Domenico Antonino Conci

 

LA GUERRA DEGLI ANGELI

CONTRIBUTO AD UNA FENOMENOLOGIA DEI VISSUTI BELLICI

 

 

 

 

§ 1. Un mitologhema perduto

 

   "Sancte  Michael  Archangele, defende nos in proelio". L'antica e perduta invocazione  cristiana rivolta al Principe celeste, al supremo Condottiero delle armate dell'Altissimo, Signore degli eserciti, s'alzava a chiudere con inattesa drammaticità il discorso che il Pontefice Giovanni Paolo II, in visita ufficiale sul Monte Gargano, aveva indirizzato alla folla di devoti assiepati nei pressi del Santuario di S. Michele Arcangelo, la mattina del 24 maggio 1987.1 Era, questa, l'implorazione rituale che, per volere di Leone XIII, doveva essere recitata dai fedeli al termine della Santa Messa e che, dopo il Concilio Vaticano II e l'odierna eclisse della Chiesa "militante"2, era caduta in disuso.

   Ai giornalisti presenti non era, comunque, sfuggito il singolare contenuto della preghiera, risuscitata autorevolmente in tempi "postmoderni"3. Certo, data la particolare circostanza, essa, associata inoltre all'esplicito avvertimento papale della pericolosa presenza di Satana, "tuttora vivo ed operante nel mondo"4, era in perfetta sintonia con l'indole stessa dell'arcano e "selvaggio" sito micaelitico – «Terribilis est locus iste», ci ammonisce ancor oggi una lapide all'ingresso della santa spelonca – che, per una tradizione devozionale,  colta e popolare ad un tempo, risalente agli inizi del IV sec.5, ci rinvia al grande e tuttavia "obsoleto" motivo mitico-rituale6 della terrificante lotta senza quartiere, vittoriosamente ingaggiata nei cieli e sulla terra dal formidabile stratega celeste contro le forze avverse guidate dal "grande Dragone", dal "Serpente antico", per difendere dal Male il popolo di Israele, prima, e la Chiesa di Cristo7, poi. Tuttavia, non era proprio questa adesione del Pontefice romano al sentire di remoti tempi ritenuti "barbarici" e allo spirito di un luogo cultuale aereo e ctonio del tutto particolare8, remoto santuario bizantino e tempio nazionale dei principi e dei guerrieri longobardi, a sconvolgere i quadri percettivi e concettuali dei nostri distratti contemporanei. Ciò che oggi è divenuta assolutamente "indigeribile" è, piuttosto, l'idea della vivente realtà del Male e del Bene, della realtà della guerra endemica in cui queste entità sacrali cosmiche si misurano a vicenda, scontrandosi, forse,  fin dall'alba del mondo, della realtà degli eserciti celesti ed inferi schierati su campi di battaglia estesi come l'universo stesso, della realtà del coinvolgimento di tutti gli uomini e dell'intero cosmo in inesausti duelli, piccoli e grandi, in una guerra che si placherà – stando alle rivelazioni oracolari dell'Apocalisse – solo dopo l'ardua e, tuttavia, vittoriosa battaglia campale e la distruzione radicale e definitiva del Male. Un mitologhema, questo, remoto, oscuro e imbarazzante.

 

 

§ 2. Fenomenologia della rivelazione

 

   A partire dall'Evo moderno, infatti, la cultura religiosa e laica d'Occidente, privilegiando, in linea tendenziale, l'interpretazione allegorica, metaforica e simbolica degli eventi e dei gesti dell'universo sacrale - e non solo di questo - è sfociata fatalmente nella totale derealizzazione dell'universo mitico rituale. Non è, certo, questa la sede più adatta per affrontare - sia pure di sfuggita - l'analisi di un tema che esigerebbe una non facile ricognizione storica, teologica, filosofica e antropologica, onde seguire le vicissitudini di un imponente lavorio concettuale plurimillenario, già avviatosi con la filosofia greca delle origini.  Occorre, tuttavia, almeno, avvertire che, a mio avviso, l'impiego9 di metodi, di categorie e di dicotomie mutuate dal pensiero filosofico greco, come, ad esempio, della nota e cruciale distinzione tra lo spirito (nous) e la materia (hyle), per comprendere e per approfondire con la "ragione" i fatti rivelativi cristiani che, come del resto fanno tutti i fatti rivelativi, si sottraggono del tutto a principi e a concetti filosofici occidentali perché questi non hanno base rivelativa alcuna, ha segnato profondamente e precocemente il messaggio di Gesù. L'universo sacrale, che è realissimo per eccellenza proprio perché è destinato funzionalmente ad elargire all'uomo realtà (esistenza) e verità (senso) mediante rivelazioni mitico-rituali,  ha perso, così, valore ed efficacia reali, riducendosi alla sfera soggettiva della mera interiorità spirituale, quando non a quella del tutto inconsistente del poetico e del fantasmatico, buona solo a soddisfare gli appetiti della emozione estetica o la naturale sete umana del meraviglioso, non certo i bisogni di sempre, quelli urgenti e drammatici, di senso e di salvezza.

   Le analisi dell'origine e delle vicissitudini della guerra angelica vengono, allora, in questo testo, ancorate direttamente ed esclusivamente ai dati rivelativi a disposizione sull'argomento, cioè, anzitutto, ai testi canonici (Antico e Nuovo Testamento), poi a quelli  apocrifi e, persino, a quelli della cosiddetta tradizione popolare10 e, ancora, in subordine, a tutte quelle interpretazioni che, comunque, appaiono attenersi a tali testimonianze, senza far intervenire categorie e strumenti ermeneutici di provenienza culturale estranea, cioè di origine non rivelativa11. Solo così è possibile cogliere il senso razionale (logos)12 di questo enigmatico conflitto sacrale - divenuto talmente alieno nella nostra cultura da sembrare del tutto incredibile - e individuarlo, infine, nella sua consistenza letterale e propria. Ed è proprio l'isolamento analitico di questo specifico senso rivelativo, cioè della ragione (logos) interna delle molteplici e variegate testimonianze della guerra angelica a costituire l'obbiettivo principale del presente scritto e sottrarre, così, uno dei motivi mitico-rituali più rutilanti, fantasmagorici e arcani all'ipoteca di quelle interpretazioni usuali e corrive che lo relegano nelle comode zone franche dell'irrazionalismo umano in cui si ritiene lecito pensare in assoluta libertà qualunque cosa. Queste ospitano, di norma, alla rinfusa, le immaginazioni collettive delle culture cosiddette  "selvagge" e "incolte" di oggi e di ieri, le superstizioni degli adulti ignoranti, le fiabe dei bambini e le gelide farneticazioni degli psicopatici.  Ma, per muovere con sicurezza verso la direzione suindicata, occorrerà, subito, chiarire in via preliminare  - sebbene solo di sfuggita - alcuni presupposti teoretici di fondo che dovrebbero consentire una comprensione pertinente e approfondita della natura e delle strutture generali dell'esperienza sacrale, perché questa genera, alimenta e giustifica l'esistenza e il senso degli angeli e della loro stessa guerra.

   Sebbene appartengano entrambi a pieno titolo all'indefinito e vago mondo delle manifestazioni – visive, sonore, olfattive, gustative e tattili – i dati rivelativi non sono assimilabili in alcun modo ai dati d'esperienza – di quella qualificata come "naturale" o "comune" – e, pertanto, essi non devono e non possono essere trattati dal pensiero razionale filosofico e scientifico d'Occidente come esso, per la loro comprensione, tratta, di norma, i dati d'esperienza. L'apparente banalità di questa affermazione svanisce subito, se si precisa subito che questa loro reciproca estraneità non è attribuibile in alcun modo alla nota differenza tra l'indole naturale del dato d'esperienza e quella soprannaturale del dato rivelativo - come si ritiene per consenso pacifico dagli studiosi di religione – perché la dicotomia "naturale/soprannaturale", di norma impiegata ampiamente sul terreno rivelativo come ovvia, origina nella filosofia greca, il cui logos è geneticamente e strutturalmente privo di fondamento rivelativo alcuno ed è, pertanto, estraneo per essenza costitutiva ed operativa a qualunque contenuto rivelativo. Ciò che li distingue, insomma, va individuato analizzando le intrinseche strutture di senso delle manifestazioni, assumendole così come si danno, e non proiettando su di esse categorie e dicotomie a loro "esterne", cioè mutuate da contesti e da atteggiamenti culturali alieni.

   La manifestazione esperienziale è a priori fenomenica e tale condizione essenziale la consegna ad uno status permanente di inadeguatezza cognitiva e di precarietà esistenziale, che appare incolmabile da qualunque integrazione intuitiva, perché nel fenomeno l'apparire non coincide - se non casualmente - con l'essere, cioè con la realtà stessa. Questa devastante frattura di origine culturale13 è stata di norma affrontata in Occidente, fin dagli inizi della stessa filosofia in quei territori orientali della grecità arcaica - ove tale divaricazione si è rivelata per la prima volta -,  impiegando come protesi per la sua ricomposizione artificiale un logos vuoto, cioè puramente relazionale14, che è costitutivo della struttura essenziale della stessa conoscenza qualificata come "oggettiva", cioè della teoria filosofica e, soprattutto, di quella scientifica propriamente detta15. Ma l'indole malsicura e instabile della manifestazione fenomenica genera un'altra cruciale dicotomia che è esclusiva della cultura occidentale e che va, per altro, relata a tutte le altre distinzioni che in tale cultura sono via via emerse.

   Se nella manifestazione fenomenica l'apparire non coincide con l'essere e il fenomeno non è più e sempre testimonio fedele della natura della realtà, è comprensibile l'insorgere di un complesso quesito, cui la conoscenza comune, filosofica e scientifica hanno cercato da sempre, insieme, sia pure con mezzi diversi, di rispondere. Di fronte all'intrinseca ambiguità di un dato fenomenico qualsiasi, cioè del dato d'esperienza propriamente detto, quale aspetto di esso pertiene alla realtà vera e propria e quale, invece, non le pertiene? E l'aspetto che non pertiene alla realtà, e che pure contestualmente si manifesta, a cosa mai può pertenere ?  La risposta a tali domande, strettamente interconnesse, ha condotto all'individuazione e all'articolazione filosofica e scientifica di due universi separati e tuttavia relati tra di loro, quello "esterno" e "trascendente" della natura (mondo) e quello  "interno" ed "immanente" della coscienza, cui, evidentemente, si è ritenuto pertenga ciò che non è attinente all'altro. Così, da questa ambiguità fondamentale della manifestazione fenomenica, che la cultura occidentale non ha assunto come il prodotto di remote e inattese mutazioni culturali, ma come la condizione esistenziale e cognitiva propria dell'uomo in quanto tale nei suoi rapporti con il mondo, sorgono e si impongono, oltre a quelle già prima elencate, altre importanti e significative dicotomie concettuali. Alludo a fondamentali distinzioni quali quelle tra i segni - tra cui, soprattutto, il linguaggio propriamente detto  - e la realtà cui essi alludono, tra il soggetto e l'oggetto, tra lo spirito (nous) e la materia (hyle), tra la mente e il corpo dell'uomo, tra l'idea e la cosa, tra il senso (essenza) ed i fatti, tra l'immagine fantastica ed onirica e quella fornitaci dall'esperienza nello stato di veglia, etc..

   La manifestazione rivelativa, invece, è a priori non fenomenica, perché essa ignora del tutto la divaricazione occidentale tra apparire ed essere. Escludendo gli stati devianti, quelli indotti dall'errore o dal disturbo patologico - tutte ragioni del tutto contingenti -  è implicita nell'essenza stessa e nell'economia dell'evento rivelativo la necessità che esso debba testimoniare direttamente ed immediatamente il reale, così come esso è16. L'Essere stesso qui emerge, per così dire, in superficie, disegnato a rilievo dal mobile dispiegarsi delle apparizioni stesse. E in tal senso, essendo la manifestazione rivelativa "pesante", stabile, adeguata e realissima come nessun'altra, la ricerca della realtà dell'Essere al di là dei fenomeni e dello stesso soggetto, che contrassegna da sempre  l'impresa filosofica e scientifica occidentale, non è rinvenibile in alcuna delle culture fondate sulla postura rivelativa. Sarebbe un totale non senso. Del resto, in quanto manifestazione adeguata, cioè priva a priori di "rimandi" o di "scorci" verso orizzonti di ulteriorità per l'attuazione delle necessarie integrazioni cognitive ed esistenziali mediante specifiche protesi logiche che proiettano ipotesi al di là del piano fenomenico - come accade sempre in Occidente, ove i dati manifestativi sono insaturi nel loro intimo statuto di senso - è la manifestazione rivelativa stessa ad esibire il proprio contenuto di senso e di verità che essa, rivelandosi, porta in sé17.

   Se, ora, si affronta l'analisi dei testi rivelativi sugli angeli e sulle guerre angeliche, cercando di cogliere il senso che gli estensori di tali testimonianze si erano formati intorno a questi esseri e ai loro comportamenti ed evitando di allestire una immagine ad hoc di essi, cioè quanto meno stridente possibile con le nostre attuali convinzioni culturali, è evidente che non è consigliabile utilizzare in tale analisi quei concetti e quelle molteplici dicotomie che sono state elaborate e sono state ritenute come ovvie dal pensiero filosofico e scientifico occidentale Ma va, soprattutto, precisato che il termine "reale", qui impiegato proprio in riferimento a tutte le manifestazioni rivelative e, per antonomasia, a tutte quelle sacrali, va assunto in una accezione semantica del tutto particolare. La realtà intrinseca della manifestazione rivelativa non è in alcun modo sinonimo di materialità, di corporeità, di fisicità e tanto meno di quella "oggettività" costruita, relazionando i dati d'esperienza, dal pensiero filosofico e scientifico occidentale. Poiché negli universi mitico-rituali, poi, non esistono quelle note determinazioni "della interiorità", come "spirito", "mente", "idea", "anima", "psiche", "cultura", riferite ad entità autonome, separate e opposte alla sfera "materiale", " corporea", "naturale", tutto ciò che si rivela – sia esso sacrale o no – è sempre "animato", cioè dotato di senso, di intelligenza, di sentimento e di volontà propri. Infatti, come si vedrà poco più avanti, la coscienza "immanente", quella egocentrata e chiusa in se stessa come una monade nei confronti del cosiddetto "mondo esterno", non esiste e non può esistere nella postura rivelativa18. In questa, il suo singolare status di realtà "aperta" impersonale la rende del tutto permeabile a quelle incredibili  "intrusioni", "occupazioni" e "possessioni" da parte di entità sacrali e non sacrali, benigne o maligne, che notoriamente determinano i modi ordinari e straordinari delle possibili relazioni tra gli uomini e quelle tra di essi ed il cosmo nelle culture a fondamento rivelativo19. E questa è la base razionale di quel cosiddetto "mondo incantato" – per gli occidentali moderni del tutto incomprensibile – che è tale proprio perché ignora quell'idea di "materia", inventata e definita dal logos occidentale in opposizione all'idea di "mente" o di "spirito", come qualcosa di elementare, di ottuso e di inanimato che giace al fondo di ogni esistenza, del tutto impenetrabile, essendo privo di intelligenza e di volontà autonome proprie. Un concetto, questo, del tutto singolare, perché, sebbene sia stato inventato dal logos occidentale filosofico e scientifico, è stato pensato come un concetto-limite dello stesso logos e, soprattutto, della mente (nous), e appare destinato, quindi, con un simile statuto logico ed ontologico a sottrarsi indefinitamente ad ogni tentativo di prensione diretta.

 

 

§ 3. Rivelazione e rivelazione sacrale

 

   Con l'espressione "postura rivelativa"20 si intende quel generale atteggiarsi esistenziale e cognitivo della coscienza umana, specificamente impersonale, rilevabile presso alcune culture – essenzialmente in tutte quelle a fondamento mitico-rituale – secondo il quale il conoscere, il sentire, il volere, l'agire umani e i loro relativi contenuti e/o referenti, pur riconosciuti e assunti come pertinenti alla sfera della coscienza e come suoi reali o possibili possessi, non sono assunti come originati dalla coscienza stessa, quali atti relativamente liberi e autonomi di essa, ma sono sempre elargiti o consentiti da volontà e da intelligenze "altre". La coscienza impersonale, quindi, è una modalità peculiare di aver coscienza che, a differenza della coscienza personale, diretta e riflettente per autoreferenzialità – impostasi saldamente in Occidente a partire soprattutto dalla modernità – si costituisce e si fonda solo per una via indiretta e mediata, come "di rimbalzo", cioè tramite l'acquisizione dei molti e vari modi intenzionali (cognizioni, sentimenti, volizioni, valutazioni, etc.) che si mostrano sempre indissolubilmente sedimentati, come si è visto, nelle realtà che rivelativamente si danno21. Queste, insomma, con il loro manifestarsi, elargiscono alla coscienza impersonale non solo il senso del mondo, ma anche il senso di se medesima.

   Ma non tutto ciò che si rivela è Sacro, è, cioè, "parola del Signore". La postura rivelativa, infatti, è solo il prerequisito, cioè la condizione necessaria perché il Sacro – se, quando e come vuole – possa manifestarsi ad una coscienza impersonale in postura rivelativa, ma non è anche sufficiente. Le analisi delle culture del nostro pianeta a fondamento mitico-rituale hanno ecumenicamente attestato che solo le manifestazioni potenti (cratofanie) sono sacrali (ierofanie) e che quindi la cratofania è l'essenza stessa della ierofania.  Abbandonando, allora, le usuali attribuzioni distintive che identificano il Sacro con il soprannaturale e il profano con il naturale, si evidenzia fenomenologicamente che la sfera profana coincide, diversamente da quella sacra, con l'ambito della rivelazione impotente, con la coscienza, cioè, di quella intrinseca, insuperabile, debolezza che è propria della condizione dell'uomo e del cosmo, se questi sono abbandonati a loro stessi. Ma, cosa si intende, ora, specificamente, col termine "potenza" e quali sono i contenuti e le funzioni della ierofania ?

   In linea generalissima, è potente solo quella manifestazione che si rivela titolare e gestrice, in forma assoluta o relativa, di ciò che è necessario per l'esistere umano e cosmico e di cui la condizione profana è autonomamente priva, cioè di vita (esistenza) e di senso. Nelle culture a base mitico-rituale si ritiene che l'uomo e l'universo possano esistere e condurre una esistenza abitata e retta da un senso solo se essi sono sostenuti quotidianamente da figure potenti soccorrevoli, invocate nei momenti di crisi ad intervenire "realmente" mediante i riti. E va, subito, segnalato che, se il Sacro non è altro che potenza, esso, allora, non può collimare necessariamente con il Bene, secondo la filosofia e la teologia cristiane.  Anche il Male – indipendentemente, ora, se coincida o meno con la stessa figura potente benefica – è potenza sacrale, perché, come titolare e gestore in negativo di vita e di senso, tende intenzionalmente a sottrarli alle comunità umane e all'intero cosmo-ambiente in cui esse vivono22, rivelando, così, facoltà non umane.

   Sono questi, quindi, i presupposti razionali della diffusa attribuzione di responsabilità di tutti23 i vari e molteplici stati esistenziali di benessere o di malessere dell'uomo e del mondo, da parte di culture a fondamento mitico-rituale, all'intenzionalità, sovente imperscrutabile e gratuita, ma sempre intelligente e volitiva, di figure potenti benigne e maligne e, quindi, sacrali e sovrumane, che non sono né corporee e né spirituali, bensì, come già precisato, reali, anzi iperreali. E tale iperrealtà sacrale sembra concretizzarsi, in linea tendenziale, sia con l'entificazione e l'autonomizzazione di determinazioni che nella filosofia occidentale sono ritenute, di norma, "insostanziali", cioè "dipendenti" – come le qualità, gli attributi e le azioni delle cose e delle persone –, sia con il conferire ad essa una sostanzialità elusiva, appena accessibile ai sensi, come il soffio, il vento, la nube24, la fiamma, la luce, il suono, il profumo, il fetore25, la caligine, etc.26. Ma, siano tali potenze uniche o molteplici, d'origine coeva tra di loro o no, equipollenti e dualisticamente assolute – in senso manicheistico – o no, esse si manifestano sempre affrontantisi in un arcano dissidio insanabile e radicale che si concretizza in vere e proprie guerre, piccole e grandi, in cui vengono coinvolti realmente e direttamente l'uomo e il cosmo. Ma se il Male ha una origine sacrale – comunque intesa – è evidente che l'uomo – essenzialmente impotente – non può sostenerne l'urto distruttivo che, per altro, è diffuso, pervasivo e continuo, senza il supporto salvifico delle potenze che avversano il Male. Va, anzi, affermato, in linea generalissima, che nei contesti culturali a fondamento mitico-rituale l'uomo, a causa della postura rivelativa che ha assunto, ha coscienza del male e del bene e agisce male e bene solo perché le potenze sacrali benigne e maligne lo inducono con la loro semplice, irresistibile presenza invasiva a pensare e a comportarsi così. L'uomo e il cosmo, in altri termini, non sono mai attori indipendenti degli accadimenti che li concernono, ma semplici comparse e testimoni posseduti e agiti da ierofanie creatrici e distruttrici che confliggono tra di loro pro e contro l'esistenza e il senso. E poiché tutto ciò è originariamente rivelato nei miti, che non sono semplici racconti o raffigurazioni di esseri fantastici e delle loro azioni mirabolanti, bensì uniche fonti di conoscenze vere, paradigmi di comportamento, modelli ermeneutici e prototipi pragmatici per la riattivazione dei gesti delle figure potenti in funzione salvifica (riti). A tali miti, quindi, occorre necessariamente rivolgersi in sede di analisi della guerra angelica.

 

 

§ 4. Il male mitico

 

   Le fonti veterotestamentarie sono ambigue, anzi, reticenti sull'origine del Male27 e non dicono, poi, addirittura, nulla su quando e come gli angeli siano stati creati. Ad un certo punto della narrazione biblica, un cherubino con (?) la fiamma di una spada improvvisamente appare, a guardia del fronte orientale del Giardino dell'Eden28, ma, in generale, le presenze e le azioni degli angeli, buoni o cattivi, non sono sempre chiaramente distinguibili da quelle di Yahweh stesso, onde la tesi che gli angeli si possano assumere  - in linea, del resto, con evidenti precedenti  culturali dei semiti mesopotamici e non solo di questi - come epifanie di attributi, facoltà, azioni di Dio stesso e contestualmente come figure a sé, non è certo azzardata29, se ci si richiama a quanto prima affermato. Ma è bene analizzare il racconto della Creazione.

   «In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'Abisso (Tehom) e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse "Sia la luce !" E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre».30 Da dove vengono queste "acque" sulle quali "aleggia lo Spirito di Dio" ? Se non si risponde a questa preliminare domanda che è importante per la presente analisi, è difficile capire, tra l'altro, cosa fece Dio il primo giorno. Ma, se si riflette, ora, su ciò che creò Yahweh il secondo e il terzo giorno, ci si accorge che, probabilmente, i termini "cielo", "terra" e "acque", usati nel racconto del primo giorno, non significano quello che di norma si intende con essi. «"Sia il firmamento in mezzo alle acque per separare le acque dalle acque." Dio fece il firmamento e separò le acque che sono sotto il firmamento dalle acque che sono sopra il firmamento. Dio chiamò il firmamento cielo». «"Le acque che sono sotto il cielo, si raccolgano in un solo luogo e appaia l'asciutto." E così avvenne. Dio chiamò l'asciutto terra e la massa delle acque mare»31. Appare, allora, probabile che Yahweh, non diversamente da molte altre potenze creatrici, abbia iniziato le sue fatiche cosmogoniche affrontando e intaccando con inevitabile violenza la realtà acosmica e tenebrosa del Caos primigenio costituito dalle Acque primordiali, con il gesto esemplare e originario di separare ciò che era confuso e tenebroso, di rompere, quindi, l'uniformità indeterminata delle tenebre distinguendole dalla luce, allestendo, così, il primo abbozzo di un ordine universale là dove prima esisteva solo un informe e oscuro disordine.

In altri termini, nel primo giorno Yahweh divise32 in due parti le Acque originarie, chiamando cielo quelle superiori e terra quelle inferiori – significativamente qualificata come «informe e deserta» – mentre il suo Spirito restava ad aleggiare nelle tenebre su queste acque da Lui divise. Poi, creando la luce, distinse ulteriormente il giorno dalla notte. Nel secondo giorno creò il firmamento – chiamandolo più propriamente "cielo" – cioè una specie di volta solida «come specchio di metallo fuso»33 quale diga per arginare lo straripamento delle acque di sopra34 – e solo nel terzo giorno, raccogliendo le acque di sotto in un'area circoscritta, creò il mare e la terra vera e propria, sul cui fronte il mare è destinato a infrangersi senza poterli oltrepassare contro la volontà di Yahweh. Il cielo e la terra, allora, non sono altro che i baluardi di contenimento posti da Yahweh contro la violenza potenzialmente sempre eversiva delle acque "di sopra" e "di sotto", perché esse tendono a rimescolarsi, come lo erano prima della Creazione.

   È erroneo, poi, ritenere che l'esistenza di qualcosa di originariamente coevo e che stia accanto a Yahweh prima del Suo atto creativo confligga con la tesi della creazione dell'universo dal Nulla da parte del Dio giudaico-cristiano. Infatti, prescindendo dal rilievo che la prima testimonianza biblica di «una creazione dal nulla» sia notoriamente tarda e la si trovi in un passo del secondo libro dei Maccabei35, è proprio il significato mitico-rituale del termine "Nulla"  ad essere frainteso da una interpretazione fondata su cruciali categorie della filosofia ellenica36. Infatti, concependo in modo puramente tautologico (vuoto) il Nulla come la pura negazione logica e ontologica dell'Essere e aborrendo come contraddittoria l'idea della esistenza di un Nulla inteso come Non-essere, tale significato diventa del tutto stravolgente se viene esteso, senza alcuna cautela, proiettandolo sul mitologhema dello stato dell'esistenza prima di qualunque evento cosmogonico. Infatti, il saldo realismo dell'universo mitico, secondo cui sarebbe del tutto impossibile ed incomprensibile qualunque modalità di pensiero che intenda qualcosa a vuoto, cioè privo di un qualsiasi riempimento da parte di intuizioni reali, impone di necessità una interpretazione crudamente realistica dell'intera terminologia mitica, anche di quella che si riferisce abnormemente non solo al Caos delle origini, ma anche al Nulla stesso. Il Nulla al cospetto di Yahweh, insomma, – riprendendo, per altro, un antichissimo tema mitico mediterraneo, di matrice mesopotamica, egiziana e siro-palestinese – è costituito dalle Acque primordiali,37 esistenze potenti, tenebrose e terrifiche, perché caotiche e quindi, di necessità, essenzialmente nullificanti. Si è pervenuti, così, seguendo labili tracce, ad un arcano ed enigmatico motivo mitico che, una volta dissepolto, mostra l'intima genesi, la logica implacabile e l'inevitabilità fatale di un immane conflitto cosmico tra potenze sacrali avverse, rilevabili in precisi contesti mitico-rituali.

   L'inaudita potenza del glorioso gesto creatore è espressa proprio dalla smisurata energia che deve essere impiegata per poter vincere le caotiche forze del Nulla, la cui "immane potenza negativa", riposando proprio sulla inerzia, sulla stasi, sulla entropia di uno stato esistenziale amorfo, insensato e sterile, può essere affrontata e domata solo aggredendola violentemente e sorvegliando, poi, implacabilmente quanto di essa è rimasto dopo la vittoria creatrice. Del resto, se l'opera della creazione è buona, come ribadisce reiteratamente il racconto della Genesi, tutto ciò che la ostacola e tende a distruggerla non può che essere Male. Con l'inevitabile accanita resistenza delle potenze sacrali maligne all'irrompere e alla conservazione della Creazione, comunque esse vengano intese, cioè come Nulla, come Acque, come Serpente, come Drago degli Abissi o come Leviatano – tutte epifanie acquatiche similari o strettamente apparentate – o, infine, come Satana, come Potestà e come Dominazioni, etc., è comprensibile che alcuni celebri miti etnici, spesso conservati nelle tradizioni popolari, abbiano rivelato non solo l'esistenza di una vera e propria guerra vittoriosa e, quindi, creatrice svoltasi agli inizi del Mondo38, ma anche il permanere attuale e quotidiano di tale irrisolto conflitto per gli assalti multiformi e reiterati delle potenze eversive che esse lanciano dai confini del mondo, in cui sovente sono relegate, o filtrando tra gli interstizi39 dello spazio e del tempo cosmici, e che terminerà – se esistono attestazioni oracolari in tal senso, come, ad es., lo sono le Apocalissi giudaiche e cristiane – solo con lo scontro campale della fine del Mondo. In definitiva, soccombere alle forze del Male significa, di fatto, per l'uomo e per il cosmo, regredire ad uno stato di disordine, totale o parziale, ad una condizione esistenziale negativa, informe e ottusa, di cui il Caos acqueo che tutto livellava e azzerava nei primordi costituisce il modello mitico paradigmatico40. Dato lo stato di impotenza radicale dell'uomo e del mondo, sottoposti quotidianamente alle aggressioni grandi o piccole da parte delle forze del Male, le potenze del Bene, per conservare integre le proprie creazioni, sono costrette direttamente o tramite intermediari potenti ad una continua attività salvifica di sorveglianza e di repressione che, in occasione di eventi particolari, ritenuti dai singoli e dalle comunità importanti e significativi per la loro esistenza, diventano eccezionalmente percepibili41.

 

 

§ 5. Gli angeli e i loro demoni

 

   La rassegna delle figure protagoniste di queste guerre cosmiche, anche se circoscritta eminentemente alle culture religiose premoderne giudaiche e cristiane delle sponde del Mediterraneo, si rivela non facile, sia per la copiosità e l'eterogeneità delle fonti, che per la natura quasi sempre sfuggente degli agenti stessi. Così, senza intendere, comunque, tale contrasto mitico necessariamente come coinvolgente forze equipotenti e autonome, manicheisticamente42 opposte come la luce e le tenebre, vanno annoverati, in area veterotestamentaria, da una parte un Essere Supremo, celeste e uranico, onniveggente, Creatore e Signore del mondo, Dio degli eserciti, l'Alleato del popolo eletto, Yahweh43, insieme all'elusivo universo dei Suoi divini servitori fedeli, denominati ellenicamente "Angeli"44, di cui solo alcuni nomi sono noti e ricorrenti nei testi. Nella corte celeste questi "figli di Dio"45 rivestono ruoli specifici e svolgono molteplici funzioni  amministrative per delega divina. Essi sarebbero distribuiti, secondo lo Pseudo Dionigi l'Areopagita, in un ordine46 rigorosamente gerarchico e, come ministri, guerrieri47, informatori, scribi, servitori (conduttori degli astri, interpreti, intercessori, misuratori, custodi di individui e di intere nazioni, psicopompi) etc., stanno agli ordini indiscutibili e non sempre comprensibili da parte degli umani di Yahweh48. Ma se, in definitiva, l'esercito celeste è costituito da tutti gli Angeli49, colui che si oppone decisamente a Satana, che è il Principe di questo mondo50, è l'Arcangelo Michele, il grande Condottiero, che i giusti si troveranno accanto nel «tempo della grande angoscia», quello dell'inizio bellico della fine del mondo51. Poi, dopo l'avvento del Nuovo Testamento, i cristiani hanno creduto che queste figure potenti stessero nei cieli accanto al figliolo di Yahweh e di Maria di Nazareth, Gesù, accanto alla Sua divina Madre e a tutti i Suoi Santi, sebbene – a proposito del tema in analisi – va ricordato che Cristo e la quasi totalità dei Santi della Chiesa, pur soccorrevoli e determinati nei confronti degli umani, non spiccano, tuttavia, stando alle testimonianze, per precise vocazioni belliche o per specifiche virtù militari52.

   Dall'altra, le potenze avverse del Male, tenebrose ed infere – siano esse precosmiche o generatesi successivamente da una ribellione angelica per gelosia degli uomini53 – , sarebbero distribuite anch'esse, seguendo tardivamente il modello angelico proposto dall'Areopagita, in un ordine gerarchico di tipo burocratico-militare in cui i demoni sono raggruppati in legioni di 6666 unità, comandate – in un numero oscillante tra 200 (sotto il demone Paymon) e 10 (sotto il demone Valefar) – da re, principi, duchi, marchesi, conti e presidenti54. Tali sinistre, fantasmatiche, figure risaltano non già per una iconografia "mostruosa"55 che, in realtà, è da loro condivisa – come si vedrà – con gli stessi Angeli, ma, piuttosto, per un'indole totalmente aliena,56 fatta di cieca e ostinata violenza, di comportamenti abnormi e sconvenienti, difficilmente prevedibili e controllabili, da cui traspaiono i tratti dell'ancestrale origine caotica e del disordine precosmico, di cui la multiforme genealogia maligna – sebbene creata da Dio – non è che un vivente relitto fossile. Agiscono, presumibilmente "a mezz'aria", tra la sede celeste dell'Altissimo e la terra abitata dagli uomini57, a portata, per così dire, d'uomo e d'Angelo, e proprio in tali bassure, dove l'aria è più densa, caliginosa, umida e, quindi, acquosa58, avvengono le più spettacolari e terrifiche ierofanie - anche ominose - dell'immane conflitto59.  Il Male (infermità, vecchiaia, sterilità e morti di uomini, di animali, e di vegetali, carestie e disastri naturali, come inondazioni, siccità, incendi, terremoti, o sociali come disordini intestini e guerre, infine turbe di ogni specie, etc.), insomma, è da intendere, in blocco, "realisticamente" ed "essenzialmente" – cioè miticamente – come la regressione distruttiva, parziale o totale, dall'ordine al disordine, cioè dal Cosmo naturale e sociale al Caos delle origini60. Tale potenza implosiva va affrontata con ogni mezzo di vigilanza e di repressione implacabili e la stessa vendetta divina non è altro che l'abbandono dei nemici di Dio nelle fauci leonine del Male61. L'ossessiva e, tuttavia, reticente fenomenologia eminentemente rettile e ofidica62 del Maligno nell'Antico Testamento, come il Serpente dell' Eden,63 Raab64, il Drago65, il Leviatano66, il Serpente «tortuoso e guizzante» (cioè il coccodrillo67), Tannin, Behemot (l'ippopotamo)68, non è altro, anche se ritenuta valenza creaturale, che una sequenza di variazioni epifaniche sul grande tema mitico delle tenebrose Acque primigenie, sopraffatte, ma non uccise, dalle forze avverse della Creazione. Infine compaiono Satana, Beliar69, i Vigilanti70,  il Diavolo,  l'Oppositore, l'Avversario, il Nemico del Nuovo Testamento e tale sinistra figura, immersa nel crogiolo ellenistico di motivi neoplatonici, gnostici, manichei, ebraici, con influenze iraniche ed indiane, si frantumerà in una variopinta e tumultuosa fantasmagoria di figure mostruose che indugerà a lungo fin nella stessa cultura della modernità occidentale, prima di svanire, poi, lentamente con l'intero universo sacrale nell'innocua irrealtà dell'immaginario poetico, quello letterario, figurativo e decorativo del nostro secolo che ama qualificarsi "secolarizzato".

   Schierati da una parte e dall'altra – sebbene ovviamente assenti nel conflitto cosmogonico – vanno annoverati gli accoliti umani71 delle Potenze in lotta per il predominio sull'Universo, la cui posta in gioco è la sopravvivenza del mondo stesso o il suo totale annichilimento nel Caos nullificante delle origini. Dopo quanto inizialmente precisato nella parte, per così dire, metodologica del testo, tale duplice presenza, umana e sovrumana nelle guerre – e questo rilievo vale per intendere correttamente in generale l'indole peculiare di tutti i rapporti intercorrenti tra l'uomo e il divino, tra le persone fra di loro e tra le persone e le cose mondane rinvenibili negli universi mitico-rituali – non deve essere intesa come articolata in due scontri separati, sebbene simultanei: l'uno, per così dire, "a mezz'aria" tra Angeli e Demoni, l'altro sulla terra tra guerrieri umani. Tali forze, in realtà, non sono nemmeno semplicemente "mescolate" tra di loro, bensì singolarmente fuse nel contesto reale degli eventi e, tuttavia, sempre distinte o distinguibili72. Il Sacro, infatti, lo si invoca perché possa coniugarsi sempre, ritualmente, con il profano per soddisfare urgenze profilattiche o salvifiche di qualunque tipo, e tale comunione deve essere reale per essere efficace, cioè, addirittura, intrusiva nelle cose e nelle persone stesse coinvolte nei singoli accadimenti, perché altrettanto invasive sono le azioni del Maligno quando esso irrompe nel mondo73. E, tuttavia, non verrà mai a cancellarsi la differenza tra il Sacro e il profano, che resterà sempre polare, quella, appunto, da sempre umanamente drammatica, tra la potenza divina e l'impotenza radicale di homo. «Tua è la guerra, Signore, e Tua è la vittoria.»74

 

 

§ 6. La guerra mitica

 

   Nella guerra mitico-rituale, quindi, indipendentemente da particolari manifestazioni ierofaniche collaterali, per altro frequenti75, il consiglio strategico-tattico sagace76, l'azione risoluta ed eroica, la vittoria e la conquista finali, sono sempre momenti epifanici positivi, terribili e irresistibili, di Yahweh o dei suoi Angeli nelle menti dei principi, nei cuori e nelle braccia dei guerrieri impegnati nella mischia77. Il progetto bellico errato, la paura incontenibile sopraggiunta sui campi di battaglia, la rotta rovinosa, l'inseguimento da parte dei nemici e la strage dei guerrieri e degli inermi, con la distruzione e la perdita del paese, sono tutte epifanie invasive del Male e significano, di fatto, l'abbandono78 del Signore e delle sue schiere celesti per l'ingiustizia commessa – in definitiva per il tradimento del Patto79 – da parte dei principi e del popolo eletto da Dio e implicano la loro presenza fortificante negli eserciti dei nemici vittoriosi, scelti da Yahweh come verga, bastone, scure e spada della Sua punizione80.

Così, tutte le guerre vittoriose sono sante e giuste, perché l'arcano della guerra mitico- rituale è la lotta – sempre difensiva, dunque, e quindi, necessaria e doverosa – contro gli attacchi ostinati del Male, meri episodi di un'unica guerra mitica, in definitiva, avviata in certe culture mitiche cosmogonicamente e che terminerà, là dove esistono profezie in proposito, solo alla fine dei tempi, con la distruzione finale del Male e l'instaurarsi della pace perpetua sulla Terra. Erroneamente ritenuto espressione del cinismo dei forti, l'adagio che i vincitori hanno sempre ragione cela piuttosto l'ovvietà teologica che il Dio di giustizia e coloro che stanno, in quanto giusti, dalla Sua parte non possono perdere – dato che la sconfitta è mera epifania maligna, da cui i perdenti in battaglia sono posseduti – e che la guerra mitico-rituale è da intendere come il più imponente e oneroso rito apotropaico sacrificale contro il Male81, volto, a differenza degli altri riti esorcistici minori e specifici, allo scontro campale e alla distruzione definitiva di esso senza più resti82. La guerra nell'Antico Testamento, e non solo nell'ideologia religiosa degli antichi Germani, è un'ordalia, è un vero e proprio "giudizio di Dio83, a cui sono chiamati, anzitutto, i capi e, poi, l'intero popolo, che, stando intorno al Centro del mondo84, ingaggiano, di necessità, battaglie di portata cosmica nel nome del Signore e della Sua giustizia. E non è certo casuale che S. Michele,  lungo la sua lunga storia orientale ed occidentale, abbia finito col brandire armi e bilance insieme. Ma, dal punto di vista umano, tuttavia, tali faccende non sono così semplici e, sia pure in una ben diversa prospettiva, nemmeno dal punto di vista degli Angeli stessi, protettori di nazioni che possono entrare in guerra tra di loro85.

   Per un esercito umano la vittoria non è mai di per sé la prova di essere nel giusto, di aver combattuto, cioè, dalla parte della giustizia, sebbene la vittoria sia sempre e comunque il segno favorevole dell'epifania stessa in battaglia del Signore degli Eserciti o dell'Arcangelo Michele e delle Sue invincibili legioni. In realtà, Yahweh scatena la guerra e dà la vittoria non per premiare i giusti, ma per punire i malvagi, votandoli sempre alla sconfitta e sovente alla morte, come fece più volte, inesorabilmente, con lo stesso popolo di Israele che si era traviato86. E tale profondo convincimento, che va generalizzato per intendere il senso autentico di tutte le guerre - certamente di quelle a base mitico-rituale - mostra che l'istinto bellico non soddisfa - per lo meno in prima istanza - la vana ed effimera87 brama di guadagno e di gloria dell'uomo, come in genere si suppone, ma obbedisce  all'ineludibile imperativo ancestrale di eliminare una volta per tutte il male dal mondo, annientandolo nel nome delle potenze creatrici 88. La fama e la potenza  che possono arridere al guerriero vittorioso sono solo conseguenze epifenomeniche del raggiungimento di questo obbiettivo primario. Sopraggiunto, poi, un disastro bellico, che è sempre la prova dell'abbandono di Dio, si capisce, certo, da che parte realmente ci si è schierati, ma è arduo, ancora, se pure ci è concesso di sopravvivere, farsene una ragione. Senza condividere il grandioso pessimismo di Salomone89, si è visto quanto sia difficile essere giusti o mantenersi tali e quanto sia facile, invece, assecondare il Male e diventare suoi accoliti. Del resto, pur volendo essere giusti, si può errare per ignoranza90, per debolezza di fronte alle molteplici tentazioni delle promesse mondane di Satana 91, addirittura per l'inganno tesoci da Dio stesso che ci vuole perdere per i peccati che abbiamo commesso e consegnarci, così, nelle mani dei nostri nemici92. E si può errare, persino, pretendendo di giudicare i gesti imperscrutabili del Signore93. Ciò che in tali contesti culturali è, in definitiva, terribile e nefando non è la guerra in sé con il suo inevitabile corteo di violenze distruttive di beni e di vite umane, perché, anzi, nell'universo mitico-rituale sarebbe demoniaco astenersi dal combattere il male ovunque esso si annidi e senza dargli quartiere, ma è piuttosto l'errore – che può anche essere indotto dal Maligno – nell'individuazione del bersaglio bellico, cioè lo scambio del male con il bene, quello che, inducendoci ad aggredire i giusti, ci consegna fatalmente al demonio della sconfitta, dell'ignominia, della schiavitù morale e materiale, se non a quello della morte. Persino gli Angeli, protettori delle nazioni, possono errare, come abbiamo visto, entrando in guerra tra di loro quando le nazioni si scontrano, perché non sanno quello che fanno, almeno finché il Signore, Dio degli eserciti, non riveli ad essi le proprie ragioni che sono sempre quelle giuste. L'istinto bellico appare in queste analisi talmente radicato nella condizione disperante di Homo, che il suo autentico senso sfugge a qualunque analisi che studi e valuti la guerra muovendo semplicemente dalle conseguenze, volute o non volute,  positive o negative, che essa ha comportato.

   Tuttavia, va ricordato che quella postura rivelativa – relata alla coscienza impersonale – che sta alla base dell'universo mitico-rituale, lascia all'uomo una indipendenza di pensieri, di sentimenti e di azioni molto limitata, sebbene tale condizione esistenziale non sia da intendere come riduttiva o inibente. Infatti, di fronte ad uno schiacciante schieramento nemico, gremito di carri, di cavalli e di guerrieri, era sancito dalla legge ebraica che il sacerdote dovesse  rincuorare l'esercito israelita, ricordando che Yahweh fosse in marcia con esso, e che i condottieri dovessero, addirittura, intimare a coloro che non avessero potuto ancora godere della vigna, della casa, della sposa o che avessero semplicemente paura di morire, di abbandonare pure il campo di battaglia94. La vittoria nelle guerre mitico-rituali, del resto, non dipende dalla moltitudine delle forze in campo, ma solo dall'aiuto del Cielo95.

   Analogamente, è difficile accostarsi senza stravolgerla con le usuali convinzioni pacifiste96, oggi molto radicatesi in Occidente dopo due disastrose guerre mondiali e l'avvento dell'era atomica,  alla vasta fenomenologia bellica del Sacro – soprattutto di matrice veterotestamentaria – ove le reiterate cratofanie terrifiche di Yahweh97 e degli Angeli e le loro feroci azioni98 distruttive di uomini e di cose, persino quelle in apparenza gratuite a volte e, comunque, sempre compiaciute, possono rivelare il loro senso, come si è visto, solo rianimando un universo culturale in preda ad una lotta inevitabile e implacabile contro ogni rigurgito pericoloso del Male che, se non violentemente contrastato, collasserebbe il mondo in un Caos acqueo, cioè nel Nulla precosmico99. E non è certo casuale che «il tumulto delle nazioni» sia assimilato o addirittura identificato spesso nella Bibbia al «fragore di molte acque» che solo Yahweh può placare mettendo i popoli nemici – che sono spesso definiti come «popoli da nulla», appunto perché «idolatri»100 – in fuga davanti al popolo eletto101.

 

 

§ 7. Mostri divini

 

    Se, anzitutto, qualunque potenza sacrale è terrifica di per sé, cioè in quanto potenza sovrumana – non si può contemplare il volto di Dio o soltanto toccare l'Arca dell'Alleanza senza morire102 – è facile immaginare l'orrore incontenibile di un guerriero in battaglia che avverta su di sé e dentro di sé la intenzionalità bellica di una potenza sacrale avversa, cioè l'ira di Dio e dei Suoi Angeli. Del resto, l'arrivo aereo del Signore e, talvolta, degli Angeli stessi è preceduto, di norma, da fenomeni meteorici e ctonii inattesi e sconvolgenti103, ma è, soprattutto, lo splendore intenso (la "gloria" di Yahweh), la luminosità accecante (colonna di fuoco, nube scintillante104, folgore, vestito bianco sfolgorante105, occhi di fuoco) l'aspetto fenomenologico eminente e diffuso della manifestazione potente, benefica e soccorrevole, ed è, quindi, secondo una lunga tradizione ierofanica del Vicino Oriente Antico106, il segno del suo possibile riconoscimento da parte degli sgomenti testimoni, tra la folla di altri maligni spiriti volanti , solitamente di caliginoso aspetto.

   Ma è soprattutto la cosiddetta "mostruosità" di certi esseri divini – il cui originario senso è andato smarrito in Occidente, già a partire dai Greci – ad essere una determinazione della potenza sacrale di accertata portata ecumenica e in alcun modo indizio specifico di pura demonicità e di intrinseca malvagità. I "mostri" divini107 sono, in quanto ibridi naturali e/o fantastici, esseri metamorfici, in cui vengono a coniugarsi insieme – costituendo, tuttavia, un essere univoco del tutto organico – nature umane, animali e, persino, elementi di origine artificiale. La mostruosità dell'ibrido non è tanto o solo nella  usuale raffigurazione – del tutto sviante, sebbene inevitabile – che lo presenta sempre come un coacervo di organi o di parti isolate, appartenenti a specie diverse e da queste "prelevate" per essere "assemblate", quanto perché viola quel noto principio occidentale di identità, basato su di un'autoreferenzialità astratta, secondo il quale una cosa è e deve essere uguale solo e unicamente a se stessa. Infatti, una figura che presenta un corpo umano con ali di aquila innestate sul dorso va rettamente intesa come un essere unitario che è contestualmente uomo e aquila e non metà uomo e metà aquila, perché questi elementi, per una singolare sineddoche letterale – pars pro toto –, intendono esibire "iperrealisticamente", concentrandola in se stessi, la costituzione essenziale della specie riprodotta. E, in tal modo, il nostro principio logico della identità risulta violato, perché un essere non può logicamente ed ontologicamente identificarsi con un altro che sia diverso da sé. Per la cultura ellenica ed occidentale, insomma, coniugare l'identico con il diverso – che è la base concettuale di ogni metamorfosi – è il mostruoso logico ed ontologico per eccellenza. Ma qual è, ora, il senso della generale e pervasiva presenza dell'ibrido nelle credenze religiose del nostro pianeta ?

   Occorre avvertire, anzitutto, che l'enigmatica sacralizzazione della maggior parte delle specie animali da parte delle culture della Terra deve spiegarsi come dovuta al giusto riconoscimento generale e, tuttavia articolato specie per specie, che gli animali sono dotati di facoltà di cui l'uomo, biologicamente debole, è privo o le possiede solo in una misura alquanto inferiore rispetto ad altri esseri viventi. La sacralizzazione di molti animali, quindi,  – diversificata non solo in ragione delle specificità delle culture religiose, ma anche della fauna ambientale, dell'economia alimentare, etc. – è l'esito inevitabile del riconoscimento di essi come esseri cratofanici e, quindi, sacrali. L'ibrido naturale e/o fantastico va inteso, pertanto, come l'espressione di una moltiplicazione esponenziale della potenza cratofanica  e, quindi, della sacralità stessa, cioè come un essere che esibisce, concentrata in sé, una carica unitaria di potenza inaudita, derivata dalla fusione delle capacità eminenti o caratterizzanti di alcune specie animali, ciascuna delle quali è confluita integralmente insieme alle altre in una organica, univoca, combinazione. L'eccezionale qualità dei multiformi servizi espletabili nei cieli e sulla terra da tali "mostri"108 – che talvolta appaiono forniti di organi in numero superiore al normale (ad es., molte ali o molti occhi) – è amplificata, infine, dalla loro stessa natura di esseri costituiti di ruah, una sostanza reale, sebbene aeriforne e volatile, come il soffio, il vento, la nube e il fuoco ove109 le epifanie angeliche, ad es., esalando, possono sparire, rapide e inattese come lo sono state le loro improvvise irruzioni. Solo esseri simili possono affrontare Satana che è il Principe delle potenze dell'aria, quello spirito che opera nelle cose, nei corpi e nelle menti degli uomini ribelli110. Così, intelligenza superiore, volontà inflessibile, potenza di difesa e di offesa, morale e fisica, assolutamente abnorme, velocità di trasporto nello spazio talmente elevata da rasentare la simultaneità111, fluidità, invasività e pervasività senza limiti a carico di uomini e di cose, in modo da determinare e sostenere idee, volontà, passioni, azioni, oppure scatenare o placare forze naturali, inerti o furibonde, vengono attribuite, senz'altro, a questi esseri che, se non sono, addirittura, facoltà, qualità o azioni entificate dello stesso Signore, sono comunque "figli di Dio" e la loro presenza attiva, sempre invocata e sempre affascinante e terrifica112, sui campi di battaglia è intesa, ovviamente, come risolutiva per la vittoria dei giusti e la sconfitta dei malvagi.

 

 

§ 8. Eventi storici ed eventi mitici

 

   Gli eventi degli universi mitico-rituali, sebbene coinvolgano uomini e cose, non sono da intendere, ora, senza stravolgerne totalmente il senso, come meri "fatti storici", cioè come accadimenti che si svolgono lungo "la freccia" del tempo, cioè gli uni dopo gli altri, gli uni diversi dagli altri. Nel tempo irreversibile solo il presente è reale, mentre ciò che è accaduto e ciò che accadrà possono esistere solo idealmente, cioè nel vissuto del ricordo e dell'attesa. Un evento mitico è, invece, tale proprio perché, una volta rivelato che è accaduto o che accadrà, non si conserva solo idealmente nella coscienza del ricordo o dell'attesa o si mantiene come vuoto modello ermeneutico o come mero paradigma ideale di comportamento per le comunità umane, ma si ripete realmente, cioè sempre "in carne ed ossa", «ora come allora e ora come sarà», sia spontaneamente per una volontà manifestatrice della potenza, sia per induzione rituale da parte umana113. Come già notato, nel contesto mitico-rituale giudaico-cristiano non è difficile rilevare come la lotta vittoriosa cosmogonica degli inizi (Urzeit) da parte di Yahweh contro il Caos acqueo e l'annientamento totale sancito negli oracoli delle Apocalissi (Endzeit) costituisca il mitologhema originario che si ripete realmente in ogni evento bellico in funzione salvifica – sia esso invocato o no – in tutti gli scontri del popolo eletto da Dio, come, ad es., nel passaggio del Mare dei Giunchi (Mar Rosso) o nel transito del Giordano, mentre il tumulto delle nazioni, degli accampamenti e degli eserciti nemici in marcia, è puntualmente identificato nella Bibbia, e non certo metaforicamente114, con il fragore delle "grandi acque". L'Altissimo e i Suoi Angeli piombano, di certo, sulla terra «con mano forte e braccio teso», in soccorso degli uomini giusti e delle loro cose in pericolo, ma il tempo dell'umana condizione profana negli universi mitico-rituali non va frainteso ellenicamente115, secondo una lezione usuale, come tempo irreversibile, cioè storico, in cui può «irrompere misteriosamente e incomprensibilmente l'Eterno», ma anch'esso come tempo reversibile, cioè mitico.

Lo stato profano dell'uomo e del mondo è, come si è visto, segnato da sempre da una essenziale e generale impotenza esistenziale. Tale condizione è rivelata, come già notato, dalla presenza tenebrosa, occhiuta e insonne delle ierofanie maligne nella vita umana e cosmica, ed esse hanno il volto di tutte le molteplici e multiformi sventure, piccole e grandi, che aggrediscono da sempre ogni esistenza. Tali eventi, allora, non vanno assunti e vissuti come fatti che si dipanano in un tempo storico e irreversibile, ma come mere ripetizioni di un contrasto e di una resistenza delle forze del Caos originario nei confronti delle potenze benefiche creatrici, rivelati nel mitologhema cosmogonico degli inizi e della fine dei tempi. Miticamente, quindi, non ci sono molte e diverse guerre avvicendantisi nel tempo della storia, nemmeno dal punto di vista di un uomo, se egli appartiene ad una cultura premoderna, ma un'unica, identica guerra116, suscitata dal gesto benefico e creatore di Dio, sebbene violento, che, pur iniziatasi vittoriosamente, è tuttora in corso, e che si concluderà solo con la distruzione finale del Male e la glorificazione della Gerusalemme del popolo eletto e della Chiesa dei beati (secondo le Apocalissi giudaiche e cristiane).

 

 

§ 9. Il settimo giorno, dopo il riposo

 

   Se si accetta la tesi del conflitto cosmogonico di Yahweh con il Caos acqueo, lo scontro campale della fine dei tempi avrebbe, allora, un unico possibile senso, quello dell'epilogo di questa guerra mitica precosmica che, in quanto tale, non ha e non può avere significato storico alcuno, sebbene l'intero cosmo umano e divino vengano totalmente coinvolti in essa e vengano intesi in base ad essa. In verità, fin dai «tempi antichi il Signore ha fissato il giorno della grande battaglia»117. Così, se da una parte tutte le guerre di Israele e della Cristianità premoderna, come si è visto, dato l'intervento delle potenze sacrali, hanno sempre risonanza e portata cosmiche indubitabili e sono, in definitiva, delle micro-apocalissi,118 dall'altra, la fine del mondo sarà preceduta da una guerra cosmica totale che, sebbene, forse, originata in tempi e luoghi ove l'uomo ancora non c'era, coinvolgerà, certo, l'umanità e le terre da essa abitata119.

Una guerra mitica qualunque, quindi, con l'opulento e rutilante apparato figurativo catastrofico di sempre120, ma questa volta tutto questo appare ingigantirsi a dismisura121, perché lo scontro escatologico sarà autenticamente totale e definitivo. Comunque, l'Apocalisse dovrebbe realizzare finalmente quel sogno – occulta radice dell'ostinato istinto bellico – invano accarezzato sempre dai cuori dei guerrieri, quello della distruzione definitiva del Male122 in tutto il mondo – originario o no che esso sia – e in tutti i suoi molteplici aspetti. Dovrebbero avvenire, allora, con il ritorno del Messia sulla terra, la glorificazione dei giusti che risorgeranno a nuova ed eterna vita, trionfando sul male e, quindi, sulla Morte123, il castigo senza appello dei malvagi124, il dilatarsi125 nel cosmo del dominio dei giusti e dei beati (il trionfo di Gerusalemme – con la restaurazione del regno di Davide126 – e della Chiesa di Cristo), la pace perpetua127 e l'avvento di nuovi cieli e di nuove terre128. Questi vanno intesi miticamente, cioè in senso realistico e non in quello spirituale e trascendente129 e cioè non molto diversi dai cieli e dalle terre di oggi130, sebbene mondati per sempre dal male131. In definitiva, con l'Apocalisse, che conduce alla perfezione un universo nato o divenuto imperfetto, si conclude, di fatto, il lavoro cosmogonico di Dio con l'aggiunta di un "settimo giorno", non meno faticoso e creativo dei precedenti. L'evento apocalittico è, in definitiva, ciò che Dio "farà il settimo giorno", compiendo conclusivamente la Sua Creazione.

   Il giorno dell'ira, quello della "mietitura",132 il giorno rovente come un forno133, tenebroso per nube e caligine134, piomberà improvviso «come un ladro nella notte»135 al suono delle trombe angeliche136, non diverso da quello lanciato dalle sentinelle che, allertando gli eserciti accampati, intimano ai guerrieri di adunarsi in fretta per il combattimento. Il Signore, circondato dalle "mietitrici" armate angeliche137, dovrà uscire ancora, per l'ultima volta, «con mano forte e braccio teso» contro i nemici di Israele e contro gli avversari di Cristo, schieratisi su di un campo grande quanto il mondo138, perché essi, nella pienezza dei tempi (cioè con l'avvento dell'Anticristo) hanno raggiunto una potenza ed una estensione tali da mettere a repentaglio, ormai, la vita dell'uomo e del cosmo, cioè  la Creazione stessa. Ma il destino vittorioso è scontato139 perché esso è già presente "in carne ed ossa" nella rivelazione oracolare.

La figura solare e aggressiva del Cristo che nell'Apocalisse appare a Giovanni in estasi – occhi fiammeggianti, piedi simili al bronzo lucente, spada a doppio taglio emergente dalla bocca, voce simile al «fragore di grandi acque» – non lascia dubbio alcuno sull'imminenza dello scontro escatologico140. In mezzo e intorno al trono dell'Altissimo, circonfuso di lampi, tuoni e voci, quattro esseri simili ai Cherubini di Ezechiele141, con l'aspetto di leone, di vitello, di uomo e di aquila volante, cosparsi di occhi davanti e di dietro e muniti di sei ali, occhiute anch'esse, inneggiano all'Onnipotente, seguiti, poi, dai cori «di miriadi di miriadi di angeli»142 in lode dell'Agnello, come i guerrieri sogliono esaltare con grida i loro capi per esaltarsi a vicenda alla vigilia di ogni grave scontro.143

L'apertura dei sette sigilli ad opera di Cristo, che stringe nelle mani il rotolo degli eventi finali decretati da Dio, ritma la sequenza incalzante dei disastri umani e cosmici che precedono sinistramente la fine dei tempi, cioè, invasioni, guerre, carestie, pestilenze, morti, terremoti, sole nero, luna rossa, caduta di astri e l'accartocciarsi della volta del cielo. I quattro angeli, che comandano dai quadranti del mondo i venti devastatori, attendono immobili, prima di abbattersi sulla terra e dare inizio alla strage, che venga impresso sulla fronte di tutti i servi di Dio il segno del loro riconoscimento di uomini giusti144. All'apertura del settimo sigillo verranno date agli angeli sette trombe che essi inizieranno a suonare una dopo l'altra, provocando disastri sulla terra di origine meteorica e, soprattutto, astrale145, e solo dopo lo squillo della settima tromba si compirà il mistero di Dio, secondo le profezie146. Un angelo decaduto, al suono della quinta tromba, aprirà il pozzo dell'Abisso dal quale, come da una fornace, esaleranno, insieme ad un fumo tanto denso da oscurare il sole, sciami di mostruose cavallette dal ventre corazzato che, simili a cavalli da battaglia catafratti, ma con volto e capelli umani, con zanne leonine e con code di scorpione, muoveranno all'assalto dei malvagi con le loro ali rombanti come carri da guerra trainati da molti cavalli lanciati al galoppo147. Lo squillo della sesta tromba slegherà i quattro angeli incatenati del fiume Eufrate e duecento milioni di cavalieri corazzati di fuoco, di giacinto e di zolfo, che montano cavalli dalla testa leonina e dalle code ofidiche, vomitanti fuoco, fumo e zolfo, stermineranno un terzo dell'umanità148.

Il settimo squillo di tromba schiuderà il Santuario celeste di Dio e l'Arca dell'Alleanza apparirà nel varco dei cieli, accompagnata dagli sconvolgimenti meteorici e ctoni, tradizionalmente sempre collegati alle grandi ierofanie celesti. L'esibizione del massimo della cratofania sacrale è, di fatto, l'inizio dello scontro. In cielo una Donna incinta del Messia, vestita di sole, coronata con dodici stelle e con la luna sotto i suoi piedi, verrà assalita – nel vano tentativo di divorare il figlio appena nato – da un enorme drago rosso dalle sette teste e dalle dieci corna, la cui coda rovinerà giù sulla terra un terzo delle stelle del cielo149. Michele e le sue legioni piomberanno in forze su di lui e sui suoi accoliti e «il grande Drago, il Serpente antico, colui che chiamiamo diavolo e satana sarà precipitato sulla terra» ancora vivente e furente «perché gli resterà poco tempo»150. E Satana, a conferma della sua primordiale matrice acquea, dopo aver tentato di affogare la Donna – che si invola verso il deserto con due ali d'aquila – vomitando su di Lei un fiume d'acqua, si ferma infine in riva al mare per conferire alla Bestia emergente dalle acque – un pauroso mostro con dieci corna e sette teste, simile ad una pantera, ma con zampe d'orso e con bocca leonina – la forza, il trono e la potestà per dominare sui potenti della terra, per guerreggiare contro i santi e, infine, per vincerli.151

Ad apparizioni angeliche che annunziano l'ora del giudizio e ad altre che mietono e vendemmiano le nazioni, perché la maturazione dei tempi è ormai giunta, si avvicendano sulla scena apocalittica, uscendo dal Tempio che contiene la Tenda della Testimonianza, fumante per la presenza della Gloria di Dio,  sette Angeli muniti di sette coppe, colme dell'ira divina, che essi dovranno rovesciare sulla terra, sul mare, sulle acque, sul sole, sul trono della Bestia, sull'Eufrate e in aria152, causando rovine immani come non mai. Ma dalla bocca del drago e della bestia usciranno, sotto l'aspetto di rana, tre spiriti immondi che, facendo prodigi, andranno a radunare tutti i re di tutta la terra, quelli che nel gran giorno di Dio si scontreranno sulla piana fatale di Armaghedòn153.

    Cristo con corona ed occhi fiammeggianti scenderà in campo per la prima volta, montando un cavallo bianco, seguito dagli eserciti celesti, anch'essi su cavalli bianchi e vestiti di lino candido e puro. Mentre un Angelo, ritto sul sole, urlerà agli uccelli che volano in mezzo al cielo di radunarsi per cibarsi a sazietà delle carni dei caduti nella imminente carneficina, re, eroi, capitani, cavalieri e cavalli154, la Bestia e i re della terra con i loro eserciti si scontreranno con le schiere dell'Altissimo e dopo l'eccidio totale dei suoi sventurati accoliti, trafitti dalla spada a doppio taglio che si protende dalla bocca del Verbo, la Bestia e il falso profeta verranno catturati e gettati nello stagno di fuoco e di zolfo155. Un Angelo scenderà, poi, dal cielo con le chiavi dell'Abisso ed con una grande catena, per rinchiudervi dietro una porta sigillata e in catene per la durata di mille anni "il Serpente antico" che non aveva partecipato al primo scontro con Cristo e i Suoi Angeli156. Dopo la sua liberazione Satana radunerà, per l'ultima volta, dai quattro angoli della terra, tutte le nazioni nemiche del popolo di Dio, che marceranno dilagando sull'intera superficie terrestre e, sebbene all'assedio di Gerusalemme e dell'accampamento dei santi gli eserciti guidati dal Dragone saranno numerosi come la sabbia del mare, essi  verranno inceneriti da un fuoco piombato su di loro dal cielo157. La guerra escatologica si concluderà, quindi, con la desacralizzazione del Male che, da cratofanico che era, perché sacro, diverrà del tutto impotente: nello stagno di fuoco e di zolfo, Satana, la Morte e gli Inferi stessi andranno a fare compagnia, per i secoli dei secoli, alla Bestia e al falso profeta che li avevano preceduti158.

   Così, su una terra talmente purificata dal lutto, dal lamento e dall'affanno, da non rinvenirvi più nemmeno il relitto più imponente della loro arcana e remota matrice caotica primigenia, cioè il mare159, illuminata senza posa non più dal sole o dalla luna, ma dalla gloria di Dio e dell'Agnello che hanno fugato ogni tenebra, discenderà dal cielo la Gerusalemme santificata dove Dio e Cristo abiteranno con i giusti che potranno finalmente guardare il volto del Signore senza morire. Una città reale, comunque, squadrata a regola d'arte, costruita con metalli nobili, pietre preziose e perle, cinta, ancora, da alte mura guarnite di dodici porte, vigilate da dodici angeli, e con al centro della piazza della città l'albero della vita i cui frutti di dodici raccolti l'anno sfameranno tutti160. «Il mondo intero e il paradiso diventeranno una cosa sola»161 e la guerra, solo allora, scomparirà del tutto e dovunque, perché essa non avrà ormai più senso alcuno. Ma questa pace eterna, sempre bramata dagli uomini, sfocerà, tuttavia, solo da una guerra paradigmatica vittoriosa.162

 

 

§ 10. Epilogo

 

   Le ragioni dell'enigmatico163 istinto bellico, individuate dalle presenti analisi fenomenologiche, appartengono indubbiamente ai vissuti etnici di un vasto mondo di culture mediterranee a base mitico-rituale, ad un mondo, cioè, che, oggi, può dirsi anche "semanticamente" tramontato e divenutoci alieno. Imponenti analisi storiche, antropologiche, filosofiche e teologiche, ciascuna dal proprio punto di vista metodologico e proiettando principi, credenze e concetti che la cultura della modernità ci ha copiosamente elargito, hanno da tempo affrontato e affrontano ancora oggi le stravaganze, sempre più indigeribili, delle culture vissute o viventi in spazi e tempi alieni, intenti solo a fabbricarsi – di norma inconsapevolmente – una immagine degli altri che sia il meno stridente possibile con le nostre usuali convinzioni attuali e non già a raccogliere le ragioni degli altri così come effettivamente esse sono o sono state. De re nostra agitur, insomma.

Non ritengo che la ricerca nel dominio specifico delle scienze cosiddette umane possa più essere soddisfatta né da simili metodi di indagine proiettiva, oltremodo riduttivi e manipolatori del senso proprio che abita intrinsecamente i dati di culture lontane da noi, né, ancor meno, da certi noti espedienti "partecipativi", mediante i quali il ricercatore, trasformatosi in indigeno, prova ad aderire simpateticamente alle fedi e alle credenze delle etnie da studiare, convinto di poterle conoscere più adeguatamente "dall'interno". Ho cercato di mostrare come un approccio fenomenologico all'alterità culturale, adeguatamente assestato e calibrato analiticamente, possa aprire una feconda via d'uscita dal labirinto di queste intricate aporie metodologiche ed epistemologiche.

    L'individuazione della intenzionalità bellica come lotta radicale e definitiva al male, ottenuta analizzando contesti culturali a base mitico-rituale, non deve indurre alla frettolosa conclusione che tale identificazione debba valere esclusivamente per gli universi a fondamento sacrale. Si può, tuttavia, affermare che solo in simili contesti culturali e non in altri questa identificazione è, in effetti, chiaramente emersa allo sguardo fenomenologico e, sebbene manchino adeguate analisi in proposito, è possibile supporre che ciò sia dovuto al fatto che, essendo le strutture sacrali le compagini di senso più elementari ed originarie che le comunità umane hanno elaborato per capire il mondo e per sopravvivere in esso, il loro radicamento nel vissuto di impotenza, generatore di impulsi bellici, è, ovviamente, diretto ed immediato.

Se, poi, il vissuto della lotta radicale contro il male fosse effettivamente tutt'uno con il vissuto originario della condizione biologicamente impotente di Homo164, come fenomenologicamente è apparso, tale vissuto, indipendentemente dal senso sacrale o secolarizzato che le culture possono conferirgli, continuerà allora ad alimentare i nostri attuali impulsi alla guerra. E, in tal caso, essa sarebbe difficilmente estirpabile dalle comunità umane.

 

 

 

Domenico Antonino Conci



[1] Raccolgo tale informazione dalla pubblicazione, relativa alla visita papale, di A. TROIANO, L'Arcangelo guerriero. San Michele e il "culto speciale" del Papa e della Chiesa, [S.l.], 1989; p. 16.

[2] È noto che nel Sanctus la formula rituale "Signore degli Eserciti" è stata sostituita con l'espressione "Signore dell'Universo".

[3] A. TROIANO, op. cit., pp. 69 e ss.

[4] Ibid., p.15. Sull'attualità della lotta contro la presenza infestatrice di Satana si era già pronunziato, del resto, Paolo VI in una omelia del 29 giugno 1972, in occasione della festività dei SS. Pietro e Paolo e del IX anniversario della Sua incoronazione. L'attuale Pontefice ha, poi, ripreso, ritornandovi più volte, il misterioso tema diabolico in alcune Sue importanti omelie. Tale pensiero fu riportato sulle pagine de L'Osservatore Romano del 14, 16, 17 e 21 agosto 1986, suscitando le inevitabili polemiche della stampa "liberale" e degli intellettuali "moderni"  (cfr., ad es., A. M. DI NOLA, Il diavolo. Le forme, la storia, le vicende di Satana e la sua universale e malefica presenza presso tutti i popoli dall'antichità ai nostri giorni, Newton Compton, Roma 1987, pp. 355 e ss.).

[5] Gli originari luoghi di culto dell'Arcangelo guerriero sono rinvenibili, prima che Costantinopoli annoverasse complessivamente ben ventiquattro chiese consacrate a S. Michele, nelle Chiese copte d'Egitto e in Frigia, ove, diversamente dalla iconografia occidentale, non sembra sia stato rappresentato mentre abbatte il dragone, secondo una lezione ispirata direttamente e letteralmente dalle visioni apocalittiche di Giovanni (cfr. M. BAUDOT, «Origine du culte de Saint Michel», in Millénaire monastique du Mont-Saint-Michel, vol. III, P. Lethielleux, Parigi, 1993, p. 19). Il Liber pontificalis colloca l'assenso di papa Gelasio I alla consacrazione del Santuario garganico intorno al 493. I Longobardi diffusero, poi, il culto micaelitico a Pavia e a Milano.

[6] Come sarà chiarito progressivamente nel testo, l'espressione qui usata "mitico-rituale" allude significativamente e ampiamente a contenuti rivelativi relati a segni multiformi (immagini, parole, orali o scritte, gesti, azioni, etc.) attribuiti alla volontà di figure potenti, cioè sacrali (mito), che vengono scrupolosamente riattivate (rito) a fini salvifici da parte dei singoli e delle comunità a base mitico-rituale. Va, quindi, precisato che, seguendo tale prospettiva, il termine "rivelazione" non è da intendere e da impiegare come qualcosa di esclusivo del Vecchio e del Nuovo Testamento, ma va assunta come l'indole generale del fondamento di qualunque credenza religiosa e di qualunque attività rituale in generale. Cfr. più oltre.

[7] Si racconta come nel 492 la città di Siponto, assediata dai soldati di Odoacre, fu salvata da S. Michele che intervenne, rispondendo con manifestazioni uraniche e telluriche alle invocazioni di soccorso del Vescovo (JACOPO da VARAZZE, Legenda aurea, CXLV, S. Michele Arcangelo, 2.1). Così, il Protettore di Israele e di Bisanzio dava inizio ufficiale ad una imponente attività militare in Occidente. L'abbandono dell'assedio di Benevento ad opera dell'imperatore bizantino Costante e i successivi scontri vittoriosi del duca longobardo Romualdo furono attribuiti senz'altro «al braccio militare di Dio e della Vergine», cioè a S. Michele. Ma Paolo Diacono, che nella sua Historia Langobardorum riferisce pure l'invasione dell'Italia da parte di Costante (V, 6 e ss.), non ne parla. Tuttavia, nello scontro tra Alachi e Cuniberto, riportato da Paolo, quest'ultimo vince perché porta sugli stendardi da battaglia l'immagine di S. Michele (V, 41). In realtà, a conferma dell'indubbio prestigio politico del sito garganico, intorno al 650 i Longobardi di Grimoaldo difesero dai Bizantini quel Santuario che questi ultimi avevano precedentemente fondato e che successivamente, cioè nel X e nel XI secolo, avrebbero ostinatamente riconquistato, rioccupando l'intero promontorio garganico.

Il Sacramentarium di Papa Gelasio I con le sue Orationes e Missae tempore belli e con la Missa pro regibus invoca senz'altro l'intervento divino per conseguire la vittoria sul campo di battaglia e nel VIII secolo compaiono le preghiere speciali per la benedizione del vessillo da battaglia e quelle solenni per la vittoria. Nel 932 un Concilio, riunito ad Erfurt, avrebbe successivamente  limitato le celebrazioni delle messe dedicate a S. Michele per le vittorie belliche (cfr. F. CARDINI, Alle radici della cavalleria militare, La Nuova Italia, Firenze 1987, p. 307) e la forza militare, comunque, non venne mai sottoposta dalla Chiesa ad una investitura sacramentale vera e propria (M. KEEN, La cavalleria, a cura di F. Cardini, tr. di F. De Giovanni, Guida, Napoli 1986, p. 142 ). Il vessillo che il re germanico Enrico l'Uccellatore ed Ottone I portarono devotamente contro gli Ungari – identificati, senz'altro, col dragone infernale – il 10 agosto del 955 recava l'immagine di S. Michele e la vittoria sulla Lech fu attribuita a Lui (cioè alla Sua presenza come Santa Icona). Una tradizione popolare vuole che sul parapetto della loggia dell'Abbazia della cittadella medioevale Terra Murata di Procida venisse collocata, contro gli sbarchi saraceni, la statua d'argento di S. Michele, per riattivare una precedente sua ierofania nei cieli dell'isola, tra tuoni e lampi, contro un attacco di barbareschi. Nel 1425 L'Arcangelo, insieme ad altre figure potenti, visita più volte Giovanna d'Arco a Domrémy e non è certo casuale l'ingresso trionfale della Vergine guerriera ad Orleans proprio l'8 di maggio, giorno celebrativo di S. Michele. Alla battaglia di Hastings, il Conte Roberto di Mortain inalbera uno stendardo con l'effigie di S. Michele. Alfonso Enrico di Portogallo, fondatore dell'Ordine di S. Michele, mentre lotta contro i Mori per riconquistare lo stendardo catturato dai nemici, viene soccorso da un braccio alato, privo di corpo,  che si protende dall'alto, proteggendo il Re che combatteva pericolosamente appiedato. Dopo la vittoria, i prigionieri Mori confermarono l'apparizione celeste. E agli inizi del XVII sec., S. Michele, approdato con gli Spagnoli nelle Americhe, appare ad un giovane indigeno messicano in un sito non lontano da Mexico City (S. Miguel del Milagro).

[8] In tutte le culture a fondamento mitico-rituale vi sono luoghi e tempi privilegiati in cui, per un'arcana destinazione, le etnie ritengono di poter incontrare il Sacro, onde invocarlo e averlo presente, così, più da vicino. Sono, questi, i templi e le feste. In linea generale il tempio fissa il luogo dell'apparizione potente e la festa rinnova il momento in cui per la prima volta la ierofania salvifica ha avuto luogo. Nel nostro caso, ad es., il Santuario del Gargano determinerà paradigmaticamente spazi e tempi di azioni devozionali volte a fondare e a rinnovare incontri protettivi con il potente Arcangelo. Ma non è sempre così. Dal 950 al 1050, infatti, sorgono in Europa luogo di culto importanti in onore dell'Arcangelo, anche se in essi S. Michele non è mai apparso, a causa, sembra, di un manifesto e diffuso interesse per l'Apocalisse di Giovanni (D. KECK, Angels and Angelology in the Middle Ages, Oxford Univ. Press, New York, 1998, p. 45). In generale il culto micaelitico occidentale predilige, sebbene non in modi esclusivi, alloggiamenti in luoghi rupestri, aerei e ctonii, come alture, colline, grotte, costoni marini e presso corsi d'acqua o foreste impenetrabili, per un evidente ritualismo ripetitivo dell'archetipo garganico (cfr. J. FOURNEE, «L'Archange de la mort e du jugement», in Millénaire monastique, op. cit., p. 90). Oltre al celeberrimo Santuario normanno di Mont Saint-Michel, vanno ricordati quello edificato, con il titolo mimetico "Monte Gargano", su di una collina dominante la città normanna di Rouen, scomparso con la Rivoluzione (cfr. A. FOURE, «La Prieuré Saint Michel au Monte Sainte-Catherine près Rouen», in Millénaire monastique, op. cit., pp. 309 e ss.); la Sagra di S. Michele, tempio edificato in Piemonte sul monte Pirchiriano tra Torino e Susa (cfr. A. PETRUCCI, «Origine e diffusione del culto di S. Michele nell'Italia medievale», in Millénaire monastique, op. cit., p.348) e, in Italia, altre spelonche micaeliche meridionali, nate su imitazione garganica, come quella di Civitella del Tronto (ibid., p. 348) e quella di Olevano sul Tusciano, a nord di Eboli (ibid., p. 344). La  tradizione popolare vuole che in Abruzzo vi siano molte altre caverne dedicate a S. Michele ed è nota quella di Balsorano, ove l'Arcangelo sarebbe apparso, e un cui cunicolo sboccherebbe addirittura sul Gargano stesso (G. PANSA, Miti, leggende e superstizioni dell'Abruzzo, Studi comparati, Parte I, Forni, Bologna , 1970 [rist. an. dell'ediz di Sulmona 1924], pp. 84 e ss.).

[9] L'uso dei metodi e delle categorie della filosofia greca (la cosiddetta sapienza dei Gentili) per la comprensione e per la sistemazione dei contenuti rivelativi cristiani, che avrebbe raggiunto l'apogeo e una relativa solidità d'impianto con la Scolastica del XIII secolo, con l'impiego massiccio del pensiero neoplatonico ed aristotelico, non fu senza risoluti contrasti fin dai primi secoli dell'Era cristiana. Il vescovo Athanasio di Alessandria, ad esempio, nella sua celebre Vita di Antonio, da lui scritta dopo la morte del Santo, avvenuta nel 356, riporta un dibattito tra Antonio e alcuni filosofi pagani, ove, lucidamente, emerge l'insostenibilità della tesi che l'esistenza e, quindi, l'adorazione di Dio, possano fondarsi sulla ragione dimostrativa (lògos apodeiktikòs) e non sull'adesione obbediente (pìstis) ai fatti rivelativi (pràgmata) (Vita di Antonio 77, 2-3). Sebbene simili argomenti non possono essere affrontati adeguatamente in questa sede, va tuttavia segnalato che, stando ai risultati dell'analisi fenomenologica, l'impiego occidentale del logos greco per la comprensione razionale dei dati rivelativi ha sfigurato questi in qualcosa di assolutamente altro, cioè in dati d'esperienza.

[10] Nella prospettiva fenomenologica le culture cosiddette popolari presentano, di norma, un fondamento genetico essenzialmente rivelativo e sono realistiche e politeistiche. Gli angeli dei "rustici" amano, come è noto, frequentare personalmente i loro devoti che li invocano frequentemente per scopi che la Chiesa qualifica come "superstiziosi", e sembrano, inoltre, agire in piena autonomia rispetto al Signore.

[11] Il metodo di analisi qui impiegato è quello di una antropologia ispirata ad un metodo fenomenologico riformato rispetto alla lezione ortodossa, cioè husserliana. Sebbene sia del tutto fuori luogo addentrarsi nell'intrico dei dettagli tecnici di tale analisi, va precisato che per il fenomenologo è del tutto ininfluente il problema della verità o della falsità dei dati rivelativi, di cui egli analizza le strutture di senso così come esse contestualmente si manifestano. In definitiva, il fenomenologo radicale deve attenersi solo e sempre ai concreti vissuti dei contenuti rivelativi, in quanto tali, evitando quelle fatali manipolazioni che inevitabilmente sopraggiungono quando sensi propri vengono proiettati sui dati dei sensi altrui, mescolandosi con essi inestricabilmente. Più avanti, nel testo, si chiarirà che l'attributo "rivelativo" va riferito ampiamente e in prima istanza a qualsiasi contenuto manifestativo acquisito da una coscienza in postura rivelativa e non esclusivamente alle manifestazioni potenti, cioè alle ierofanie in senso stretto.

[12] Il riconoscimento della specifica razionalità del Sacro, che regola il pensiero e la vita degli universi mitico-rituali, è oggi, a mio avviso, una delle conquiste più rilevanti di quelle analisi antropologiche e fenomenologiche della religione che hanno inteso liquidare le usuali credenze nella natura alogica, prelogica e, quindi, irrazionale delle culture a fondamento sacrale. Il riconoscimento dell'esistenza paritetica di molti lògoi che obbediscono, sovente, a leggi reciprocamente altre non rappresenta solo un significativo contributo al progresso degli studi del Sacro, ma la fine del peggiore, forse, dei costumi etnocentrici, quello di negare alle culture aliene proprio quella razionalità che distingue, di norma, l'essere umano in quanto tale.

[13] È altamente probabile che tale crisi antropologica si sia prodotta nel bacino del Mediterraneo antico orientale durante il periodo oscuro del cosiddetto "Medioevo ellenico" e all'indomani della caduta di cogenza dell'universo rivelativo, cioè di quello mitico-rituale, che aveva dominato, fino allora incontrastato, sul nostro pianeta da decine di millenni. Tale collasso antropologico è databile probabilmente agli inizi del I millennio (Età del ferro).

[14] Con l'espressione "pensiero vuoto" la fenomenologia intende un tipo di logos – quello occidentale – che per costituirsi e funzionare non ha bisogno di essere riempito di contenuto alcuno ed è, quindi, costitutivamente "privo di hyle" (materia). Se, del resto, dovesse dipendere da materiali intuitivi specifici, esso sarebbe privo di quella eminente facoltà relazionale pura che gli permette di costituirsi come una protesi integrativa di ogni deficienza attestativa propria dei fenomeni. Dispiegando, così, mediante la sua attività relazionale, una indiscussa potenza cognitiva ed operativa, il nostro logos culmina, come è noto, nell'impresa scientifica e tecnologica.

[15] Ritengo che la prima testimonianza archeologica di tale logos inaudito – puramente relazionale e, quindi, vuoto – vada riconosciuta nello stile cosiddetto "protogeometrico" della ceramica greca arcaica (900-800 a.C.).

[16] Ho usato in altri testi l'espressione "realismo segnico" per qualificare, unificandole in modo compendiario, molteplici forme di indistinzione concettuale, che presuppongono tutte quella antropologicamente fondamentale tra apparire ed essere. Accludo, così, anche quella tra l'universo dei segni e l'universo degli enti di riferimento, tra l'idea e la cosa, tra lo spirituale e il corporeo,  tra il sogno e il contenuto del sogno, etc.

[17] L'inadeguatezza e la problematicità intrinseche della manifestazione fenomenica, infatti, impongono la richiesta ineludibile della distinzione tra ciò che è reale e ciò che non lo è. E questa domanda è soddisfacibile solo sulla base di ipotesi e di prove di controllo altamente complesse. L'esistenza, beninteso, deve essere sempre "data" alla coscienza, o mediante una rivelazione o mediante l'esperienza, ma, a differenza della esistenza rivelata, quella esperita o fenomenica è, sempre, ambigua e malsicura. Le teorie scientifiche "corroborate" dal felice superamento delle prove di controllo ritengono di poter formulare asserti di esistenza in cui questa, essendo stata emendata, in una certa misura, dalle ambiguità fenomeniche di partenza, è qualificabile come "oggettiva". Si può, così, affermare, forzando un pò i termini, che in Occidente è l'oggettività scientifica e non la manifestazione, in quanto tale, a dare l'esistenza. È, pertanto, del tutto fuori luogo "controllare" i dati rivelativi mediante le stesse procedure (logiche o sperimentali) impiegate usualmente dalle scienze, perché i dati rivelativi non sono dati fenomenici, cioè d'esperienza. L'autenticità di un dato rivelativo non è per nulla cosa ovvia o pacifica, ma è solo funzione del consenso della comunità e della sua tradizione religiosa culturale. Pertanto, ogni ambiguità  rivelativa – a differenza di quella fenomenica che esige una vera e propria metàbasis logica e matematica per poter essere superata, in quanto intrinseca al fenomeno stesso – è essenzialmente estrinseca al contenuto rivelativo e l'appello alla comunità e alla tradizione significa che i contrasti e le lacune dei dati rivelativi si appianano e si integrano, quando è possibile, sempre ed esclusivamente mediante ulteriori manifestazioni realistiche, cioè utilizzando principi e strumenti interni all'orizzonte rivelativo stesso e non protesi vuote.

[18] È, forse, uno dei pregiudizi più ostinati della cultura occidentale la convinzione che «coscienza» e «io» siano sinonimi e che, quindi, la negazione dell'io comporti eo ipso la negazione della coscienza.

[19] Nella cultura scientifica occidentale questo stato di coscienza è classificato senz'altro fra le psicopatologie, in particolare tra quelle più gravi, costituite dall'indebolimento e dalla frantumazione dell'Io.

[20] La cultura occidentale egemone si fonda, eminentemente, sulla postura  proiettiva di una coscienza personale, centrata in se stessa, ritenendo necessario ed ovvio – di fronte all'inadeguatezza essenziale dei fenomeni – che, per conoscere il mondo e per agire su di esso, l'uomo debba proiettare sui dati d'esperienza "vuote" strutture di senso (logiche e matematiche), escogitate come modelli relazionali e come possibili progetti ingegneristici, trasformando così i dati in oggettività cognitive e operative.

[21] Solo muovendo dalle convinzioni moderne che postulano come ovvia una coscienza personale, centrata in un io, autonoma e libera, sia pure relativamente, nei confronti di ogni tipo di "influenza eteronoma", si può ritenere che la coscienza impersonale, propria delle culture a base mitico-rituale, configuri per l'uomo una condizione di schiavitù o di minorità intellettuale e morale, quando non una vera e proprio psicopatologia.

[22] In quanto sacrali, anche verso le potenze negative – o che possono pur essere Angeli sterminatori come quello inviato dal Signore in Esodo 12, 23, quello portatore della peste in 2 Samuele 24, 15-17 o quello della pestilenza di Roma del 590, visto da S. Gregorio sopra la Mole Adriana nel gesto liberatorio di rinfoderare la spada omicida – si praticano veri e propri culti, sebbene di carattere unicamente profilattico e apotropaico. È noto, in tal senso, l'ordine dato dal Signore a Mosè di fabbricare un serpente di rame e di collocarlo su un'asta per guarire e difendere il popolo dai morsi dei serpenti del deserto (Numeri 21, 8-9). Un idolo di bronzo sembra sia stato distrutto a Gerusalemme dal re Ezechia, su esortazione del profeta Isaia. Ierofanie angeliche benigne e maligne, associate ad eclissi di sole e di luna e ad una pestilenza a Roma e a Pavia, sono narrate da Paolo Diacono nella sua Historia Langobardorum, V, 5, opera in cui i segni ominosi sono continui e copiosi.

[23] Indipendentemente dalla sacralizzazione del male, va precisato che la riduzione all'unità delle molteplici nature e cause del male, laddove la modernità distingue nettamente  parlando di male fisico, di male morale, di  male psicologico, di male biologico, di male sociale, di male ambientale, etc. – con tutte le loro indefinite sottoarticolazioni specialistiche che queste distinzioni comportano – non deve essere giudicata come il prodotto dell'infantilismo o del semplicismo culturale di comunità ignoranti o culturalmente "attardate". Malgrado il rapido moltiplicarsi delle specializzazioni e lo sviluppo sempre più raffinato delle aggressioni tecnologiche del male in tutte le sue forme nel mondo odierno, l'uomo, a torto o a ragione, continua a porsi delle domande totali e assolute – quelle sul senso della esistenza sua e del mondo, sul senso della presenza del male nell'Universo, sul destino dell'uomo e del cosmo, etc. – che esigono di necessità risposte altrettanto totali ed assolute.

[24] Numeri 9, 15 e ss.

[25] Il fetore terribile e penetrante, emanato da tenebrose presenze, che ristagna nauseabondo anche dopo la loro scomparsa, è fatto noto (cfr., solo come esempio, Vita di Antonio di ATHANASIO di Alessandria, 63, 1).

[26] Cfr., ad es., Esodo 16, 10; Salmi 104 (103), 3-4; Ezechiele 3, 13; 43, 1-3.

[27] Alquanto misteriosamente, in Genesi 3, 1, compare «un'astuta bestia selvatica», il serpente, che irretisce Eva in Genesi 3, 13. In tal modo, creato da Dio come essere immortale, l'uomo, ingannato «per invidia» dal serpente, si imbatte nella morte, cioè nel Male, che prima non conosceva (Sapienza 2, 24). Il serpente, d'allora, come Satana, giunse nel Cristianesimo come un essere menzognero e padre della menzogna (Giovanni 8, 44). Così, nel reticente e ambiguo testo biblico sembra trasparire qualcosa di rimosso. Da dove viene, infatti, questa «astuta bestia selvatica», dato che l'intera Creazione è buona ?

[28] Genesi 3, 24.

[29] Cfr., ad es., Esodo 23, 20-33; Deut. 1, 21; 1, 29-31; 1, 42-43; 7, 21-24; 9, 3; 20, 1-9; 31, 3-8; Giosuè 1, 9; 5, 13-15 (ierofania del capo degli eserciti del Signore); 8, 1;  10, 10-15 (la grande giornata di Gàbaon); Giudici 2, 1-5; Salmi 35 (34), 1-6.

[30] Genesi 1, 1-3.

[31] Genesi 1, 6 -10.

[32] Nell'Enuma elish,  notissima epopea babilonese della Creazione, risalente agli ultimi secoli del II millennio, le complesse vicissitudini della creazione iniziano con la nascita dei primi Dei dopo la fine di uno stato caotico primordiale, costituito, appunto, dalla mescolanza delle acque dolci – Apsu – con quelle amare – Tiamat. Non diversamente si comporta il dio creatore egiziano Shu che divincola la dea del cielo Nut dall'abbraccio del dio della terra Geb. Sebbene non siano potenze precosmiche, anche Urano (Cielo), disteso dovunque (etanùsthe pànte) su Gaia (Terra) in un amplesso infinito, non lascia spazio alcuno per la nascita di altri dei e, quindi, di un mondo articolato di uomini e di cose. Così anche nella Theogonia di Esiodo – opera influenzata in generale da pregressi motivi mitici del Vicino Oriente antico – solo la rottura violenta (qui la castrazione di Urano ad opera di Crono) di una commistione primordiale rende possibile la nascita di spazi cosmici veri e propri (vv. 154-182). Il motivo cosmogonico della separazione delle acque è talmente potente nel suo primigenio significato creativo e salvifico da essere ritualizzato, ripetendosi per mimesis nel passaggio miracoloso di Mosè del Mare dei Giunchi, in quello del Giordano da parte di Giosuè e, ancora, in quello dell'Eufrate da parte degli esuli dall'Assiria, profetizzato da Isaia (11, 15-16). Analogamente, si vuole che il pericoloso riflusso della marea montante di Mont Saint-Michel in Normandia si plachi  nel giorno della festa dell'Arcangelo, perché le acque, una volta ritiratesi, formerebbero biblicamente come due solide muraglie (sed stat iinstar murorum a dextris et a sinistris), attraverso le quali i pellegrini, diretti all'Abbazia, possono avanzare senza alcun timore, sicuri di non essere travolti dalle acque (C. LAMY-LASSALLE, «Santuaries consacrés a Saint Michel en France des origines a la fin du IX Siècle», in Millénaire monastique, op. cit., p. 119).

Alla separazione cosmogonica e, quindi, benefica delle acque – il primo gesto creatore del Signore – si contrappone, dunque, miticamente, il Diluvio distruttivo che riporta il mondo quasi a quello stato precosmico che è poi quello del Nulla, del Caos e, quindi, del Male originario.

[33] Giobbe 37, 18.

[34] Non è certo casuale che Yahweh, per mondare la terra del peccato, abbia scatenato il Diluvio universale, che altro non è se non il rigurgito dell'originario Caos acqueo, sia pure parziale e temporaneo, semplicemente aprendo le dighe delle acque del cielo e di quelle della terra (Genesi 7, 10 -1 ; 8, 2-3). Sembra che Yahweh abbia collocato una sentinella a vigilare sul «mostro marino» e sui confini del mare (Giobbe 7, 12), imponendo un limite alle acque (Salmi 104 (103), 5-9). Cfr. anche altri luoghi che rivelano l'odio enigmatico, ostinato e l'agire violento del Signore nei confronti delle acque e dei loro multiformi accoliti (Giobbe 26, 12-13; 28, 25; 38, 8-11; Salmi 33 (32) , 7 ; 74 (73) 13-14, 17; 77 (76), 17; 89 (88), 10-11; 93 (92), 3-4; 104 (103), 7-9; 107 (106), 23 e ss.; 148, 7; Abacuc 3, 8; Isaia 27, 1; 51, 9-10). Il terrore umano nei confronti del male e della morte, intesi e vissuti miticamente come "annegamento", è ampiamente testimoniato nella Bibbia: cfr. in Salmi 18 (17), 5-20, il celebre Te Deum di Davide, sollevato dalle grandi acque da una maestosa e terribile epifania salvifica di Yahweh. Cfr. anche, Salmi 29 (28), 3; 32 (31), 6; 69 (68), 14-16; 93 (92), 3-4; Samuele 22, 5-20; Siracide 43, 24-25. Del resto, è Yahweh stesso a punire la città nemica con una inondazione delle grandi acque e questo è, ancora una volta, un segno eloquente, sebbene indiretto, del dominio mitico del Signore su di esse (Ezechiele 26, 19-20 ). Cfr. anche il celebre Cantico di Giona (Giona 2).

[35] «Sappi che Dio li (cielo e terra) ha fatti non da cose preesistenti» ( 2 Maccabei 7, 28).

[36] Cfr. DIELS-KRANZ, Parmenides 28, B 7-8.

[37] Trovo eloquente il palese puntiglio di un passo biblico nel precisare che Yahweh è «il Signore del cielo e della terra, Creatore delle acque», perché lascia emergere il problema affrontato nel testo (Giuditta 9, 12). Ci sarebbero, forse, dei dubbi, a proposito delle acque ?

[38] Come è noto, la più antica e celebre guerra cosmogonica è quella narrata nel poema mitologico babilonese Enuma elish, già citato. Tratta dello scontro vittorioso tra il giovane dio Marduk – che diventerà, così, il capo supremo del pantheon babilonese – e la mostruosa Tiamat, Dea primordiale delle Acque salate, alleata al suo sposo e luogotenente Qingu. Vi sono poi molti miti bellici che non sono cosmogonici perché narrano lotte per la conquista del potere su un mondo già creato. Ad es., il dio supremo ittita del cielo temporalesco – narrata dal sacerdote Killash – si  scontra con il serpente o drago divino Illuyankash in una furibonda guerra dalla quale riuscirà vincitore, uccidendo il mostro in riva al mare (cfr. G. FURLANI, La religione degli Ittiti, Zanichelli, Bologna 1936, pp. 87-91). Nei testi cananei ritrovati a Ras Shamra, il dio Ba'al, il Cavalcatore delle nubi, deve sostenere una guerra accanita, sebbene vittoriosa grazie al possesso di armi magiche (mazze) di crescente potenza, contro divinità eversive acquee, come Yam (Mare) e Tannin e Nahar (Fiume), strappando a Yam la splendida dea Astarte, da lui rapita. Il mito bellico sembra rinnovarsi con analoga violenza nella Theogonia di Esiodo, all'indomani della vittoria riportata da Zeus sui Titani e della conquista del potere,.con la lotta di Tifeo, un gigantesco mostro, generato da Tartaro e Gaia, contro lo stesso Zeus. Sulle sue spalle erano innestate «cento teste di serpe, di terribile drago» (op. cit., vv. 824-825). Rilevanti motivi analogici collegano questo scontro mitico al precedente mito ittita. Va rilevato, comunque, che, sebbene tali ultimi scontri mitici non siano propriamente cosmogonici, tuttavia la lotta per il potere cosmico contro forze eversive è necessaria per la tutela dell'integrità del mondo, per evitare, cioè, il rigurgito, sempre possibile, del Caos.

[39] Cfr., per ulteriori chiarimenti in proposito, D. A. CONCI, «Tempi che salvano. Prove fenomenologiche generali su modelli alieni di tempo», in Il tempo in questione. Paradigmi della temporalità nel pensiero occidentale, a cura di L. Ruggiu, Bruno Mondadori, Milano 1997, p.207.

[40] È chiaramente ispirata a tale modello mitico l'immagine profetica che identifica le invasioni nemiche (ad es. quella assira) alle inondazioni rabbiose, con gli eserciti che «rumoreggiano come fiumi in piena», per poi straripare e dilagare nei paesi assaliti come farebbe una alluvione incontenibile (Isaia 8, 5-10).

[41] Sono questi, in particolare, tutti gli eventi di ordine comunitario che, in una concezione culturale cui è estranea  la differenza tra natura e cultura, sono assimilati senz'altro ad eventi cosmici. Così i disordini naturali  e quelli sociali vengono ad identificarsi nella comune epifania sacrale maligna e questa identificazione che è reale e non simbolica va tenuta sempre presente in sede di analisi.

[42] È, come noto, la visione religiosa del profeta iranico Mani (216-277).

[43] Meditando sulla storia d'Israele, Isaia è convinto che nei giorni del passato era Yahweh stesso in persona, senza mediazione angelica alcuna, a soccorrere il popolo eletto (Isaia 63, 9). In Salmi 67 (66), 34 e in Salmi 68 (67), 5, è Yahweh stesso che interviene, cavalcando sulle nubi, come un Dio dell'uragano del Vicino Oriente. Cfr., anche, Zaccaria 10; 11, 1-3 (ove si registrano interventi divini con imponenti devastazioni territoriali). Va ricordata, del resto, la perdita degli scritti sacri prebiblici, quali il Libro di Yahweh e il Libro di Yashor, narrazioni epiche delle peregrinazioni e della conquista israelita delle terre di Canaan, ove le teofanie personali  di Yahweh dovevano essere probabilmente frequenti.

[44] "Mal'akh" per gli Ebrei, "Aggelos" per i Greci.

[45] L'origine di questi esseri va ricercata nella affollata e variegata demonologia, positiva e negativa, cananea (penso agli "Spiriti volanti"), mesopotamica e anatolica. Ad Ugarit, in riferimento ai Principi del Male, si citano i nomi di Motu, Rashpu, Yammu che comandano intere legioni di demoni (cfr. M. BALDACCI, La scoperta di Ugarit. La città-stato ai primordi della Bibbia, Piemme, Casale Monferrato, 1996, pp. 100-105).

[46] S. DIONIYSII  AREOPAGITAE, De coelestis hierarchia. Tale ordinamento fu, poi, seguito da S. Tommaso e da Dante.

[47] Gli Angeli in armi, buoni o cattivi, sono di norma i Principati, le Potestà e le Virtù ed, eminentemente, l'Arcangelo Michele che, rivestito originariamente della clamide bizantina, indosserà, poi, in Occidente, la tenuta militare romana o quella in voga nel Quattro e nel Cinquecento europeo (cfr. M. BUSSAGLI, Storia degli Angeli. Racconto di immagini e di idee, Rusconi, Milano, 1991, pp. 156-159). Vengono in certi casi rappresentati con lo scudo crociato, la mazza da guerra, la lancia e la cotta di maglia.

[48] Per due volte Giovanni cerca di prostrarsi per adorare l'Angelo, ma l'Angelo glielo vieta perché Egli, come lo sono Giovanni e gli stessi Profeti, non è altro che un servo di Dio. Solo Dio deve essere adorato (Apocalisse 22, 8-9).  Per Paolo il culto angelico è rifiutato perché con la Resurrezione di Gesù è stata abolita l'antica Legge che era stata lo strumento del dominio degli Angeli, dei Principati e delle Potestà (Colossesi 2, 12-18 ). Cfr. anche 1 Pietro 3, 22. Si ricordi, del resto, la celebre formula «Chi è simile al Signore tra gli angeli di Dio?» in Salmi 89 (88), 7-8. Contro possibili forme devozionali "idolatriche" e "superstiziose", è noto che il culto angelico – promosso per influenza degli apocrifi veterotestamentari tra il II e il V sec. d. C. – era stato vietato (can. 35) dal Sinodo di Laodicea del 320, dal Concilio di Calcedonia del 451 e da quello Lateranense del 1215. Agli Angeli è dovuta unicamente la dulìa, cioè l'invocazione, perché, data la loro prossimità al Signore, intercedano presso di Lui. Solo a Dio, invece, è dovuta la latrìa (cfr. D. KECK, op. cit., pp. 172-173).

[49] Michea vede schierato intorno al Signore l'intero esercito celeste (1 Re 22, 19).Per lo PseudoDionigi, poi, il numero degli angeli «sorpasserebbe la serie limitata e debole dei nostri numeri materiali» ed essi sarebbero, allora, «più che numerosi» (anarithmetoi) (De coelesti hierarchia, cap. XIV).

[50] Giovanni 12, 31.

[51] Daniele 12, 1; l'Angelo del Signore in Zaccaria 3, 1-7 potrebbe essere Michele. Cfr. anche, Testi di Qumran, a cura di Florentino Garcìa Martinez, ed. it. a cura di C. Martone, Paideia, Brescia ,1996 (d'ora in avanti Qumran), La regola della guerra, 1QM XVII, 6-8,  gli Inni contro i demoni, II Q II IV, 8-13.

[52] Del resto, non tutti i principi infernali, tardivamente descritti, sono dei guerrieri.

[53] Sapienza 2, 24.

[54] Cfr. J. WIER ( J. WEYER o VIERUS, in latino), Opera omnia, Petrum Vanden Berge, Amsterdam, 1660, pp.649 e ss. L'indemoniato gerasano, ad es., è posseduto da una intera legione di demoni (Marco 5, 9; Luca 8, 27 e ss.). Va ricordato che la legione romana contava, appunto, 6000 uomini.

[55] Un mosaico di S. Apollinare Nuovo a Ravenna, datato intorno al 520, ci dà la prima immagine del diavolo, un angelo umanoide rosso. Come animale o come mostro (code e orecchie animali, barba caprina, artigli e zampe e più tardi le corna) cominciò ad apparire dall'XI sec. e divenne alato con penne di uccello. Le celebri ali di pipistrello comparvero successivamente a partire dal XII sec. in poi (J. B. RUSSELL, Il Diavolo nel Medioevo, tr. di F. Cezzi, Laterza, Roma-Bari, 1987, pp. 95 e ss.).

[56] Questo paradigma mitico è alla base della usuale demonizzazione del nemico, in particolare delle orde degli invasori nomadi. Le etnie Tatare di stirpe mongolica, che invasero anche l'Europa orientale all'alba del XIII sec. agli ordini di Gengis Kan e che sconfissero nel 1223 i principi russi sul fiume Kalka, furono battezzati senz'altro come Tartari, cioè, come creature infernali, e apparvero, stando alle descrizioni dei cronisti, con fattezze fisiche aliene e terrificanti. Remigio di Auxerre riferisce che innumeri persone credevano di riconoscere i popoli di Gog e di Magog, annunziatori dell'Anticristo, nelle orde degli Ungari invasori (cit. da M. BLOCH, La società feudale, tr. di B. M. Cremonesi, Einaudi, Torino, 1987, p.71).

[57] Efesini 1, 20-23; 2, 2. Per Paolo si tratta dei Principati e delle Potestà – elementi del mondo retti dalla Legge (Galati 4, 3-9) – dominatori di questo mondo di tenebra (Efesini 6, 12). Anche secondo S. Tommaso, Satana risiede agli Inferi, cioè sottoterra (eredità acquea e ofidica), ma il suo terreno d'azione è l'aria caliginosa tra la dimora celeste e la terra (Summa Theologica, 1 q. 64 a. 4). Jacopo da Varazze (Legenda aurea, CXLV, San Michele Arcangelo, 2.2) afferma che i demoni occupano lo spazio intermedio tra cielo e terra e, svolazzano attorno a noi numerosi  come mosche. Nel XVI secolo attraverso tali bassure si vedranno incrociare i voli delle "streghe".

[58] Cfr. A. AUGUSTINI, De genesi ad litteram libri duodecim, III, 10, 15. Cfr. C. HART, Immagini di volo. Il tema della ascesa e della caduta nella cultura occidentale, tr. it. di E. Manzoni, Red, Como, 1993, pp. 210 e ss., pp. 219 e ss.

[59] Nella celebre Vita di Antonio di ATHANASIO di Alessandria, i demoni, contro i quali il Santo ingaggia furibonde battaglie, vivono numerosissimi nell'aria che ci circonda e, quindi, non risiedono molto lontano da noi (21, 4). Brulicando e volando senza posa possono anche penetrare dappertutto, attraversando, persino, porte chiuse (28, 5). Di notte i confratelli in visita al Santo vedono la montagna circostante cosparsa di fiaccole e odono clamori di voci numerose e tintinnii di armi come prodotti dal transito di eserciti in marcia. Era S. Antonio che combatteva nella notte contro i demoni dell'aria (51, 3). Osservando, poi, in visione, quali ostacoli si frappongano a quanti vogliono attraversare l'aria per ascendere ai cieli, S. Antonio comprende appieno la gravità dell'avvertimento di S. Paolo di guardarsi dalle Potenze dell'aria (65, 6-7; 66, 2-6). Squilli di trombe e strepiti di armati avrebbero accompagnato la peste devastante l'Italia ai tempi di Narsete (P. DIACONO, Historia langobardorum, II, 4), mentre delle battaglie di fuoco nei cieli notturni avrebbero preceduto l'invasione dei Longobardi in Italia (Ibid., II, 5). Nella Cronaca di Pietro di Dusburg (da M. KEEN, op. cit., pp. 390-391), è riportato l'episodio dell'urlo udito da una anacoreta, proveniente dai demoni dell'aria che si apprestavano ad una grande battaglia contro una compagnia di Crociati che l'indomani sarebbero stati sconfitti (anno 1261).

[60] È plausibile interpretare, sulla base della cosmologia tripartita, cananea ed israelita, articolata in cielo-terra-inferi (l'Abisso), quest'ultimo come un residuo fossile del Caos, un'esistenza quasi totalmente negativa e, tuttavia, sempre reale. A tali estremi confini del Cosmo – Mot per i Cananei, Sheol (letteralmente «tana della volpe») per gli Israeliti – il Male e i suoi accoliti si trovano relegati fino alla fine dei tempi. È significativo che il Papa Innocenzo IV, al secolo Sinibaldo Fieschi dei Conti di Lavagna (XIII sec.), abbia inviato ai Mongoli una lettera, diffidandoli di attaccare i popoli cristiani per non violare l'ordine, la giustizia e la pace del mondo assicurata nei cieli dai cori angelici.

[61] Cfr. la commovente preghiera per la disfatta in Salmi 60 (59); Ezechiele 14, 21; 21, 19; Amos 3, 6; 7, 1-6; Gioele 1 , 4; 1 Pietro 5, 8.

[62] Cfr., in proposito, R. GREAVES e R. PATAI, I miti ebraici, Tea, Milano, 1990, pp. 34-38, ove, tra l'altro, vengono evidenziati i significati di termini chiave ebraici, come Tohu (Vuoto) e Bohu (Caos).

[63] Genesi 3, 1-5. Il serpente dell'Eden è un fossile mitico delle Acque primigenie, come lo è, del resto, l'Angelo ribelle che, probabilmente, è sempre stato "ribelle". L'ipotesi, supportata, invero, da dati alquanto ambigui e eterogenei, del carattere originario del Male, qui associato al Caos acqueo precosmico, consente di evitare una poco comprensibile «creatio ex nihilo» del Male stesso, se il nulla lo si intende ellenicamente come pura negazione dell'Essere. Del resto, se il Male è stato sconfitto nello scontro cosmogonico, ma non ucciso, è evidente che esso non può non essere ancora presente nell'universo, sia pure nello stato di relitto.

[64] Isaia 30,7; 51, 9-10; Giobbe 9, 13; 26, 12-13; Salmi 74 (73), 13-14; 89 (88), 11.

[65] Il Nemico appare ancora come drago a S. Margherita di Antiochia che aveva chiesto a Dio di vederlo, per così dire, "materialmente" (J. DA VARAZZE, Legenda aurea, XCIII, Santa Margherita, ed. a cura di A. e L. Vitale Brovarone, Einaudi, Torino, 1995, p. 507). Nella chiesa di S. Michele a Bevagna (Umbria) – fine XII o inizio XIII –  il drago apocalittico del portale ha un corpo anguiforme a scaglie, con terminale di serpente, quattro zampe di rapace, due ali tozze e una testa di lupo.

[66] Isaia 27,1; Salmi 74 (73), 13-14; Giobbe 3, 8; 40, 25 e ss.

[67] Significativamente l'Egitto e il Faraone assimilato al Coccodrillo «sdraiato in mezzo al fiume» (Nilo) sono identificati con il Male e quindi  essi, insieme a tutti gli altri consimili sono da assumere come dei relitti fossili mitici delle Acque primordiali (Ezechiele 29, 3). Cfr. la splendida descrizione del mostro in Giobbe 40, 25-41, 1-26, ove ci appare come un rettile corazzato e scaglioso sul dorso e sul ventre, impenetrabile ai colpi di qualunque arma umana e spirante fumo dalle narici e fiamme dalle fauci armate di acuminate zanne. È talmente enorme che incede sulla terra arando il terreno come un erpice e, quando nuota in mare, lascia una scia "canuta" per il vorticoso ribollire delle candide spume da esso sollevate.

[68] Descritto in Giobbe 40, 15-24. È evidente l'origine egiziana di tale figura potente, tenebrosa e maligna, derivata dal dio Set, l'ippopotamo rosso che personifica il male nei miti egizi.

[69] Anche Belial. Cfr. 2 Corinzi 6, 15; Qumran, Regola della guerra, 1 QM XIII, 4-5, 11-12. In Qumran, Libri dei Patriarchi, nelle Visioni di Amram (4Q544) al fr. 2 compare accanto a Belial anche Melki-Resha, come dominatori, entrambi, delle regioni tenebrose.

[70] Nella tradizione giudaica i Vigilanti (cfr. Qumran, Libri di Enoc, 4Q201 I) sono gli Angeli che si accoppiarono con le donne, generando da queste i Giganti. La nascita, le malefatte e l'imprigionamento – fino al giorno del Giudizio – di questa schiatta terrestre gravemente corrotta sono descritti nei Libri di Enoc (testo mutilo parabiblico dell'inizio II sec. a. C.), sopra citato, ove compaiono le gesta di molti demoni (centocinquanta) e dei loro implacabili nemici, gli Arcangeli Michele, Raffaele e Gabriele (cfr. in particolare 4Q 201 III e, inoltre, 4Q 204).

[71] L'uomo è stato fatto «poco meno degli Angeli e poco meno di Dio» (Salmi 8, 6).

[72] Il principio di non contraddizione non è stato mai vincolante negli universi mitico-rituali.

[73] Simili convinzioni costringono alla benedizione e alla esorcizzazione di quasi ogni cosa: l'acqua, il cibo, la casa, il luogo di lavoro, il raccolto, la mandria, il pozzo, lo sposo novello, il letto nuziale, il pellegrino, il bordone, l'esercito, la spada, la lancia, lo scudo, il vessillo e la persona stessa del cavaliere (M. BLOCH, op. cit., pp.  356-358).

[74] Cfr. lo splendido offertorio di Davide (1 Cronache 29, 11-14) e 1 Cronache 5, 22; 2 Cronache 20, 15-30; 2 Cronache 14, 8-14; 2 Cronache 36, 22-23. Oloferne, comandante in capo dell'esercito di Assur, muore perché non ascolta il consiglio datogli da Achior di non attaccare gli Israeliti quando il Dio di Israele è con loro (Giuditta 5, 20-24). Cfr. Deut., 8, 17; Proverbi 21, 31;  in Salmi 68 (67), 1 e ss. la gloria di Israele è la gloria di Yahweh. Cfr. Qumran, La regola della guerra, 1QM XI.

[75] Ad es., un guerriero a cavallo, coperto di un'armatura d'oro, e due giovani splendidi per bellezza e per forza, appaiono improvvisamente e percuotono Eliodoro, penetrato nel Tempio con una schiera di armati per asportarne il tesoro (2 Maccabei 3, 25-34). La sottrazione fu possibile, poi, ad Antioco IV solo perché Yahweh aveva abbandonato il Tempio, lasciandolo senza protezione (2 Maccabei 5, 17-20). Contro Antioco Epìfane e il figlio Eupàtore, i guerrieri giudaici vincono perché protetti da potenti manifestazioni celesti (2 Maccabei, 19-22). Alla vigilia della seconda campagna d'Egitto di Antioco IV Epìfane, per quaranta giorni di seguito i cieli furono percorsi da schiere di cavalieri armati di scudi, di lance e di spade, sfolgoranti per le vesti e per le corazze d'oro, che si scontrarono senza posa in un turbine di frecce (2 Maccabei 5, 1-4). Nella battaglia contro Timòteo, il Maccabeo è circondato e reso invulnerabile da cinque cavalieri armati che, apparsi improvvisamente, disperdono i nemici con frecce e folgori, provocando con il disordine una implacabile carneficina tra i nemici (2 Maccabei 10, 27-30). La sconfitta di Lisia da parte del Maccabeo è, ancora una volta, propiziata e resa possibile da un cavaliere celeste vestito di bianco, apparso a guidare le forze giudee appena uscite da Gerusalemme (2 Maccabei 11, 7-10). Il generale Gallicano in lotta contro gli Sciti, spinto alla battaglia da un giovane con una croce sulla spalla, soggioga i nemici perché questi furono terrorizzati nel vederlo sostenuto nella mischia da due cavalieri armati, improvvisamente apparsi a fiancheggiarlo (J. DA VARAZZE, op. cit., LXXXVII, I Santi Giovanni e Paolo, p.462). Nella vita di S. Giovanni Crisostomo, Jacopo da Varazze racconta come una intera divisione di Angeli proteggesse di notte il palazzo dell'Imperatore di Costantinopoli, mettendo più volte in fuga gli scherani di Gaima, capo della cavalleria imperiale, che voleva incendiare il palazzo e impadronirsi del potere (CXXXVIII, San Giovanni Crisostomo, op. cit., p. 759).

[76] Cfr. 1 Cronache 14, 8-16; 2 Samuele 5, 23-24.

[77] Cfr. Qumran, Regola della guerra, 1QM XIV, 4-7.

[78] Lo Spirito del Signore si ritirò da Saul e questi fu posseduto da uno Spirito cattivo (1 Samuele 16, 14-23; 18, 10-12; 19, 9-10) che lo faceva vaneggiare. E, così, egli finì nelle mani dei Filistei.

[79] Il peccato capitale per il popolo di Israele è la violazione del primo Comandamento. L'idolatria provoca l'ira puntuale e incontenibile di Yahweh, perché «tutti gli dei delle nazioni sono un nulla» (Salmi 96 (95), 5). Cfr. l'illuminante episodio della scoperta degli idoli sotto le vesti dei caduti giudei in 2 Maccabei 12, 40, come il vero motivo della loro inevitabile morte in battaglia. Cfr., anche, Isaia 2, 6-22.

[80] «Io volgerò gli occhi su di loro per il male, non per il bene» (Amos 9, 4). Cfr. Isaia 5, 26-30; 7, 18 e ss.;  9, 10-11; 10, 5-19 , 24-35; 30, 30 e ss. (contro l'Assiria); 41, 1-5; 45, 1-7 (Ciro, spada di Yahweh.); Geremia 44, 11 (contro il regno di Giuda). Yahweh «con mano tesa e braccio potente» scaglia contro Sedècia, re di Giuda, i Caldei di Nabucodonosor (Geremia 21, 4 - 5). Cfr., inoltre, 2 Re 24, 2- 4 (contro Joiakìm); 2 Cronache 24, 23-25 (contro Ioas) ; 2 Cronache 13, 1-18 (contro Geroboamo).

[81] Poiché il Signore e gli Angeli santi stanno nell'accampamento e in mezzo alla truppa, i guerrieri devono essere e mantenersi puri (cfr. Deut. 23, 10-13 e l'eco nei rotoli di Qumram 1 QM, VII, 5-6).

[82] Anche F. Cardini nel suo eccellente studio Alle radici della cavalleria medievale, op. cit., pp. 56-57, nota come nei contesti culturali sciamanici la guerra era intesa e vissuta sempre come una lotta contro i nemici umani e contro gli spiriti del male. Ma tale credenza bellica può estendersi tranquillamente alla totalità delle culture a base mitico-rituale. Secondo J. da Varazze, ad es., «i demoni, che stanno negli strati bassi dell'aria si spaventano terribilmente quando sentono suonare le trombe del Cristo, cioè le campane, e vedono i vessilli, cioè le croci», il cui carattere profilattico e apotropaico è ovvio e palese (op. cit., LXX, Le Rogazioni maggiori e minori, p. 393). «Chi non sa – scriveva il prete Helmod – che le guerre, gli uragani, le pesti, tutti i mali che si abbattono sul genere umano accadono per opera dei demoni?» (citato da M. BLOCH, La società feudale, op. cit., p. 102); cfr., inoltre, sulla mentalità religiosa medievale Ibid., p. 97 e pp. 100-103.

[83] Per un'intera notte, prima di guadare lo Iabbok, Giacobbe lotta strenuamente contro una improvvisa epifania antropomorfa di Yahweh stesso (Angelo?) che resterà anonima, sebbene Giacobbe lo interroghi, temendo, forse, che sia un demone. Alla fine, visto che non poteva vincere Giacobbe, Yahweh gli sloga l'articolazione del femore. Tale enigmatica lotta è la prova suprema, faccia a faccia con l'inguardabile Dio degli Ebrei, sostenuta da Giacobbe e, tramite lui, dall'intera sua stirpe che, d'allora, saranno benedetti e si chiameranno entrambi Israele. Il Dio di giustizia non può vincere il giusto e la mancata sconfitta di Giacobbe è la testimonianza della giustizia del Patriarca e di quella stessa di Dio (Genesi 32, 23-33). Cfr. anche Osea 12, 4-5.

[84] In generale, tutte le culture, per motivi identitari e di securizzazione, credono di stare intorno al Centro di un Universo che non si estende, poi, tanto al di là dei confini del proprio territorio. Tale Centro, inoltre, non è un luogo geometrico, ma è il sito (naturale o artificiale che sia) in cui l'uomo ritiene di poter incontrare la figura potente. Tale particolare condizione esistenziale implica inevitabilmente la portata o la risonanza cosmica di ogni atto umano e di qualunque evento naturale. Tra i numerosissimi esempi, desidero ricordare il bellissimo Oracolo contro Babilonia del profeta Isaia 13, 1-22 e i segni ominosi come l'uragano di pioggia, di grandine, di vento, di tuoni, di folgori, e il terremoto, che scuotono l'intera Francia, mentre il Paladino Orlando è steso in agonia a Roncisvalle (La Chanson de Roland, Lassa CX, vv. 1423 - 1437).

[85]Cfr. Daniele 10, 13-14. Questo problema fu affrontato teologicamente (Gregorio Magno, S. Tommaso, Suarez) sancendo che il reciproco conflitto tra Angeli, fedeli necessariamente al mandato ricevuto da Yahweh di proteggere le rispettive nazioni, dipendesse dal fatto che tali divini protettori ignorassero – almeno fino a quando non venisse loro rivelata – la vera volontà di Dio nel caso specifico di un conflitto in atto (GREGORIO MAGNO, Moralia in Job. XVII; TOMMASO, Sent. 2 d. 11 q. 2 a. 5; 4 d. 45  q.3 a.3; Summa Theol., 1 q. 113 a.8 (Utrum inter angelos possit esse pugna seu discordia).

[86] Deut., 4-6;  28, 15-68; Giosuè 23, 6-16; Ezechiele 39, 23-24.

[87] «La speranza dell'empio è come pula portata dal vento» (Sapienza 5, 14).

[88] La morte in una battaglia ingaggiata in nome di Cristo e per la Sua gloria è, per Bernardo di Chiaravalle, assimilabile senz'altro al martirio dei Santi e frutterà una ricompensa eterna, mentre l'uccisione del nemico – se il nemico è l'incarnazione di Satana – non è un omicidio, ma un "malicidio". Il guerriero giusto non deve pensare al guadagno, alla  ammirazione degli altri per il terrore che semina tra i nemici o alla gloria personale, ma alla vittoria e non deve presumere mai della propria forza, ma deve contare solo nella potenza del Signore, Dio degli eserciti (BERNARDO DI CHIARAVALLE, Liber ad milites templi. De laude novae militiae, 1; 2, 10-24; 4;  8, 5-7, 18-19. Cito da Oeuvres complètes, XXI, in Sources chrétiennes, Parigi, 1990).

[89] Salomone, ad es., pregando Yahweh, dice: «... poiché non c'è alcuno che non pecchi e Tu, adirato contro di loro, li consegnerai ad un nemico» (1 Re 8, 46). «Temere Dio, questo è sapienza, schivare il male, questo è intelligenza» (Giobbe 28, 28).

[90] Cfr. il singolare comportamento di Giosia contro Necao, re d'Egitto (2 Cronache 35, 20-24).

[91] Non è sempre facile distinguere un Angelo da un demone, perché «persino Satana si traveste come un angelo della luce» (2 Corinzi, 11-14). È il caso occorso, ad es., a Santa Giuliana narrata da Jacopo da Varazze, op. cit., XLIII. Nella pienezza dei tempi, poi, quando apparirà l'Anticristo, le imposture e le falsità si moltiplicheranno a dismisura. La vigilanza dovrà essere, allora, massima (2 Pietro 3, 1-10; 1 Giovanni 2, 18-28; 4, 1-3; 2 Giovanni 5, 7-11; Giuda 13, 17-18. Nella nota Pseudomonarchia daemonum di J. WIER, op. cit., che è un'appendice all'opera De praestigiis daemonum, l'elenco delle effimere elargizioni mondane dei demonii appare completo: sapere di ogni tipo, anche delle cose occulte, salute, amore, ricchezza, eloquenza, fama, gloria, potere, facoltà di costruire e di distruggere ogni cosa, di evocare i morti, di vendicarsi dei nemici, di invisibilità, di teletrasporto, etc. (cfr. la trad. it. a cura di P. Pizzari, Mondadori, Milano, 1994).

[92] Il Signore invia un Angelo di menzogna per ingannare i profeti di Acab (1 Re 22, 19-23). Cfr. anche 2 Cronache 18, 12-27.

[93] Oltre al Libro di Giobbe, cfr. anche Giuditta 8, 12 e ss.

[94] Deut. 20, 1-9; 1 Maccabei 3, 56. Poiché la battaglia è, del resto, causata dai demoni, si può scendere in battaglia anche senza armi e conseguire la vittoria protetti solo dal segno della Croce (J. DA VARAZZE, op. cit., CLXVI, S. Martino Vescovo, p. 909).

[95] Cfr. Salmi 33 (32), 16-17; 47 (46), 4; 48 (47), 4-8;1 Maccabei 3, 19. Il vissuto dell'impotenza generale del vivere profano, la cui consapevolezza, eclissatasi del tutto dopo l'avvento del razionalismo antropocentrico moderno e della secolarizzazione del nostro secolo ha reso del tutto incomprensibili le ragioni, e non solo quelle belliche, degli universi mitico-rituali premoderni.

[96] L'insegnamento di pace di Gesù – sebbene opportunamente precisato in un celebre passo (Matteo 10, 34) – non implicava, comunque, in alcun modo il perdono di Satana. «La bestemmia contro lo Spirito non sarà perdonata» (Matteo 12, 31). Cfr. anche, in proposito, M. KEEN, La cavalleria, op. cit., pp. 91 e ss.

[97] Come già segnalato, il notissimo Salmo 18 di Davide (anche in 2 Samuele 22) canta un'agghiacciante ierofania salvifica in cui Yahweh, annunziato da un sisma, appare su una nuvola nera come un vero e proprio drago sbuffante fumo dalle nari e fiamme dalla bocca, mentre scende dai cieli lanciando carboni ardenti e saettando folgori e frecce in groppa ad un cherubino.

[98] Basti rileggere Esodo 23, 20-32, ove Yahweh, per la conquista della terra di Canaan, promette al popolo eletto il sostegno devastatore di un Angelo, cui si deve obbedienza «perché il nome di Yahweh è in Lui».

[99] Si tratta di sconvolgenti epifanie meteoriche. Il Signore arriva con il ferro e con il fuoco, montando su un turbine di carri da guerra (Isaia 66, 15-16).Del resto gli stessi quattro venti sono intesi come carri rombanti, tirati da cavalli bai, neri, bianchi e pezzati, che muovono dai quadranti dell'universo, galoppando nell'aria (Zaccaria 6, 1-8). Per distruggerla, Yahweh manderà contro l'Elam i quattro venti (Geremia 49, 36).

[100] Significativa è l'identificazione, frequente nella Bibbia, tra il nulla, l'idolo e il demonio (cfr. Deuteronomio 32, 17; 1 Cronache 16, 26; Isaia 44, 9-20; 96, 5; Salmi 106 (105), 37. Cfr. anche 1 Corinzi 8, 4; 10, 19-22).

[101] Isaia 17, 13-14; Salmi 65 (64),8; in Salmi 144 (143), 5-7 i nemici di Davide sono senz'altro assimilati alle «grandi acque», cioè a quelle «di sopra» e a quelle «di sotto». Cfr. anche Apocalissi 17, 15; 19, 6.

[102] È noto l'episodio della morte di Uzza (2 Samuele 6, 7-8). Raffaele, uno dei sette angeli che «stanno al cospetto di Dio», pur apparendo in forma umana, terrorizza Tobia e Tobi, quando rivela loro la sua vera identità ( Tobia, 12, 15-19).

[103] I Re 19, 11-13.

[104] Cfr. 2 Cronache 5, 13.

[105] Cfr., ad es. in  Salmi 18, 13, il fulgore salvifico di Yahweh; Matteo 28, 2-3; Luca 24, 4; Giovanni 20, 11-12; Atti 1, 10.

[106] Cfr. E. CASSIN, La splendeur divine. Introduction à l'étude de la mentalité mésopotamienne, Mouton et Co., Parigi 1968. Cfr. in Daniele 10, 5-6, il fulgore di una apparizione angelica e in De coelesti hierarchia, cap. XV, par. 2, il ruolo privilegiato del fuoco su ogni altro elemento nelle rappresentazioni delle teofanie visive, secondo l'Areopagita.

[107] L'interpretazione simbolica, di matrice neoplatonica, di tali raffigurazioni, a partire da Filone, Clemente, Origene, PseudoDionigi e Gregorio di Nissa, ne ha stravolto del tutto il senso originario. Cfr. ad es. il De coelesti hierarchia dello PseudoDionigi, cap. I, par. 2-3; e, in particolare, Cap. II, par. 1, 5. Per l'approfondimento di tale complessa tematica, mi permetto di rinviare al testo di AA. VV., Mostri divini. Fenomenologia e logica della metamorfosi, Guida, Napoli, 1991, ove ho presentato, accanto ai contributi di altri eminenti saggisti, un'analisi fenomenologica introduttiva ad uno studio rinnovato del fenomeno ecumenico della metamorfosi.

[108] Il celebre Cherubino, che è il primo figlio di Dio a comparire sulla scena biblica come guardiano del Giardino dell'Eden, impugnando (?) una spada fiammeggiante, diventa una rutilante, mostruosa epifania meteorica nel Libro di Ezechiele, sicuramente per influssi della cultura religiosa mesopotamica, ricevuti dagli Ebrei durante gli anni della loro cattività babilonese, che hanno attivato probabili precedenti motivi cananei. Non molto diversi dai Sukkad (inviati) o dai mostruosi Kerub o Karibu, dai Lamassu e dagli Shedu, babilonesi e assiri, come i Tori androcefali,  barbuti ed alati, apotropaici, custodi delle soglie, ma, forse, più vicini alle Sfingi-grifoni siriache e mitanniche (II  millennio) e, soprattutto, alla divinità egiziana Harmertj dalla testa di Bes (cfr., in proposito, l'attento volume di M. BUSSAGLI, Storia degli Angeli. Racconto di immagini e di idee, op. cit., pp. 14 e ss.), i cherubini appaiono ad Ezechiele con testa umana, corpo di leone, gambe umane (?) con zoccoli di toro (come lucido bronzo) in luogo dei piedi e ali di aquila, quindi con quattro volti e con quattro ali ciascuno, sotto le quali spuntano mani d'uomo. Essi avanzano, cerimonialmente, con assoluta libertà di movimento, tenendosi uniti con due sole ali – mentre le altre due coprono il corpo – sia sollevandosi verticalmente, sia scivolando in linea orizzontale, rapidi come il baleno anche sulla terra. Ciascuno dei loro corpi, infatti, è munito al fianco di una ruota di grande circonferenza e i cerchi delle quattro ruote sono gremiti di occhi tutt'intorno (Ezechiele 1, 4-25). La polioftalmia angelica è segno della potenza nella vigilanza e nella profilassi apotropaica (Daniele 4, 10 e, poi, cfr. Zaccaria 3, 9 e 4, 10). Sebbene le componenti del loro sembiante non appaiono le medesime in una visione ricevuta da Ezechiele in un luogo diverso dal canale di Chebàr (Ez. 10, 1-17), ove gli occhi cospargono anche l'intero loro corpo, è indubbio che simili potenze, se, invece, di accompagnare la Gloria di Yahweh – come son soliti fare in tempo di pace – vengono lanciate nelle battaglie, trasformati, in tempore belli, in macchine da guerra, con il loro rombo delle ali, simile «al rumore di grandi acque, come il tuono dell'Onnipotente, come il fragore della tempesta, come il tumulto di un accampamento» (Ezechiele 1, 24), è impossibile ai nemici resistere loro. Secondo Ezechiele, poi, lo stesso Satana è un Cherubino "protettore" decaduto (Ezechiele 28, 14 - 19). Nell'Apocalisse di Giovanni, quattro esseri viventi con aspetto di leone, di vitello, di uomo e di aquila, pieni di occhi davanti e di dietro e muniti di sei ali, anch'esse costellate di occhi, rendono la gloria davanti al trono dell'Altissimo (6, 8).

[109] L'Angelo del Signore, che annunzia a Manoach e alla sua sterile moglie la nascita di Sansone, monta in cielo con la fiamma dell'altare dell'olocausto (Giudici 13, 20).

[110] Efesini 2, 2;  6, 12.

[111] Cfr. Daniele 14, 33 e ss.

[112] L'Arcangelo Michele, ad es., che, come già segnalato, suole prediligere le alture ove si scaricano i tuoni e i fulmini o le spelonche e gli orridi in cui scrosciano le acque ctonie (marine o dolci) e rombano i terremoti, sembra esalare nelle sue epifanie un sottile sentore nefasto, se è vero che il Guerriero celeste venne, di fatto, più riverito con timore che venerato con amore.

[113] Il passato e il futuro mitici, quindi, non sono omologabili al passato e al futuro storici. La rivelazione in quanto tale, sia essa profetica o no, rende sempre presente in carne ed ossa l'evento rivelato. Diversamente, non sarebbe «rivelazione». È, inoltre, impensabile che una profezia non ripeta i contenuti mitici essenziali tramandati dalla tradizione religiosa. Così il Regno messianico – sia esso di Davide o di Gesù – sembra la restaurazione della condizione edenica degli inizi, andata perduta per l'inganno riuscito, teso all'uomo dal Serpente.

[114] L'interpretazione metaforica o allegorica e la riduzione estetologica dei miti e dei riti, oggi molto in voga, sono state del tutto devastanti per gli studi odierni dedicati all'analisi del Sacro. Va rilevato, per altro, che l'esegesi allegorica è divenuta usuale presso gli Ebrei solo a partire dal II secolo d.C., ritengo per influenza ellenica. Nelle culture a base mitico-rituale i fatti – come, ad es., presso gli ebrei, gli eventi storici quali le invasioni assire, persiane, greche, romane, etc. – vengono spiegati dai miti perché i miti forniscono i concetti e le categorie per spiegare ogni cosa. I miti, pertanto, non possono essere intesi in queste culture come vuote allegorie dei fatti, perché – a differenza delle credenze occidentali, soprattutto moderne – il senso e l'esistenza sono frutto di rivelazioni potenti, sedimentate nei miti stessi, e non sono attinte da dati esperienziali.

[115] La dicotomia, ampiamente impiegata, Eterno – come l'al di là del tempo, cioè come atemporalità trascendente ­– e Tempo – come irreversibilità e consumazione, cioè come divenire storico immanente – è di origine ellenica e non giudaica. Per gli Ebrei, ad es., Yahweh «sempre fu, è e sarà», cioè vive in un tempo che scorre da sempre e procede all'infinito. Ma una simile formulazione, per un filosofo greco come Parmenide che per primo ha intuito l'essenza logica e ontologica dell'Eternità, sarebbe intimamente contraddittoria.

[116] La ripetizione domina da cima a fondo il pensiero e l'agire  mitico-rituali. Ad es. Giuda, prima di scontrarsi con Nicànore, prega Yahweh perché, inviando un Angelo, ripeta l'eccidio degli Assiri di Sennàcherib, puniti perché avevano bestemmiato Dio. La preghiera fu ovviamente esaudita (1 Maccabei 7, 40-50).

[117] Qumran, Regola della guerra, 1QM XIII, 14-16. La Regola della guerra (1QM) è un trattato bellico ebraico che fissa le norme per l'organizzazione e la strategia della comunità essena (da I sec. a. C. alla prima metà del I d. C.), fondato liturgicamente su precedenti mosaici, ed è esemplare per la palese, assoluta, identità che vi si riscontra tra guerra e lotta inesorabile contro il Male. Al suono prolungato della teruah che ricorda a Yahweh di soccorrere il popolo eletto nel tempo dell'angustia (XV, 1-3), si scontreranno per sei volte il figli della luce (ebrei), guidati da Dio e dall'intera assemblea angelica, con i figli delle tenebre (nazioni pagane), guidati da Belial. Solo al settimo assalto Belial sarà umiliato e tutti i suoi accoliti divini ed umani saranno sterminati per l'eternità (XVIII, 1-3).

[118] Cfr., ad es., Ezechiele 38 e 39 (la battaglia cosmica di Yahweh contro Gog, re di Magog); Zaccaria 9, 14-17.

[119] Cfr. l'Apocalisse di Isaia 24, 1 e ss., ove rispunta, tra una luna rossa e un sole pallido, l'antico motivo del Caos acqueo con l'apertura delle cateratte dei cieli (ibid., 18). «...ma il serpente mangerà la polvere» (Isaia 65, 25).

[120] Tribolazioni fisiche e morali, disordini sociali e cosmici imponenti (carestie, terremoti, guerre, eclissi di sole e di luna, caduta degli astri) piomberanno sull'umanità, quando Cristo giungerà sopra le nubi del cielo con tutti i Suoi angeli) Matteo 24, 1-31; 25, 31-46. Marco 13. In Luca 21, 8-28 ricompare il remoto mitologhema del fragore del mare e dei flutti che «angosciano i popoli».

[121] Cfr., ad es., l'Apocalisse di Esdra, VI, 15, 28-63; l'Apocalisse di Tommaso, II, 1-2, dove si profetizza «di un grande sollevamento del mare».

[122] Isaia 35, 5-10; Qumran, Regola della Comunità, 1QS IV ,12-26; La regola della guerra, 1QM XIV, 1-16.

[123] Isaia 25, 8; 26, 19; Apocalisse 7.

[124] Isaia 26, 14.

[125] Isaia 26, 15 («Hai fatto crescere la Nazione, Signore, hai dilatato tutti i confini del paese»).

[126] Amos 9, 11-15.

[127] Isaia 2, 4; 11, 6-9; 65, 25; Zaccaria 9, 9-10.

[128] Isaia 65, 17; Apocalisse 21, 1.

[129] Isaia  65, 18-24.

[130] Zaccaria 14.

[131] Sapienza 5, 15-23.

[132] Matteo 13, 39; 49.

[133] Malachia 3, 19.

[134] Gioele 2, 2.

[135] 1Tessalonicesi 5, 2-3; Come il Diluvio, l'Apocalisse giungerà all'improvviso perché, al di fuori del Padre, nessuno saprà il giorno e l'ora del suo arrivo, nemmeno gli Angeli o il Figlio (Matteo 24, 36-39).

[136] Ezechiele 33, 3-6; Osea 5, 8; Amos 3, 6; Gioele 2, 1; Matteo 24, 31.

[137] In Qumran, Regola della guerra, 1QM IX, 14-16, è imposto che su tutti gli scudi delle torri siano scritti i nomi angelici di Michele, Gabriele, Sariele e Raffaele; cfr. anche ibid., XII, e in particolare, 1-5.

[138] Zaccaria 14, 3.

[139] «Le porte dell'inferno non prevarranno» (Matteo 16, 18). I miti, come sistemi generali di sicurezza e di sostegno per le comunità e come modelli  per comprendere il mondo e, soprattutto, per agire razionalmente in esso, non possono che essere delle formulazioni essenzialmente positive ed ottimistiche.

[140] Apocalisse 1, 13-16.

[141] Ezechiele 1, 5-21.

[142] Come un uragano, schiere innumeri di Angeli e di «esseri dai molti occhi» grondano giù dalle fratture celesti in Apocalisse di Giovanni, 17.

[143] Apocalisse 4, 5-8; 5.

[144] Apocalisse 6; 7, 1-3.

[145] Apocalisse 8, 6-13.

[146] Apocalisse 10, 7.

[147] Apocalisse 9, 1-9.

[148] Apocalisse 9, 13-19.

[149] Apocalisse  12, 1-5.

[150] Apocalisse  12, 7-12. S. Michele vince, tuttavia, «per mezzo del sangue dell'Agnello».

[151] Apocalisse  12, 13-18; 13, 1-7.

[152] Apocalisse  14, 6-20; 15, 16.

[153] Apocalisse  16, 13-16.

[154] Lo spettacolo di uccelli rapaci che si cibano delle carni dei caduti sui campi di battaglia è, fin dalle più antiche testimonianze letterarie e figurative del Vicino Oriente antico, il simbolo stesso dell'abominio dei nemici sconfitti.

[155] Apocalisse 19, 11-21.

[156] Apocalisse 20, 1-3.

[157] Apocalisse 20, 7-9. Nell'apocrifo Apocalisse di Giovanni, 14, l'uragano di fuoco è una operazione distruttiva angelica.

[158] Apocalisse  20, 10-15. Cfr. anche Qumran, Inni contro i demoni, B Salmi di esorcismo, IIQII, III- V, ove gli eventi mitici, concernenti il soccorso di Yahweh e dei suoi Angeli e la carcerazione di Belial nello Sheol, si riattivano nell'esorcismo, ora come sarà. E l'indemoniato verrà, così, necessariamente liberato.

[159] Nell'Apocalisse di Pietro, 5, ove il giorno del giudizio è dominato dall'elemento igneo, crudele e inestinguibile,  le acque saranno trasformate in carboni ardenti e il mare stesso diventerà di fuoco. Cfr., anche, ibid., Oracoli sibillini cristiani, III, 195 e ss., 285 (angeli con fruste e catene di fuoco).

[160] Apocalisse 21, 10-27; 22, 1-5; Qumran, La nuova Gerusalemme, 2Q 24, 5Q15; nell'apocrifo Apocalissi di Paolo, 23, compaiono anche dodici torri e quattro fiumi, di miele, di latte, di vino e di olio.

[161] Apocalisse di Giovanni, 25. In questo caso il Regno Messianico, in generale, non è altro che la restaurazione della condizione edenica degli inizi, andata perduta con il peccato di Adamo.

[162] Per S. Bernardo, ad es., la II Crociata, indetta contro i Saraceni che minacciavano Gerusalemme, è la battaglia apocalittica delle schiere angeliche contro l'Anticristo, cioè contro Maometto.

[163] L'incomprensibilità radicale del comportamento bellico risuona potentemente in Qumran, I Q 27, Libro dei Misteri, fr. 1, col. 1, 9-12.

[164] Per un approfondimento fenomenologico di tale vissuto elementare, mi permetto di rinviare al mio contributo dal titolo Prove fenomenologiche su segni sacrali e, in particolare, al I paragrafo («La disperazione fossile»), contenuto in AA. VV., Filosofia in dialogo. Scritti in onore di Antimo Negri, a cura di F. Fanizza e di M. Signore, A. Pellicani, Roma, 1998, pp. 175.





La versione cartacea di questo articolo è uscita su:

Annuario Filosofico, XV, Mursia, Milano 1999, pp. 43-81.