde di un fiume in una cesta di canne impeciata, intorno al 2600 a.C., fu salvato da un addetto alle irrigazioni, anche Mosè, abbandonato alle onde del Nilo in un cestello di papiro, spalmato di bitume e di pece, fu sottratto miracolosamente alla morte dalla figlia del Faraone (Es 2, 1-10).

 

105 Gen 8, 2.

 

106 P.R.S. MOOREY, op.cit., p. 68.

 

107 Gb 9, 8.

 

108 Sal 77, 17-21.

 

109 Sal 29, 3-11; Sal  68, 34.

 

110 Sal 32, 6-7; Sal 104, 5-9.

 

111 Sal 18; 2 Sam 22.

 

112 Sal 144, 7-8.

 

113 Is 51, 9.

 

114 Ez 29, 3; Ez 32.

 

115 Is 17, 13-14.

 

116 Ger 50; Dn 3, 37.

 

117 1 Sam 28.

 

118 Ez 26 e ss.; Ez 32. Le analisi fenomenologiche non concordano con l’usuale lezione che attribuisce alla cultura ebraica la scoperta della storia. La Bibbia, in realtà, presenta delle liste genealogiche, di remota ascendenza nomadica – dato che i nomadi sogliono orientarsi sul tempo e non sullo spazio – e dei racconti più o meno mirabolanti che, attingendo realtà e senso da paradigmi mitici, non possono costituirsi mai come esempi storiografici, se non altro perché collocano gli eventi nei modelli spaziali dell’ubiquità e nei modelli temporali della ripetizione.

 

119 M. LIVERANI, op.cit., p. 307. Il pensiero corre subito al dio Luna della città di Ur che, insieme al pianeta Venere, guidava e proteggeva i viandanti illuminando di notte le steppe siriane.

 

120 Ibid., p. 309.

 

121 Es 14, 15-31; Is 51, 9-11.

 

122 Gs 3, 14-17.

 

123 2 Sam 5, 20-21.

 

124 2 Re 2, 1-18.

 

125 Sal 93, 3-4; Is 11, 15.

 

126 1Re 3, 2-5.

 

127 Gen 28, 10-22.

 

128 Ad es., Enlil, il “Signore atmosfera”, sovrano dell’universo dell’antico pantheon sumero, aveva residenza a Nippur e il tempio principale a lui dedicato, Ekur, significava “casa montagna”.

 

129 M. ELIADE, Il sacro e il profano, tr. it. di E. Ladini, P. Boringhieri, Torino 1967, p. 19.

 

130 Dall’intima costituzione dei vissuti rivelativi impersonali, qui appena schizzata, è possibile comprendere perché in essi la noesis – l’elemento intenzionale del vissuto - si presenta sempre incarnata e la hyle – l’elemento non intenzionale del vissuto - non può essere materia perché inscindibilmente connessa alla noesis intenzionale e da essa animata. Ma per tutti i vissuti, impersonali e personali, vale l’assioma fenomenologico che la noesis senza la hyle sarebbe invisibile, la hyle senza la noesis  sarebbe insensata.