18.

Il fenomenologo convive, quindi, esistenzialmente con la malattia culturale dei nostri tempi, senza poterla antagonizzare, perché non riesce più, avendolo smarrito, "a rimettersi al centro", come suole accadere sempre in condizioni culturali di sanità etnica. Ma egli trasforma, anche, come si è visto, il vissuto singolo e collettivo di smarrimento di certezze e di valori dell'intera cultura di appartenenza, istituzionalizzandolo in un vero e proprio strumento tecnico di preparazione e di supporto (epochè) per una inedita analisi degli altri e di se stesso.

La perdita del centro di riferimento identitario, l'annichilirsi dell'assolutezza e della esclusività dei propri criteri di valutazione, lo spaesamento esistenziale conseguente al vissuto del decentramento culturale, consentono ad una antropologia, che impieghi il metodo fenomenologico, l'esercizio di qualcosa di inaudito: un'analisi e una comprensione dell'altro come altro e non come diverso e una comprensione di se medesimo non come il centro, rispetto al quale tutti gli altri stanno in periferia, ad una distanza variamente misurabile, ma come un altro sperso sulla Terra insieme e accanto agli altri. Questo inedito approccio metodologico dovrebbe investire sia la raccolta dei dati che l'elaborazione delle stesse ipotesi antropologiche.

Altro e diverso non sono, per nulla, sinonimi. Ed è oltremodo inesatto tentare di intendere - come ho potuto constatare spesso - il termine "alterità" come espressione del massimo livello di scarto raggiunto da qualcosa in una scala in cui la diversità sia stata graduata a partire da un punto-zero identitario, perché altro e diverso sono, per ragioni strutturali, reciprocamente estranei e non sono in alcun modo sovrapponibili. L'altro è l'irrelato, il diverso, invece, è il relato. Ogni analisi che impieghi la categoria della diversità muove da un centro di riferimento identitario - comunque inteso - a partire dal quale è possibile, con agevole e utile precisione, misurare o valutare, poi, tutto il resto in termini e in valori di scarto, di devianza, di deficienza, di distanza, secondo moduli scalari, quantitativi e qualitativi qualsivoglia. E per la tecnica analitica che impieghi la categoria della diversità è del tutto ininfluente la circostanza che il centro di riferimento identitario non stia nella cultura di appartenenza dell'indigeno o dell'analista, ma sia collocato altrove, cioè in una alterità etnica qualsivoglia. Tale rovesciamento prospettico della relazione identità-differenza, ove il centro coincide, ora, con l'esotico e la periferia con il mondo nostrano, sebbene sia divenuto in Europa più frequente con la crisi generale del Novecento, può agevolmente esemplificarsi in tutti i casi in cui prevalgono tra gli studiosi e tra gli uomini comuni le credenze nel "buon selvaggio", in un "paradiso esotico", in "uno stato di natura, incontaminato dalle brutture della civiltà", nella immediatezza istintiva della cosiddetta "arte primitiva astratta"1 che rivelerebbe integralmente l'universo delle umane pulsioni, rimosso, altrove, dalla civilizzazione, secondo noti dogmi psicanalitici freudiani.

L'impiego della categoria della diversità o della differenza implica, inoltre, la generale possibilità - a priori - dell'uguaglianza degli esseri costitutivi di un insieme in questione, come caso limite della rimozione reale o possibile di tutte le differenze etniche riscontrate. Vale a dire: malgrado le differenze, tutti gli uomini, infatti, sono eguali. L'uso della categoria dell'alterità, invece, esclude tutto questo, e un'analisi svolta su entità in stato di irrelazione è un'analitica che, se si attiene alla molteplice e coacerva realtà del campo, non può che procedere secondo modalità essenzialmente contrastive. Essa, tuttavia, non esclude e non può escludere l'emergere di eventuali analogie tra gli elementi in esame dei vari contesti etnici di indagine, la cui rilevanza dovrà, poi, essere valutata di volta in volta in base all'indole del campo oggetto d'osservazione. A differenza di quanto accade nelle analisi non contrastive, le analogie non devono essere mai presupposte in partenza, proprio per evitare quelle note proiezioni manipolanti i dati, ma devono - se esistono - emergere spontaneamente dal crogiolo del contrasto e malgrado il contrasto.

Per le ragioni su esposte, quindi, l'antropologo fenomenologo dovrebbe impiegare nel rilevamento dell'universo simbolico e di quello materiale la categoria dell'alterità, preferendola a quella della diversità. Resta, però, da decidere di volta in volta, in base alle reali condizioni del campo, emerse via via durante l'analisi, se nello studio delle culture cosiddette minoritarie e locali e, quindi, anche nel caso specifico dell'indagine antropologica delle "subculture" di casa nostra, non sia preferibile, per specifici motivi di adeguatezza e di fecondità, l'impiego dell'analitica differenziale in luogo di quella dell'alterità. È, tuttavia, opportuno ribadire che è consigliabile, sempre, in prima istanza e su qualsiasi campo, l'impiego della categoria dell'alterità in luogo dell'altra. Solo dopo l'emergenza di analogie, venute fuori dal contrasto analitico e malgrado questo, sarà, allora, opportuno e doveroso controllare se il non analogico sia o non sia interpretabile, più proficuamente, come scarto o come distanza o come deficienza, misurabili tutti rispetto ad una centralità identitaria comune - come matrice culturale o come cultura madre - seguendo, in tal caso, gli usuali dettami suggeriti dalla categoria della differenza.

 

6.     9.     13.     17.

 


 

1. La produzione figurativa "selvaggia" non è qualificabile, a mio avviso, né come arte, né come primitiva, né come astratta e nemmeno come organica.

 

 


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