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Bisogna sempre domandare all'indigeno cosa significa per lui quella credenza, quel gesto, quel rito, che vive e che compie, e così rendersi conto dello scarto realmente esistente tra la postura dell'indigeno e quella dell'antropologo, soprattutto se fenomenologo. È altamente probabile che, in definitiva, solo l'analisi fenomenologica sia in grado di tracciare, per merito dell'epochè, una linea di demarcazione netta tra il senso che l'indigeno ha della propria cultura e quello scovato dall'antropologo, anche quando essi coincidono nella stessa persona. Fuori della fenomenologia, infatti, queste due posture, che dovrebbero essere, a mio avviso, necessariamente distinte, tendono inevitabilmente a interferire tra di loro e a sovrapporsi in sede di analisi, mescolandosi mostruosamente l'una all'altra: l'irresistibile proiezione di principi, di criteri, di valori propri su quelli altrui, onde evidenziare distanze e scarti tra noi e gli altri, a partire da noi, non è, purtroppo, limitata solo ai comuni, difficili, rapporti interetnici a fini non specificamente scientifici. E come isolare e comprendere, allora, i sensi culturali altrui rispetto a quelli propri, una volta proiettati questi su quelli? Ma, probabilmente, l'antropologia occidentale intendeva perseguire, magari senza saperlo, scopi molto differenti da quelli della pura demarcazione culturale. Se, ora, questi fini segreti fossero, ad esempio, quelli di tutelare l'identità e la sicurezza culturale dell'indigeno occidentale di fronte allo shock dell'alterità etnica, si potrebbero essi qualificare seriamente come "scientifici" ? Ne dubito.

Un indigeno, in quanto tale, non può vedere, di norma, aspetti della propria cultura che sono visibili solo da un antropologo, fondamentalmente, poi, come si è notato, il senso genetico di essa. Ecco perché "tramutarsi in indigeno" per conoscere meglio l'altro, come qualche sconsiderato ha proposto di fare ed ha cercato di attuare, è, anche fenomenologicamente, del tutto insensato, inutile e sviante per una seria ricerca antropologica sul campo. Tutto ciò che un indigeno sa della propria cultura deve, ovviamente, giungere all'orecchio e all'occhio di un antropologo che voglia essere debitamente informato. Ma il senso dei segni, costituenti il proprio sistema culturale, l'indigeno lo conosce da indigeno, vivendolo e pensandolo sempre a partire dalla propria visuale, valutandolo, se la cultura di appartenenza è sana, come naturale e inquestionabile, perché costitutivo di quello stesso patrimonio inculturativo che ha reso umano il cervello con il quale pensa. Solo quando una società si ammala, allora vacilla proprio l'identità "fisiologica" di base tra cervello e cultura, prodotta dalla inculturazione, quella che fonda l'arcano della assolutezza e dell'esclusività delle convinzioni indigene di base. L'irrompere, con la divaricazione, del vissuto devastante di tale inattesa eterogeneità, costringe le comunità umane in crisi ad interrogarsi su qualcosa che a loro, nello stato di sanità sociale, era di necessità nascosto e vissuto come valore metaculturale, cioè il senso originario e finale della loro stessa esistenza culturale e naturale, cioè di se stessi e del mondo.

 

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